Laurea magistrale honoris causa in Sociologia a Luciano Gallino
Il 19 gennaio 2011 l'Università di Pisa ha conferito la laurea magistrale honoris causa in "Sociologia" a Luciano Gallino.
Discorso del Rettore Massimo Mario Augello
Motivazioni del conferimento di Claudio Palazzolo
Laudatio di Mario Aldo Toscano
Lectio Magistralis di Luciano Gallino "La responsabilità sociale dell'impresa. Attualità della'fabbrica' Olivetti"
La nozione di responsabilità sociale e un caso da rivisitare
La letteratura internazionale definisce la responsabilità sociale dell’impresa come l’agire di un’impresa che in tutte le sue strategie e operazioni tiene conto delle loro possibili ricadute, positive e negative, su una pluralità di attori che in tali operazioni hanno una posta in gioco (e per questo sono detti stakeholders): i dipendenti; i sindacati; i giovani in cerca di lavoro; la collettività locale; gli enti territoriali; i fornitori vicini e lontani; l’amministrazione pubblica; l’ambiente. Oltre naturalmente agli azionisti, quando vi siano.
Un caso di impresa che esercitò ampie forme di responsabilità sociale fu la Olivetti di Ivrea, che ebbe importanti rapporti nel campo dell’elettronica con l’Università di Pisa nel periodo 1955-58 (rapporti sui quali tornerò in seguito). Poche imprese contemporanee possono reggere il confronto sul piano della responsabilità sociale con la Olivetti di allora. Come attestano, da un lato, le dolenti cronache quotidiane dell’economia e del lavoro; dall’altro, numerosi processi penali di questi anni, dalla Parmalat alla ThyssenKrupp, dal Petrolchimico di Marghera alla Eternit di Casale. Allorché capita di proporre un simile confronto, ci si espone all’obiezione che è divenuto impossibile per le imprese, nel mondo globalizzato, operare come faceva la Olivetti più di mezzo secolo fa. Vorrei provare a dimostrare che simile obiezione ha scarse fondamenta. Alla base dell’impegno nel campo della responsabilità sociale che quell’impresa esercitava v’erano due componenti. In primo luogo una superiore capacità di innovazione, sia di prodotto che di processo; una organizzazione del lavoro eccezionalmente efficiente, e una robusta macchina commerciale per distribuire i suoi prodotti. Nessuna di queste caratteristiche strutturali si può definire oggi obsoleta; nel mondo globalizzato tutte sono più attuali che mai – a condizione di saperle riprodurre.
In secondo luogo il governo dell’impresa, non meno che la gestione quotidiana della produzione, erano ispirati da una concezione dell’impresa che aveva forti venature etiche. Non erano scritte, ma operavano ad ogni livello dell’organizzazione. Se si guarda ad essa in questa duplice prospettiva, la Olivetti di allora appare singolarmente moderna. Lungi dal considerarla superata, la sua storia andrebbe rivisitata per vedere quante e quali delle sue caratteristiche potrebbero essere recuperate per introdurre nuovamente nell’economia un senso di responsabilità sociale delle imprese, non meno che una maggiore efficienza industriale, visto che in essa i due elementi erano inscindibili.
L’idea che l’impresa abbia responsabilità di molteplice ordine nei confronti della collettività aveva segnato tutta l’attività imprenditoriale di Adriano Olivetti, sin da quando era stato nominato nel 1932 direttore generale della società fondata nel 1908 dal padre Camillo; dal quale ereditò non solo la fabbrica, come la chiamava sempre, ma anche molte delle idee ispiratrici per dirigerla. Idee espresse in questo modo: la fabbrica chiede tanto ai suoi operai, in termini di intelligenza, fatica, vincoli sul lavoro, orari della vita quotidiana, organizzazione familiare, spostamenti, modifiche del territorio. In quanto si rende conto di chiedere tanto, ha il dovere di restituire molto.
Di fatto la Olivetti effettuava tale restituzione nei confronti dei dipendenti, della città e di tutto il territorio sotto forma sia di alti salari, sia di case per i dipendenti, scuole, biblioteche, ambulatori, asili, colonie estive, servizi sociali, mostre d’arte. Aveva così dato origine ad una sorta di stato sociale a misura di comunità che per dimensioni, completezza e qualità non aveva allora l’uguale, e oggi appare semplicemente inimmaginabile. Era un’impresa radicata nella comunità e nel territorio, per la quale, ad esempio, l’idea di trasferire all’estero il grosso della produzione al fine di ridurre i costi del lavoro sarebbe apparsa priva di senso.
Per altro la responsabilità sociale dell’impresa veniva esercitata in primo luogo dall’azienda di Ivrea su un piano più diretto che non i servizi sociali: adottando cioè come linea guida il principio di fare tutto il possibile per non licenziare mai nessuno. Ai giorni nostri l’adozione di tale principio, non appena fosse enunciato da un imprenditore, porterebbe a etichettarlo come uno sprovveduto. Per contro l’ingegner Olivetti, che aveva studiato l’organizzazione scientifica del lavoro in stabilimenti americani poco dopo la laurea, negli anni 20, realizzò incrementi straordinari della produttività del lavoro a Ivrea, ma non lo fece mai a scapito del personale. Quegli incrementi dovevano servire ad allargare il mercato, non a ridurre il numero dei dipendenti. Il padre Camillo, ch’era dubbioso e in parte contrario ai nuovi metodi organizzativi di discendenza tayloristica, importati dagli Usa, negli anni ’30 gli aveva scritto: “tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. Il figlio prese sul serio questa raccomandazione, posto che nel corso dell’espansione post-bellica dell’azienda eporediese in più di un’occasione buoni motivi per effettuare licenziamenti in massa si sono presentati, ma furono da lui sempre respinti, trovando il modo di rilanciare produzione e occupazione attraverso il mercato.
Responsabilità sociale e innovazione
Alla base della responsabilità sociale che quella “fabbrica” praticava v’erano i fattori strutturali che ho menzionato all’inizio. Anzitutto la continua innovazione dei prodotti, che fu sempre in cima alle sue priorità. Lo dimostra il fatto che in quel periodo essa giunse ad avere circa 1.500 addetti ad attività definibili in complesso come ricerca, sviluppo e progettazione, su una forza lavoro totale che in Italia superava di poco i 14.000 addetti. Inoltre aveva rapporti con varie università italiane, a partire da quella di Pisa, e centri di ricerca negli Stati Uniti. Ma intanto che si conseguivano tali successi, sin dai primi anni 50 a Ivrea si coltivava l’idea di produrre calcolatrici elettroniche. Pochi imprenditori italiani dell’epoca ne capivano la portata. E non era un’idea riservata a un piccolo gruppo di esperti. In un discorso tenuto a uina folla di lavoratori delle officine di Ivrea alla vigilia di Natale del 1955, il presidente annunciava a tutti la nascita di una nuova sezione di ricerca, dedita – cito - “a sviluppare gli aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapidamente condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi.”
L’annuncio si riferiva ai rapporti che erano stati stabiliti in primavera con l’Università di Pisa. Nel periodo 1955-58 essi hanno rappresentato un capitolo centrale nello sviluppo dell’informatica in Italia. Anche grazie ad essi tale settore conobbe per quasi due decenni, sia pure tra ripetuti alti e bassi, livelli di eccellenza mondiale, con un ultimo periodo di gloria nei primi anni 80.
Come molti dei presenti forse ricorderanno, l’Università di Pisa aveva deciso già nel 1954 di costruire una calcolatrice elettronica. Quell’anno il professor Marcello Conversi, allora direttore del Dipartimento di Fisica, d’intesa con il rettore Alessandro Faedo, illustre matematico, prende contatto con la Olivetti, proponendole di partecipare al progetto. Nella primavera del 1955 Adriano Olivetti, anche per sollecitazione del figlio Roberto che avrebbe in seguito avuto un ruolo di rilievo nel settore elettronico dell’azienda, invia a Pisa un gruppo di giovani ingegneri e matematici che giungerà ad avere una dozzina di componenti. La direzione viene affidata a un brillante ingegnere italo-cinese da lui reclutato negli Stati Uniti, Mario Tchou. Il gruppo di tecnici mandati da Ivrea lavorerà entro il Dipartimento di Fisica.
La collaborazione diretta tra il gruppo olivettiano e i ricercatori e i docenti dell’ateneo pisano durò tuttavia appena un anno. Il gruppo di Pisa puntava a una calcolatrice che avesse la potenza di calcolo e la flessibilità di programmazione necessarie per la ricerca scientifica. Al gruppo che faceva capo a Ivrea premeva invece che la macchina in progetto fosse contemporaneamente accessibile, quanto a reperimento ed elaborazione di dati, da un elevato numero di stazioni periferiche. Queste divergenze progettuali indussero la Olivetti a trasferire il suo gruppo, nella primavera del 1956, in una villa nel borgo di Barbaricina. Il gruppo prese nome di Laboratorio Studi e Ricerche Elettroniche. Proseguì comunque la collaborazione con l’Ateneo pisano, con scambi continui di persone e informazioni, e ricadute importanti soprattutto per quanto atteneva alla sostituzione delle valvole termoioniche, ingombranti ed energivore, con i transistori come unità base di computazione.
Dopodichè la storia dell’informatica e dell’elettronica italiane comincia a correre. Un prototipo pilota della Calcolatrice Elettronica Pisana viene inaugurato nel 1957; poco dopo gran parte del gruppo che l’aveva progettato si trasferisce al Cnr. Nell’estate del 1958 il Laboratorio olivettiano di Barbaricina, dove la produzione materiale di macchine che avevano le dimensioni di una stanza era impossibile, viene spostato a Borgolombardo nel milanese e considerevolmente accresciuto. Lo stesso anno viene messa in funzione nel Centro Meccanografico ed Elettronico degli stabilimenti di Ivrea l’Olivetti Elea 9001, una prima versione di quello che andrà sul mercato con la sigla 9003, concepito in gran parte a Barbaricina. Era uno dei primi grandi computer commerciali interamente progettati e costruiti in Europa. A novembre 1959 l’Elea 9003 viene presentato a Milano al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nel discorso tenuto in quell’occasione da Olivetti troviamo un singolare punto di contatto tra l’impresa innovatrice e l’impresa responsabile, tra l’idea e la realtà di entrambe. Ecco le sue testuali parole: “Con la realizzazione dell’Elea la nostra Società non estende semplicemente la sua tradizionale produzione a un nuovo settore di vastissime possibilità, ma tocca una meta in cui direttamente si invera quello che penso sia l’inalienabile, più alto fine che un’industria deve porsi, di operare cioè non soltanto per l’affermazione del proprio nome e del proprio lavoro, ma per il progresso comune – economico, sociale, etico della collettività.”
Guardiamo ora a come operano, in tema di innovazione, molte imprese contemporanee del nostro paese. Investono frazioni modeste del bilancio in ricerca e sviluppo in rapporto al numero degli addetti, assai inferiori a quelle di consimili imprese europee del medesimo settore. I grandi centri di ricerca dell’industria privata che distinguevano la nostra industria nel mondo sono stati ridimensionati in misura drastica o chiusi. Sono state chiuse anche le scuole aziendali che formavano tanto operai e impiegati quanto dirigenti. In compenso le imprese destinano frazioni iperboliche del bilancio alla retribuzione dei manager. Sembrano preferire l’acquisto di brevetti stranieri piuttosto che produrne in proprio, come mostrano le statistiche internazionali dei brevetti. Introducono poche e lente innovazioni di prodotto e di processo, per cui affrontano il problema della concorrenza internazionale puntando soprattutto sulla compressione del costo del lavoro. Se notiamo, ancora, come in una quantità rilevante di settori tecnologici di punta l’industria italiana dipenda oggi quasi per intero dall’estero, a cominciare proprio dall’informatica, occorre riconoscere che quell’impresa di allora quanto a capacità innovative avrebbe ancora oggi alcune cose da insegnare.
Produttività e organizzazione del lavoro
La responsabilità sociale della “fabbrica” di Ivrea dava corpo ad una specie di redistribuzione degli utili rivolta ai dipendenti e al territorio. È ovvio che allo scopo di poter distribuire utili anno dopo anno prima bisogna realizzarli. A questo riguardo sentiamo ripetere ogni giorno – e non si può a meno di convenirne - che una condizione fondamentale per il successo di un’impresa è la capacità di affrontare il mercato con un alto tasso di produttività. In effetti la fabbrica di quel periodo realizzava utili considerevoli perché operava con un tasso elevatissimo di produttività. Se si potesse stilare una classifica delle aziende italiane dei nostri giorni sulla base della produttività, e si aggiungesse la Olivetti di allora, è quasi certo che questa si collocherebbe in cima alla classifica. La produttività del lavoro nelle officine di Ivrea crebbe di oltre il 600 per cento nel periodo 1946-1958; la produzione, misurata in unità equiparate, crebbe di tredici volte, e il personale venne raddoppiato. Nello stesso periodo il fatturato salì di oltre sei volte in Italia, e di quasi diciotto volte all’estero, in gran parte dovuto a esportazioni da Ivrea. In altre parole un personale aumentato di due volte produceva alla fine del periodo un fatturato – facendo una media alla buona – cresciuto di dieci volte. Fattori principali di simili successi furono, oltre al continuo lancio di macchine per ufficio fortemente innovative, una organizzazione del lavoro di superiore efficienza; nonché una rete commerciale capace di vendere ogni genere di macchine a ogni genere di pubblico, dallo studente al negoziante, dalla grande impresa al ministero.
L’organizzazione del lavoro nelle officine di Ivrea fu uno dei capolavori dei loro dirigenti. Le macchine per ufficio, meccaniche ed elettromeccaniche, erano meccanismi complicati, formati da migliaia di componenti. Ogni singolo pezzo era prodotto negli stabilimenti di Ivrea, così come ogni fase di lavorazione eseguita: si trattava infatti di una fabbrica quasi del tutto integrata in senso verticale. Nella seconda metà degli anni 50 da quegli stabilimenti uscivano oltre 3.000 macchine per giorno lavorativo. Ciò significa che ogni giorno sei milioni di componenti erano fabbricati dal nulla per diventare tremila macchine funzionanti, collaudate e pronte per la spedizione. Per conseguire un simile risultato occorrevano migliaia di operai preparati – a questo fine esisteva un Centro interno di formazione meccanici dove transitavano ogni anno centinaia di giovani – e forme di organizzazione del lavoro che sapessero combinare l’efficienza del taylorismo con una concezione del lavoro rispettosa della persona e della sua intelligenza. In effetti la organizzazione del lavoro non determinava dall’alto i tempi, i metodi ed i movimenti del corpo; erano gli operai stessi, in collaborazione con i tecnici, a individuare quali fossero le operazioni in cui scomporre la lavorazione, e a quale ritmo e in quali modi dovevano venire eseguite.
Alla nostra epoca non c’è intervento dei dirigenti confindustriali, del ministro del lavoro di turno, di esperti radiotelevisivi, di manager, di politici dei maggiori schieramenti, che non rimarchi la necessità assoluta di aumentare la produttività del lavoro. Bisogna farlo, si afferma, per aumentare le retribuzioni, reggere la competizione con i paesi emergenti, rilanciare il tasso di crescita del paese. Quel che nella discussione sovente non è chiaro è che cosa realmente si intenda per produttività del lavoro. La definizione più appropriata di produttività del lavoro vede in essa il valore aggiunto (o frazione di Pil) prodotto per ora lavorata. Per contro, nella discussione corrente per produttività si intende quasi esclusivamente lavorare più in fretta. Bisogna accelerare i movimenti del lavoratore in modo da fare rientrare in ogni singolo minuto un maggior numero di operazioni. Ridurre le pause. Vietato obiettare al riguardo che l’organizzazione del lavoro studiata dai tecnici a tavolino, magari imposta da una lontana società capogruppo che sa poco dei problemi locali, spreca l’intelligenza e l’esperienza delle persone anziché utilizzarle al meglio. Che gli addetti alla ricerca e sviluppo potrebbero inventarsi un prodotto che combini un maggior valore d’uso con un minor costo industriale, facendo così crescere il valore aggiunto per ora lavorata. Vietato anche osservare che i componenti che arrivano in reparto da una regione vicina, oppure dalla Turchia, dal Vietnam o da un’altra parte del mondo, presentano spesso difetti o ritardi che provocano rallentamenti della produzione. Un problema che rende quasi impossibile valutare quale sia la produttività del lavoro di un dato stabilimento, visto che in moltissimi casi due terzi e più, in valore, d’un qualsiasi manufatto al presente provengono appunto dall’esterno. Per cui la eventuale maggior produttività di uno stabilimento a confronto di un altro potrebbe derivare da una catena globale di subfornitura più efficiente, non già dal fatto che nel primo si lavora più in fretta, o con orari più lunghi.
Nell’insieme, le obiezioni di cui sopra, se fosse lecito formularle, stanno a significare che allo scopo di aumentare la produttività del lavoro, e con essa i salari, non esiste soltanto la formula “lavorare più in fretta e più a lungo”. Esiste anche quella che consiste nel fare maggiori investimenti in capitale fisso, in ricerca e sviluppo, in innovazioni organizzative, formazione. Quegli investimenti che le imprese italiane da tempo non amano fare, o hanno fanno negli ultimi anni in misura inferiore rispetto a quella che gli utili realizzati avrebbero loro permesso. Che sono stati per un lungo periodo prima della crisi assai rilevanti. Per dire, i cinquanta maggiori gruppi italiani quotati in borsa hanno realizzato nel 2006 oltre 42 miliardi di utile. Nel 2007 sono andati vicino ai 50 miliardi.
Dopo avere equamente rimunerato gli azionisti, gran parte delle suddette imprese potevano spendere il resto degli utili in investimenti volti ad aumentare la produttività del lavoro. Hanno invece impiegato capitali colossali nel riacquisto di azioni proprie, o buybacks. Lungi dall’essere il segno d’una lungimirante politica industriale, come sono salutati senza fallo dai commentatori economici, i buybacks sono effettuati in prevalenza allo scopo di far salire il prezzo delle azioni. Avendo di mira un duplice risultato: rendere più ostici eventuali tentativi di scalata al proprio gruppo da parte di altri gruppi, e soprattutto aumentare il guadagno derivante dalle opzioni sulle azioni che i manager hanno sottoscritto in passato (senza anticipare un euro), in attesa di tempi in cui il valore delle azioni sale. Quelli, appunto, che il riacquisto delle azioni proprie aiuta ad avvicinare. Risultati conseguiti, di fatto, a scapito degli investimenti e dell’aumento che questi avrebbero potuto recare alla produttività del lavoro.
La capacità di creare il mercato
La Olivetti fu anche un caso fuor del comune di impresa orientata al mercato; in essa l’organizzazione commerciale fu sempre oggetto di grandi attenzioni. Arrivò a sviluppare una politica di marketing, come si direbbe oggi, particolarmente aggressiva. Non era un’azienda che, come la maggior parte delle aziende d’allora, formulasse delle previsioni di vendita, passando poi a produrre in base alle previsioni e a sperare che i magazzini si svuotassero perché le previsioni si rivelavano in seguito vere. Essa creava il suo mercato in primo luogo fabbricando prodotti dall’evidente e rilevante valore d’uso. In secondo luogo facendo conoscere i suoi prodotti alle imprese, agli enti pubblici, ai commercianti, alle famiglie sia per mezzo di una pubblicità di inusitato livello, sia con l’apporto di un esercito di giovani venditori ben preparati che coprivano il territorio offrendo letteralmente di porta in porta la macchina da scrivere o da calcolo più adatta, acquistabile anche a rate. Basti dire che nel 1958, su una forza lavoro di 14.300 persone in totale, gli addetti all’organizzazione commerciale erano 3.150, cioè oltre il 20 per cento. Un rapporto osservabile in pochissime aziende dell’epoca.
Alla forza dell’apparato distributivo sul terreno si aggiungeva un insieme di strumenti di comunicazione aziendale, integrati tra loro, che andavano dal design all’architettura e alla grafica. La linea delle macchine meccaniche ed elettromeccaniche era opera dei maggiori designer dell’epoca, quali Marcello Nizzoli. Il calcolatore Elea 9003, firmato da Ettore Sottsass, fu sicuramente il mainframe esteticamente più raffinato tra quelli che cominciavano a entrare nelle industrie e nelle amministrazioni pubbliche. Alla costruzione degli stabilimenti industriali, ma anche degli edifici che ospitavano assistenti sociali, centri studi e biblioteche aziendali hanno lavorato i migliori architetti dell’epoca. La pubblicità e le riviste di cultura che con l’azienda non avevano nulla a che fare ma che essa finanziava, erano allora senza eguali per la qualità della grafica.
All’efficacia dell’organizzazione commerciale e della comunicazione aziendale, sommata all’innovazione dei prodotti ed all’efficienza organizzativa, si debbono gli spettacolari aumenti del fatturato di quel periodo. Dai quali derivavano utili elevatissimi. A questo riguardo, facendo riferimento alle macchine di fascia alta, quali le calcolatrici elettromeccaniche e le contabili, è dato stimare che il prezzo di vendita fosse pari a cinque-sei volte il costo combinato della produzione e della distribuzione. Indicativamente, nel 1958 una macchina da calcolo elettromeccanica che comportava un costo industriale pari a 100 tra lavoro produttivo, materiali, uso del capitale fisso, e distribuzione, era venduta nelle filiali a 500. Beninteso a queste voci di costo ne andavano aggiunte altre, in primo luogo le spese generali. Resta il fatto che un rapporto di 1 a 5, tra i costi di produzione e distribuzione, e il fatturato, farebbe sognare qualunque imprenditore contemporaneo. E i volumi di vendita della Olivetti erano cospicui: le sue macchine si vendevano a decine di migliaia al mese, in Europa e nel mondo, sbaragliando concorrenti che si chiamavano Remington e Underwood, Triumph e Adler.
Oggi nella creazione del mercato di prodotti industriali la presenza umana, il rapporto con il potenziale acquirente, insieme con quasi tutto il flusso della comunicazione aziendale diretta al pubblico, è stata sostituita dalla TV, dai call center e dai magazines che più volte alla settimana triplicano il peso cartaceo dei quotidiani. Nonchè dalle riunioni delle direzioni marketing che discutono per settimane sulla sfumatura di colore più adatta da conferire a un prodotto a seconda della fascia di pubblico assunto come target o bersaglio, preventivamente categorizzato per età, genere, grado di istruzione, professione, livello di reddito, residenza, situazione familiare. In altre parole non si mira più a creare il mercato mediante persone reali che dimostrano a persone reali quale sia il valore d’uso del prodotto; si mira per contro a creare anzitutto il consumatore. E’ un’economia che, come ha scritto un politologo, “è incapace di vendere ai poveri ciò di cui hanno bisogno (non rende), ma cerca disperatamente di vendere ai benestanti ciò di cui non hanno bisogno”. Il che rappresenta un ulteriore passo verso la completa separazione tra consumatore e cittadino.
Destinazione dei profitti e concezione dell’impresa
Sulla base dei cospicui profitti conseguiti, la Olivetti poteva procedere a ridistribuirne un’ampia quota sul territorio. Quei profitti che avrebbero potuto venire destinati quasi per intero agli azionisti, o ai manager. Qui si intravvede il fattore metastrutturale del modo socialmente responsabile in essa operava. Era la concezione stessa dell’impresa, affatto contraria al paradigma per cui la missione dell’impresa è unicamente quella di creare valore per gli azionisti. Affermazione oggi spesso citata alla buona, si noti, la quale poggia però su una elaborata teoria del governo dell’impresa. Ad essa hanno contribuito, per citare solo i nomi più conosciuti, un economista americano della Scuola di Chicago, Milton Friedman, secondo il quale l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quella di fare buoni affari, e uno di origine italiana, Franco Modigliani, co-autore di un teorema base per la teoria del primato del valore per l’azionista. Una teoria economica divenuta slogan, ripetuto ai nostri giorni su ogni quotidiano, specializzato o meno, trasmesso incessantemente da tutti i mezzi di comunicazione, presente in centinaia di siti web. La concezione dominante allora era del tutto opposta. Si fondava sull’idea che l’impresa dovesse creare ricchezza non solo per gli azionisti, bensì per il maggior numero di persone toccate dalla sua attività. Dovesse anzitutto creare occupazione, ma al tempo stesso diffondere sul territorio, nelle comunità, nei paesi, nei luoghi circostanti, i frutti del lavoro, i ricavi del successo conseguito sul mercato, redistribuendo gran parte dei profitti.
Questa che oggi appare una concezione quasi rivoluzionaria, rispetto alla reiterata affermazione circa il posto essenziale che nelle finalità dell’impresa ha il valore per gli azionisti, non deve certo condurre a ignorare che nella odierna adozione generale del paradigma della creazione di valore per gli azionisti come finalità esclusiva dell’impresa abbiano avuto notevole incidenza in i mutamenti economici e sociali intercorsi negli ultimi decenni. Mi riferisco in specie allo sviluppo delle componenti finanziarie dell’economia, nonché alla fortemente accresciuta, per velocità e intensità, interdipendenza dei mercati mondiali, quella che va sotto il nome di globalizzazione. Sappiamo bene che al presente il peso assunto nel capitale delle imprese dagli investitori istituzionali, quali i grandi fondi pensione anglosassoni ed i fondi comuni di investimento, fa sì che i dirigenti delle prime siano inevitabilmente portati a badare al rendimento che essi debbono in qualche modo fornire al capitale investito nelle loro azioni e obbligazioni da questi tipi di investitori. Ponendo un’attenzione non minore, e talora maggiore, di quella portata alla quantità e alla qualità dei prodotti o dei servizi che la loro azienda produce. Occorre dunque riconoscere che l’impresa contemporanea è un organismo, ed opera in un sistema economico, assai mutati rispetto ai tempi di cui parliamo.
Nondimeno, stando ad alcuni fatti che ai nostri tempi accadono quasi ogni giorno, non sembra che tutti i mutamenti intercorsi da allora siano positivi per la collettività, e nemmeno inesorabilmente necessari sotto il profilo economico. Non sembra un fatto positivo, ad esempio, e tantomeno necessario, che i valori di borsa di regola salgano quando un’impresa licenzia alcune migliaia di dipendenti. Oppure che una comunità si scopra all’improvviso privata della sua principale fonte di occupazione e di reddito perché l’unica impresa locale ha deciso di de-localizzare la produzione nelle Filippine. Dove produrrà a un costo pari a un terzo di quello italiano, per vendere poi sul nostro mercato nazionale i medesimi prodotti quasi allo stesso prezzo di prima; una ricetta di sicuro efficace per far salire l’utile operativo, sebbene non dipenda da alcuna innovazione di prodotto o di processo. Nemmeno sembra positivo per la collettività e necessario in tema di razionalità economica che i valori azionari siano per lunghi periodi del tutto slegati dall’andamento della produzione di beni e servizi reali che un’impresa offre al mercato. Per cui accade – è realmente accaduto, e continua ad accadere - che imprese, per dire, che hanno alcune centinaia di dipendenti e 50 milioni di fatturato possano arrivare a valere in borsa miliardi di euro. E per quanto la teoria del rapporto tra principale e agente in tema di governo dell’impresa si sforzi di giustificarlo, non si vede dove stia il progresso industriale e la razionalità economica nel caso di imprese che versano ai loro top manager compensi pari ad alcune centinaia di volte – in certi casi migliaia di volte – il salario medio annuo di un impiegato o un operaio, in luogo di destinarli alla innovazione di prodotto e di processo.
E’ lecito pertanto affermare che questi fatti non discendono da logiche inconfutabili dell’economia, bensì dalla scelta di una concezione dell’impresa che è opposta e antitetica rispetto a quella che predominò a Ivrea. Non sembra dunque sufficiente porre in disparte, in quanto ormai obsoleta, la concezione che veniva allora praticata, asserendo semplicemente che i tempi sono cambiati; che occorre far fronte alla globalizzazione; infine che gli investitori istituzionali hanno acquisito maggior peso nella matrice decisionale dell’impresa, per cui non resta che accettare la massimizzazione del valore azionario come la missione primaria di essa. E’ piuttosto possibile che in questo spostamento del baricentro da una concezione all’altra delle finalità dell’impresa, sospinto da logiche finanziarie assai più che da esigenze industriali, qualcosa di vitale per la prosperità della nostra economia, ma anche per il nostro modello di convivenza civile, sia andato perduto.
Le cause del declino non stanno nel mondo che è cambiato
A questo punto viene naturale formulare una domanda conclusiva. Se la Olivetti di quel tempo era davvero un leader nazionale e mondiale quanto a capacità innovative, organizzazione della produzione e del lavoro, strategie commerciali; se a tali caratteri sommava fama e rispetto internazionale per il modo in cui esercitava la responsabilità sociale in campo economico, sociale ed etico, come si spiega il suo declino, sino a scomparire di fatto dal novero delle maggiori industrie italiane? Si possono distinguere in esso varie cause, tra le quali non rientra affatto la trita notazione che il mondo è cambiato. Le cause furono il destino; l’insipienza di alcuni manager e politici; infine le strategie errate dei dirigenti di Ivrea negli anni 60 e 70.
Il destino sta in poche date e nomi. Nel febbraio 1960 muore all’improvviso Adriano Olivetti. Aveva appena 59 anni. Ed aveva appena acquisito il controllo della Underwood, secondo costruttore americano di macchine per ufficio. Tramite le migliaia di filiali della Underwood, Olivetti progettava di aprire nuovi canali in Usa per la diffusione dei prodotti concepiti a Ivrea. Era un’operazione assai impegnativa sotto il rispetto finanziario, industriale, organizzativo. Per condurla in porto sarebbero state necessari tutti i talenti e le energie del suo ideatore. Scomparso lui, l’operazione Underwood si trasformò in breve da quella che era di fatto una straordinaria opportunità in un onere che Ivrea non sapeva come sopportare. E le difficoltà generali dell’azienda coinvolsero anche il settore dell’elettronica.
Qui intervenne un altro atto del destino. Nel novembre del 1961 muore in un incidente d’auto Mario Tchou, l’ingegnere che aveva guidato il gruppo di progetto del calcolatore Elea 9003, prima a Pisa poi a Borgolombardo. Per la divisione elettronica della Olivetti è una perdita gravissima. In pratica nessuno è in grado di succedergli, né sul piano della genialità progettuale, né su quello delle capacità manageriali. Soprattutto la divisione perde la voce più autorevole che avesse nei rapporti con centri di ricerca e manager nazionali e internazionali, ed anche con i dirigenti del settore elettromeccanico, che non guardavano ad essa con particolare simpatia.
Priva di difensori forti verso l’esterno e verso l’interno, la divisione elettronica avrebbe forse potuto essere salvata dal gruppo industrial-finanziario che era stato costituito per sostenere l’azienda nel difficile periodo di transizione apertosi con la scomparsa di Adriano Olivetti. Partners principali del gruppo di intervento, cui partecipavano anche Monte dei Paschi, Pirelli e IMI, erano Fiat e Mediobanca. Qui entra in gioco l’insipienza di alcuni manager e politici. Durante l’assemblea degli azionisti Fiat tenutasi il 30 aprile 1964, il presidente Vittorio Valletta dichiarò che la società di Ivrea era ancora strutturalmente solida, ma sul suo futuro pendeva - cito alla lettera - “una minaccia, un neo da estirpare”: il settore elettronico. Non un solo dirigente di spicco dell’economia italiana, non un solo ministro o politico levarono la voce per sostenere che se si estirpava quel cosiddetto neo, si comprometteva al tempo stesso anche gran parte del futuro industriale del nostro paese. Alle parole seguirono i fatti. Nell’agosto dello stesso anno la divisione elettronica, tranne il reparto che stava lavorando a un computer da tavolo, passava sotto il controllo della General Electric, grande produttrice di motori avio e turbine per centrali, ma singolarmente inetta in campo informatico. Deteneva appena il 2 per cento del mercato dei mainframes. Pochi anni dopo la GE usciva da questo settore, cedendolo alla Honeywell, comprese le residue strutture dell’elettronica Olivetti.
Di loro, nel declino dell’azienda, i dirigenti di Ivrea ci misero l’ostinazione con cui continuarono a produrre per tutti gli anni 60 e 70 macchine per ufficio elettromeccaniche, da ultimo anche con inserti elettronici. Per un lungo periodo quella tecnologia aveva dominato il mercato, e generato, come ho ricordato prima, utili rilevantissimi. Perché abbandonarla? Bisognava, al massimo, ammodernarla rendendo le macchine sempre più automatiche e multifunzionali. L’informatica era considerata, al confronto, un settore di nicchia. Nella teoria dell’impresa, questo errore strategico si chiama “dipendenza dal sentiero battuto” (path dependence). Si noti che nel 1965 il gruppo di addetti alla microinformatica scampati alla GE, capeggiati da Pier Giorgio Perotto, uno dei giovani talenti che si era distinto a Barbaricina, aveva lanciato il primo desk computer del mondo – così venne salutato dalla stampa americana. Si chiamava Programma 101, ed era in anticipo di oltre dieci anni sui PC che avrebbero prodotto la IBM e la Apple. Fu anche un successo commerciale: in cinque anni ne furono venduti 44.000 unità. Nondimeno per reggere al continuo sviluppo della concorrenza, allora soprattutto giapponese e coreana, sarebbero stati necessari investimenti che la direzione dell’azienda non ritenne opportuno fare. Così la sorte della Olivetti come impresa leader nel campo della elaborazione dati fu segnata. Il declino sarebbe stato arrestato per poco grazie alla produzione, nei primi anni 80, di personal computer di successo, quale il famoso M24. Ma si trattava di macchine assemblate con componenti interamente progettati da altri, dal microprocessore al video, dalla tastiera alle schede di memoria. Una ricetta che permette di creare valore aggiunto solo in misura assai limitata.
Ai nostri giorni si possono leggere in Internet, a decine, i codici etici di imprese medie e grandi, italiane e straniere operanti in Italia. E’ una lettura vivamente raccomandabile. Sono in generale documenti di cui ogni pagina attesta il superiore grado di responsabilità sociale al quale si ispira l’impresa che li pubblica. In effetti va riconosciuto che alcuni corrispondono alle pratiche della relativa impresa. In altri casi, non oso dire la maggioranza, le pratiche aziendali di cui si ha notizia, in campo economico, sociale, etico, sono abissalmente lontane dal codice pubblicato. A dire il vero la Olivetti non pubblicò mai un codice etico. Ma il caso di quella “fabbrica”, con i suoi tanti fili che passarono anche per Pisa e Barbaricina, offre ancora oggi stimoli e suggestioni circa il modo in cui si potrebbero raccordare, nonostante i mutamenti del mondo, le pratiche che si seguono in realtà nel governare un’impresa con gli ideali da essa dichiarati.
Ultimo aggionamento documento: 20-Jan-2011