Laurea honoris causa in Storia a Peter Brown
Storico dell'Università di Princeton

Sabato 26 maggio 2001 nell'Aula Magna storica della Sapienza, l'Università di Pisa ha conferito la laurea honoris causa a Peter Brown, eminente storico irlandese e professore alla Princeton University (NJ). Formatosi ad Oxford, in un fruttuoso rapporto intellettuale con Arnaldo Momigliano, Brown è stato per diversi anni lecturer e poi reader di Storia tardo-romana e bizantina della prestigiosa università britannica. Divenuto professore nel 1975 di "History and Classics" al Royal College dell'Università di Londra, già tre anni più tardi era chiamato ad insegnare negli Stati Uniti, prima a Berkeley e infine a Princeton.
Peter Brown è uno dei massimi storici di scuola anglo-americana.

Lectio doctoralis
"Agostino vescovo alla luce di nuovi documenti"

Tra i molti debiti contratti col mio mentore ed amico Arnaldo Momigliano, devo annoverare anche la sua insistenza nell'osservare che il sorgere della Chiesa cristiana nell'impero romano fu il mutamento specifico più rilevante degli ultimi secoli del mondo antico. Infatti, come mostrò Arnaldo Momigliano in una serie di articoli illuminanti, la storia della chiesa cristiana nell'impero romano è stata la storia del sorgere di una istituzione religiosa rimasta in contatto con le strutture di base della società romana. La Chiesa cristiana non solo arrivò ad a orientare le fedeltà di aristocratici come Ambrogio e di intellettuali come Agostino, ma al contempo si rivolse ai bisogni delle masse -- ai bisogni delle assemblee di fedeli semi-illetterati dei quali intravediamo i volti quando leggiamo i sermoni che Agostino pronunciò a Cartagine e a Ippona. Certo ricorderemo che Agostino passò almeno metà della sua vita come vescovo della chiesa cristiana, dal 395 al 430. In qualità di vescovo, si trovò in un ruolo di comando all'interno di un'istituzione che era in grado di raggiungere più persone, e ad un livello di coinvolgimento più profondo di quanto avessero potuto fare le maestose, ma più distanti strutture dell'impero romano. Il Cristianesimo scosse i loro animi, creando un nuovo tipo di fedeltà ad un impero ancora più grande, l'invisibile impero di Dio.

Fu nei primi anni Sessanta, e, principalmente, sotto la spinta vivace di Arnaldo Momigliano, che iniziai a pensare che una biografia di Agostino, in cui venisse dedicata all'evoluzione intellettuale e personale negli anni dell'episcopato (dal 395 in poi) altrettanta attenzione di quanto ne viene di solito data all'evoluzione intellettuale dell'Agostino più giovane (dal 370 al 387) avrebbe portato alla luce un vero e proprio giacimento interno alla fine del mondo antico. Attraverso lo studio di una personalità di rilievo su cui possediamo documentazione sicura, ci avrebbe infatti portato nel cuore stesso della Chiesa cristiana nascente -- ossia entro quel processo che dominò gli ultimi secoli dell'impero romano.

Intendevo seguire questo processo attraverso il caso di un uomo particolare, mostrando come la prima parte della carriera di Agostino lo avesse condotto alla ricerca del successo nelle strutture mondane dell'impero romano, e poi come, arrivato alla mezza età, si fosse adattato ad un altro mondo -- a nuovi orizzonti, ad una nuova comprensione della natura umana e ad un nuovo modo di vedere una società che lentamente si apriva davanti a lui nel corso dei decenni del suo servizio come vescovo nella Chiesa cattolica. Quando nel 1967 apparve la mia biografia Augustine of Hippo, due terzi di essa erano dedicati ad Agostino vescovo - alle sfide che egli si trovò ad affrontare, al suo lungo e gravoso adattamento all'esercizio dell'autorità, nonché alla continua riorganizzazione del suo pensiero che rifletteva le condizioni di una vita dedicata esattamente a quei processi che Arnaldo Momigliano, col suo consueto acume, aveva messo in parallelo col processo rivoluzionario legato al sorgere della Chiesa cristiana nell'ambito delle strutture dell'impero romano. Retrospettivamente, intitolerei ora quelle parti "Psicobiografia del potere episcopale".

Potete dunque immaginare con quale gioia crescente, molto dopo quel 1967 -- ossia, per essere precisi, nel 1981 e nel 1990 -- mi resi conto che una parte centrale della mia biografia di Agostino -- il mio ritratto di Agostino vescovo -- stava acquistando una nuova dimensione grazie a due scoperte che non avevo osato nemmeno sognare.

Nel 1975, il viennese Johannes Divjak (che per conto dell'Accademia Austriaca stava catalogando tutti i manoscritti di Agostino nelle biblioteche europee) trovò un manoscritto della metà del XV secolo nella Bibliothèque Municipale di Marsiglia. Conteneva ventisette lettere fino a quel momento sconosciute che ci forniscono molti dettagli sulla vita di un Agostino vescovo e ormai in età avanzata, di cui in precedenza non si sapeva niente.

E ancora, nel 1990, François Dolbeau intuì che in un manoscritto del tardo XV secolo catalogato di recente nella Stadtbibliothek di Magonza -- un manoscritto di pessima fattura e apparentemente privo di interesse -- erano contenuti serie di sermoni, di cui in precedenza conoscevamo solo i titoli e qualche breve estratto. Un gruppo di questi sermoni riflette la predicazione di Agostino a Cartagine nella primavera e nell'estate del 397 -- vale a dire, nell'anno cruciale dell'inizio della sua carriera di vescovo, in un periodo in cui le Confessioni stavano già prendendo forma nella sua mente. Un secondo gruppo di sermoni ci porta a Cartagine e alle piccole cittadine fuori Cartagine tra la fine dell'inverno e la primavera 403-404, in un momento in cui l'urgenza di una riforma del culto cattolico si associava ad una nuova offensiva cattolica contro pagani e Donatisti.

I due blocchi di nuove testimonianze vengono giustamente chiamati, da nome dei loro scopritori, le Lettere Divjak e i Sermoni Dolbeau. La mia impressione è che siano stati scoperti così tardi perché nel Medioevo erano stati copiati meno frequentemente di altre lettere e sermoni di Agostino. E questo è avvenuto proprio per quelle caratteristiche che li rendono così emozionanti per uno storico di oggi. Non sono sermoni e lettere dedicati alle verità senza tempo della teologia cattolica, con le quali i copisti medievali in ogni tempo e in ogni luogo potessero sentire un'affinità immediata. Al contrario, erano pieni di dettagli di vita quotidiana e profondamente radicati in un'Africa ormai distante del V secolo. Ai monaci e chierici dell'Europa del nord che ancora leggevano e copiavano con zelo le opere strettamente teologiche di Agostino, questi vividi documenti apparivano distanti. Come il suono delle campane di una città sommersa, venivano da un mondo antico, semi-pagano, che la Cristianità medievale europea si era lasciato dietro da un pezzo.

Ma le lettere e i sermoni riscoperti ci riportano direttamente in questo mondo -- il mondo della tarda antichità. Ritroviamo, ad esempio, nei sermoni, una Chiesa cattolica ancora immersa nel paganesimo di una grande città romana. I promontori di Cartagine erano ancora protetti dai santuari di Nettuno. Le statue classiche si ergevano ancora in tutti i luoghi pubblici ed erano rimaste oggetto di venerazione per i pagani e di segreta fascinazione anche per i Cristiani. Gli intellettuali guardavano ancora con disprezzo alla prospettiva di convertirsi al Cristianesimo e al rituale del battesimo cristiano.

Che? Dovrei diventare un cristiano come la mia serva - la mia ostiaria - e non un Platone o un Pitagora?

Per quanto riguarda Agostino stesso, François Dolbeau, lo scopritore dei sermoni di Magonza, ha trovato le parole più appropriate: leggere questi sermoni, dice, è un'esperienza paragonabile soltanto con "l'emozione che si prova quando un nastro registrato ci restituisce la voce di un amico che manca da tempo".

E allora iniziamo a seguire la sua voce.

Iniziamo nell'estate del 397. Ossia, quando Agostino era vescovo da poco. Attorno a lui si accalcavano le folle per conoscere le sue posizioni. Non solo volevano la sua opinione su quei punti che li distinguevano dai pagani e dagli eretici. Volevano sentire quel che aveva da dire sui temi che i Cattolici stavano appassionatamente discutendo tra di loro. Nei nuovi sermoni Dolbeau, vediamo Agostino che risponde a queste domande con una schiettezza ed un'autonomia di giudizio piuttosto insolite.

Su questioni di interpretazione biblica, ad esempio, egli sosteneva un'opinione sua propria, anche di fronte a commentatori di grande rilievo, come san Girolamo. Nondimeno, proprio mentre metteva in discussione le opinioni di san Girolamo, ossia della più grande autorità latina di quell'epoca, era pronto ad ammettere che egli stesso poteva essere in errore. La Parola di Dio stava al di sopra delle parole anche dei più colti tra gli esegeti -- al di sopra di Girolamo e anche al di sopra di Agostino:

Noi che predichiamo e scriviamo libri, scriviamo in una maniera completamente diversa dalla maniera in cui è stato scritto il canone delle scritture. Noi scriviamo mentre siamo in cammino. Impariamo qualcosa di nuovo ogni giorno. Dettiamo e nel contempo esploriamo. Parliamo, ma ancora stiamo bussando perché ci venga concesso di comprendere ... Mi appello alla vostra carità, per me e per quel che riguarda il mio caso, perché non prendiate i miei libri o la mia predicazione come Sacra Scrittura... Se qualcuno mi critica quando dico ciò che è giusto, mi fa un'ingiustizia. Ma mi adirerei di più con chi mi lodasse e prendesse quel che ho scritto come vangelo (canonicum) che con colui che mi critica ingiustamente.

Con identica apertura mentale Agostino affrontava altre questioni sulle quali l'opinione cristiana era divisa. Alla fine del IV secolo, ad esempio, i cristiani radicali tendevano a svalutare il matrimonio. Monaci celibi e vergini erano gli eroi di quell'epoca. Sembrava che i Cristiani sposati fossero Cristiani di second'ordine. Ancora una volta, Agostino cercò di prendere le distanze da queste idee molto diffuse. Osservò che Paolo stesso, nella sua Prima lettera ai Corinzi, aveva parlato diffusamente del matrimonio.

E cosa siamo noi in confronto alla santità di Paolo? Eppure arriva a questo: con devota umiltà, con parole salutari, Paolo è entrato nelle camere da letto degli uomini.

Con simili sermoni Agostino rivelava la sua determinazione a far capire con chiarezza che la Chiesa cattolica non era soltanto un corpo costituito da una élite spirituale di persone celibi. I semplici credenti sposati erano in essa importanti quanto le star del movimento ascetico. Gli sforzi dei Cristiani ordinari non dovevano essere messi in un angolo dalle questioni solevate dai petulanti radical chic dell'epoca.

Troviamo lo stesso atteggiamento -- un atteggiamento che sarei tentato di chiamare "democratico" -- nel suo approccio al culto dei santi. Nel 397, il culto dei martiri cristiani era uno dei tratti più importanti della vita cristiana a Cartagine. E, ancora una volta, Agostino impose a questa pratica il suo personale e caratteristico messaggio. Le festività dei santi erano un momento di magnificenza, segnato dalla sospensione della vita ordinaria -- con canti, buon vino e addirittura ritmi di danze. Lo spirito della festosa celebrazione popolare rispecchiava il modo in cui Dio aveva miracolosamente sospeso, nella persona del martire Suo servo, le severe leggi del dolore e della morte. La laetitia -- l'allegria disinibita e la felicità un' po' brilla -- della festa di un martire era un momento di splendore nella monotona esistenza dei Cristiani ordinari. Uno "splendore" che però non necessariamente giocava un ruolo nella loro vita quotidiana.

Agostino fece capire chiaramente che non vedeva in questo modo la festa di un martire. Già da prete, nelle sue lettere ad un collega più anziano, Aurelio di Cartagine, mostra una determinazione inflessibile ad eliminare dalla laetitia, dalla gioia per la celebrazione legata a queste feste gli aspetti più esuberanti -- il vino, i canti, la danza. I Sermoni Dolbeau del 397 richiamano i motivi più profondi del desiderio che Agostino aveva di riformare la pratica cattolica. Voleva prosciugare le feste dei martiri di tutti gli elementi drammatici così da rendere più chiaro il dramma della grazia di Dio all'opera nei cuori di ogni Cristiano. Era questra grazia, e non la morte drammatica dei martiri, ad essere veramente "amazing" [meravigliosa]. E questa "amazing grace" [grazia meravigliosa] era sempre presente. Era accessibile ad ogni Cristiano in ogni momento. Ogni Cristiano aveva la sua possibilità di essere un "martire".

Dio ha molti martiri in segreto. Noi non vogliamo tornare alle persecuzioni che i nostri predecessori hanno sofferto per mano delle autorità ... Ma il mondo non smette di perseguitarci. Quando avete i brividi per la febbre, state combattendo (come ogni martire). Siete a letto: proprio allora siete voi l'atleta (di Cristo).

Dobbiamo ricordare che i trattamenti della medicina romana comportavano grandi sofferenze; e che tutti quanti, Agostino incluso, credevano che gli amuleti, forniti da buoni maghi (molti dei quali erano ora cristiani) avrebbero veramente protetto chi soffriva -- ma al prezzo di confidare in poteri soprannaturali indipendenti da Cristo. Dunque, paragonare il letto di malattia di un Cristiano ad una scena di martirio non era un confronto irrealistico o esagerato.

La predicazione di Agostino su questo tema mirava a questo: che della gloria di Dio, celebrata in feste interminabili e infervorate presso le tombe dei santi sparse nei sobborghi di Cartagine, venisse portato un sentore in ogni casa cristiana. La grazia di Dio era ovunque ed era per ognuno. Egli poteva porre un pondus gloriae in ogni cuore.

Questi sermoni furono proprio tra i primi che Agostino pronunciò fuori di Ippona dopo esser diventato vescovo nel 396. Nel 404 la popolazione di Cartagine aveva ascoltato Agostino per altri sette anni. Non sempre aveva apprezzato quel che si era trovata ad ascoltare. Un gruppo successivo di Sermoni Dolbeau, che riflettono la predicazione a Cartagine nel 404, mostrano fino a che punto i tentativi di Agostino di riformare il culto cattolico dei martiri lo avesse reso impopolare presso molti membri della congregazione della chiesa di Cartagine.

Le parole che ora ascoltiamo sono severe. Agostino riferisce con approvazione dell'abolizione di canti, danze e bevute presso il sepolcro di san Cipriano, insieme a misure adottate per separare i sessi mentre entravano in chiese affollate e si accalcavano attorno alle tombe dei martiri. E all'improvviso, con nostra sorpresa, nel bel mezzo del lungo sermone opportunamente intitolato de Obedientia, Sull'obbedienza, troviamo un Agostino che parla di se stesso, quando era studente a Cartagine trent'anni prima:

Quando ero studente in questa città andai alla veglia in chiesa e passai la notte a sfregarmi con le donne, insieme ad altri ragazzi desiderosi di far colpo sulle ragazze, dovunque si fosse presentata un'opportunità di fare all'amore.

Agostino aveva scritto di questo episodio nelle Confessioni. Ma lo aveva fatto in maniera molto discreta e tralasciando i particolari. Senza questo nuovo sermone Dolbeau, non avremmo saputo niente di più preciso in materia.

Eppure, nonostante il tono autero del sermone Sull'obbedienza, gli altri "nuovi" sermoni di quel periodo rivelano, semmai, un intenso dialogo con un paganesimo di cui tendevamo a sottostimare il vigore prima che le cose venissero rimesse in discussione da questi nuovi documenti. Difatti, nei nuovi Sermoni Dolbeau, sentiamo Agostino che parla spontaneamente dei temi centrali della sua visione grandiosa della religione cristiana. In questi sermoni (sermoni che, dobbiamo tenerlo presente, furono trascritti da stenografi proprio mentre Agostino li pronunciava) ritroviamo i grandi temi delle Confessioni, del De Trinitate e della Città di Dio riportati in vita per noi nel latino parlato nelle strade di Cartagine e nei piccoli villaggi della vallata di Medjerda.

Voi, fratelli, che non avete l'acume per vedere ciò che costoro [i sapienti pagani] videro, che non siete in grado, col solo potere del pensiero, di elevarvi al di sopra delle cose create ... di vedere l'immutabile Iddio ... non siate impazienti e non abbandonate la speranza ... Che vantaggio ebbero costoro nel vedere la patria dell'anima a distanza, pieni di orgoglio? ... Hanno visto la patria dalla montagna dell'orgoglio, in piedi su un crinale che la sovrastava. Ma nessuno può giungere a quelle altezze se prima non discende nella valle sottostante ... Perché la nostra via conduce in basso, all'umiltà. Ce l'ha mostrato lo stesso Cristo, in se stesso. Chiunque si allontana da quella via si trova smarrito sul fianco di una montagna, un fianco pieno di sentieri tortuosi che non conducono da nessuna parte; e su queste pendici il Diavolo sta in agguato ...

Con le Lettere Divjak ci spostiamo ora avanti nel tempo di quindici anni -- precisamente negli anni Venti del V secolo, l'ultimo decennio della vita di Agostino, quando egli passsava dai sessanta ai settant'anni. E ci troviamo anche in uno scenario molto diverso. Siamo tornati a Ippona e, con Agostino, scrutiamo ora con uno sguardo pieno di apprensione l'intera estensione del Mediterraneo romano.

Le Lettere Divjak, ci ricordano davvero quanto era importante il fatto che Agostino fosse vescovo di una città chiamata Hippo Regius. Infatti "Hippo" era la parola punica per designare un "porto". E Hippo Regius era veramente il "Porto reale". Ippona era il porto che collegava l'hinterland della Numidia a Roma. Era di qui che passavano grano, tasse e, come vedremo, gli odiosi convogli di schiavi. Ogni anno il mare "sorrideva". La calma estiva si adagiava sul Mediterraneo, da marzo a ottobre, e i navigli leggeri navigavano da una costa all'altra. Navigare, "navigare fino a corte" -- in Italia, dal papa a Roma e dall'imperatore a Ravenna - è una formula ricorrente nelle Lettere Divjak. Il grande Alipio vescovo di Tagaste, amico di Agostino per tutta la vita, passava per il porto, o, più spesso, lo facevano i suoi emissari. Infatti, negli anni Venti del Quattrocento, Alipio passava gran parte della sua vita "per mare", sempre pronto a recarsi alla corte imperiale di Ravenna. In pratica era l'ambasciatore permanente della Chiesa cattolica d'Africa, colui che garantiva che le leggi contro Pelagiani e altri eretici venissero mantenute, ma anche colui che, come abbiamo appreso per la prima volta dalle Lettere Divjak, lottava costantemente per portare all'attenzione dell'imperatore i molti mali sociali dell'Africa.

E questi furono anni difficili per Agostino. Era un uomo che andava per i settant'anni, un senex, addirittura un papa, un grande vecchio. Al suo amico e futuro biografo Possidio Agostino scrive nel 419 che in tre mesi aveva dettato 6000 righe, qualcosa come 60.000 parole, senza considerare le nottate del sabato e della domenica, dedicate a preparare la stesura finale del suo Trattato sul Vangelo di san Giovanni. Sembrava non fermarsi mai. Erano appena arrivati altri tre pamphlet, da luoghi distanti come la Numidia meridionale e Gibilterra. Ancora una volta, la composizione della Città di Dio avrebbe dovuto attendere:

Sono irritato da tutte le richieste di intervento che mi impediscono di scrivere e che arrivano inattese da ogni dove. Interrompono e sospendono tutte le altre cose che avevamo così accuratamente disposto. Sembra che non finiscano mai.

Noi, naturalmente, come storici, siamo ben contenti che non finissero mai. In questo modo ci viene mostrato un aspetto della vita del vecchio Agostino di cui sapevamo ben poco, prima della scoperta delle Lettere Divjak. Pochi documenti come queste lettere (molte delle quali sono promemoria legali) hanno illustrato così vivacemente il grado e l'importanza del coinvolgimento di Agostino e dei suoi colleghi nei mali sociali della loro epoca.

Per illustrare quest'ultimo punto, spero che mi permetterete una digressione autobiografica. Conoscevamo da lungo tempo una lettera urgente che Agostino aveva scritto a papa Celestino, nel 422, raccontando i misfatti di un vescovo di campagna, Antonino di Fussala, che Agostino aveva collocato ai limiti estremi della diocesi di Ippona. Lessi quella lettera per la prima volta nel 1955, da studente, e rimasi colpito dalla sua vivacità. Era una storia di "intollerabile tirannia, avidità, angherie e abusi di vari tipi" che mi ricordava tutto ciò che avevo letto, quando studiavo la storia medievale, sulla violenza e il disordine associati al Medioevo "feudale" dell'Occidente. Accese la mia immaginazione. E così, devo confessare, fu per i misfatti del giovane Antonino di Fussala e non per gli aspetti più elevati del pensiero del vescovo di Ippona, che iniziai a dedicarmi allo studio di Agostino e della sua epoca.

Così potete immaginare cosa provai, circa trent'anni dopo, nel 1982, non appena mi resi conto, nell'aprire l'edizione intonsa delle appena pubblicate Lettere Divjak -- volendo essere precisi, in verità, fu proprio nel momento in cui le pagine in questione vennero fuori lentamente (molto lentamente, dato che eravamo nel 1982!) nel cassetto della macchina xerox -- che qui era presente un resoconto ancora più completo dei misfatti del giovane Antonino, scritto da Agostino per mettere in guardia una matrona romana della classe senatoria, Fabiola, alla quale Antonino si era appellato per ottenere protezione.

Troviamo Agostino in una situazione di impotenza. Era bloccato da settimane in piena campagna dove la gente parlava solo punico. Aveva visitato il villaggio di Fussala, dove gli abitanti gli avevano fatto vedere i buchi nelle case dalle quali Antonino aveva fatto portare via le pietre per costruire un nuovo splendido palazzo episcopale. Fabiola non doveva dare fiducia ad un uomo del genere.

Tu [da Cristiana benestante e devota] cerchi Dio all'interno del mondo -- il saeculum; costui cerca il mondo all'interno della chiesa.

Ma allora, cosa può fare la "chiesa" nel "mondo", nel saeculum? Questa domanda continuava ad ossessionare un Agostino ormai impegnato a terminare l'opera "grande e ardua" della Città di Dio.

Da questo punto di vista, le Lettere Divjak che Agostino scrisse negli ultimissimi anni della sua vita sono state per noi una sorpresa. Mettono a nudo la fragilità della Chiesa cattolica in Africa. Benché dipendesse da imperatori cattolici, a Ravenna, l'amministrazione imperiale rimaneva oppressiva e nettamente profana. Una Lettera Divjak, scritta all'inizio del 420, ad Alipio, lo mostra con chiarezza. I vescovi che avevano permesso a debitori di rifugiarsi nelle chiese venivano perseguiti dal governo imperiale per aver ostacolato "la necessità pubblica" della tassazione. Confrontati con le forze del saeculum, del "mondo" -- vale a dire, con i funzionari e con i grandi proprietari terrieri -- i vescovi cattolici dell'Africa rimanevano uomini di poca importanza, con poco potere. Le città e i poveri continuavano ad essere macinati, "mentre noi ci lamentiamo e siamo incapaci di aiutare".

Qualcosa di peggio sarebbe avvenuto pochi anni dopo, quando Agostino varcava la soglia dei settanta (e dunque era un uomo davvero vecchio secondo i criteri dell'epoca). La costa dell'Africa si stava aprendo, come mai era accaduto in precedenza, a bande di mercanti di schiavi e briganti.

Lanciando ululati di guerra, vestiti come soldati e barbari per incutere timore, invadono qua e là zone popolose e aree rurali remote.

Portavano via, riducendoli in schiavitù dei cittadini liberi romani. Colonne di uomini in cattività procedevano verso la costa, verso la stessa Ippona, dove le navi da trasporto per gli schiavi stavano all'ancora, sotto gli occhi della guardia costiera, che era entrata in collusione con i predoni. Agostino fece personalmente delle domande ad una ragazza terrorizzata, che gli raccontò, attraverso suo fratello, dell'incursione alla sua fattoria e dell'uccisione di quanti avevano tentato di opporsi. Eppure, proprio in quel momento, gli assistenti del vescovo, che avevano tentato di interrompere quel commercio, venivano processati per danni ad opera dei tetragoni protettori dei mercanti di schiavi.

In un modo o nell'altro, Alipio deve portare la questione all'attenzione dell'imperatore. Questo è quanto Alipio dovrà dire -- e ancora una volta, con la disinvolta maestria di un grande retore, Agostino dettava le nobili frasi, adatte a produrre un effetto su una corte lontana:

E' possibile resistere ai barbari quando l'esercito romano è in una buona condizione per il timore che dei Romani vengano tratti in prigionia dai barbari. Ma chi si opporrà a questi mercanti che si trovano dappertutto, che non trafficano in animali ma in leali Romani? ...

Chi resisterà, in nome della libertà romana -- non parlo della libertà comune dello stato romano, ma di quella privata e personale.

Alcuni anni dopo questo terribile episodio, nel 428 (ossia, due anni prima della sua morte) Agostino ricevette una lettera da un mondo più vecchio e più pacifico. Firmus, un colto nobiluomo di Cartagine, gli aveva scritto, mandandogli una copia degli esercizi retorici fatti a scuola da suo figlio, esercizi che il vecchio vescovo aveva chiesto di vedere. Firmus aveva incontrato Agostino a Cartagine, qualche anno prima, quando era stata tenuta una lettura pubblica del diciottesimo libro della Città di Dio, in tre pomeriggi consecutivi. Ora aveva letto la Città di Dio fino al libro decimo.

Eppure Firmus non era ancora convinto. Era restio ad essere battezzato, anche se sua moglie era già stata battezzata. Ma, per quanto Firmus conoscesse la letteratura cristiana, era la moglie, e non Firmus, ad avere quella conoscenza mistica (il rito del battesimo e l'accesso all'eucaristia) che le avrebbero salvato l'anima.

Così, tu puoi essere anche più erudito sulla dottrina, ma lei è più sicura [di ottenere la salvezza] in virtù della sua conoscenza dei misteri ... E così, di fatto, stai gettando via io frutti di tutti quei libri che ami. Quale frutto? Il frutto non è che alcuni [che hanno letto la Città di Dio] facciano una lettura interessante, né che imparino un po' di cose che non avevano conosciuto in precedenza. Ma che i lettori [della Città di Dio] possano capire qual è la [reale] "città di Dio" [la realtà di quella Gerusalemme celeste che attende i fedeli nella Chiesa cattolica]; che essi possano entrare senza ritardare in quella "città di Dio" e, una volta entrati, siano ancora di più spinti a rimanervi, entrandovi dapprima attraverso la rinascita [col battesimo] e poi continuando con l'amore della rettitudine. Se coloro dai quali questi libri sono letti e lodati non traducono in azione queste cose, a che servono questi libri ?

In una lettera fin qui sconosciuta ad un interlocutore fin qui sconosciuto troviamo l'ultima parola di Agostino sullo scopo della sua vita come scrittore.

Presto sarebbe morto. Ma altri, lo sapeva, avrebbero continuato a scrivere. "Il nostro piccolo greco", come Agostino chiamava il figlio di Firmus, aveva mostrato grande talento nella declamazione. Era promettente. "Voi tutti sapete che queste sono cose buone e assai vantaggiose". Ma questi doni erano lì per essere usati. Il ragazzo doveva ricordare il suo Cicerone:

L'eloquenza unita alla saggezza si è rivelata gran beneficio per gli stati; ma l'eloquenza senza saggezza è dannosa e non porta vantaggio a nessuno.

Il ragazzo doveva crescere fino ad essere ciò che Cicerone aveva detto che egli doveva essere:

un uomo ottimo, abile nella parola. Gli antichi sapevano quel che dicevano [continua Agostino] quando affermavano che se se si insegnano agli sciocchi le regole dell'eloquenza, non si forgiano oratori, ma si mettono armi in mano ai pazzi.

Nel frattempo, Firmus avrebbe dovuto riferire con esattezza ad Agostino che età aveva ora il ragazzo e quali testi greci e latini aveva letto.

Forse dobbiamo tener presente che Agostino non aveva letto manuali di storia tardo romana. Nessuno storico era venuto a dirgli che di lì a poco sarebbero iniziati i secoli bui. Non presagiva che mutamenti drammatici e irrevocabili avrebbero potuto abbattersi sul mondo cui era abituato, dunque non poteva preoccuparsene. Per quanto ne sapeva, la società romana e la cultura romana avrebbero potuto proseguire indisturbate. Cicerone sarebbe ancora stato mandato a memoria dai ragazzini e lo scintillante arsenale della retorica romana sarebbe stato ancora a disposizione -- per essere impiegato estremamente bene da taluni, come egli stesso si era sforzato di fare, e da altri, francamente, a parer suo come fanatici esibizionisti.

Nel complesso, è una lettera di insolito calore e delicatezza. E non ne sapevamo niente fino a vent'anni fa. Non è frequente che gli studiosi (grazie alla fortunata operosità dei loro colleghi) ricevano il dono di uno sguardo così inattesi e vivido su un uomo anziano che si era trovato ad affrontare, con serenità così insolita, l'ambivalenza essenziale del saeculum in cui aveva vissuto e in cui era stato conosciuto, ormai per molti anni, come il vescovo Agostino.

Bibliografia

Peter Brown, Augustine of Hippo: A Biography, Reprinted with Epilogue, London: Faber/Berkeley: University of California Press 2000. (tr. it. Agostino di Ippona, di prossima pubblicazione presso Einaudi, Torino).

Lettere Divjak: Scoperte nel 1975 da Johannes Divjak nella Bibliothèque Municipale di Marsiglia: in Oeuvres de Saint Augustin 46B: Lettres 1*-29*, Bibliothèque Augustinienne (Paris: Études augustiniennes 1987).

Sermoni di Magonza(Mainz)/Dolbeau: Scoperti nel 1990 da François Dolbeau nella Stadtbibliothek di Magonza: in Augustin d'Hippone: Vingt-Six Sermons au Peuple d'Afrique, ed. François Dolbeau (Paris: Institut d'Études augustiniennes 1996)

Altre opere di Peter Brown in italiano: per Einaudi Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto (1974), Religione e società nell'età di sant'Agostino (1975), Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosità (1983), La società e il sacro nella tarda antichità (1988), Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo (1992), Il filosofo e il monaco: due scelte tardoantiche (1993), Genesi della tarda antichità (2001); per Laterza Potere e cristianesimo nella tarda antichità (1995), La formazione dell'Europa cristiana. Universalismo e diversità 200-1000 d.C. (1995).


Ultimo aggionamento documento: 27-Jun-2006