Laurea honoris causa in Storia a Romano Prodi
Presidente della Commissione europea
Il 12 ottobre del 2001 l'Università di Pisa, su proposta della Facoltà di Lettere e filosofia, ha conferito la laurea honoris causa in Storia a Romano Prodi.
Laudatio pronunciata dal Preside della Facoltà, prof. Gianfranco Fioravanti
Lectio doctoralis
"La costruzione della Comunità e le nuove sfide dell'Unione"
Signore e signori,
in varie occasioni ho avuto modo di affermare che l'Europa è una delle storie di successo del nostro tempo. Un successo il cui simbolo più diretto, più concreto - la moneta unica - sarà tra meno di ottanta giorni nelle mani di centinaia di milioni di Europei.
L'integrazione europea è stata, in fondo, la prima "rivoluzione di velluto" del XX secolo, che ha permesso di superare concezioni e posizioni che avevano caratterizzato secoli di storia. E' anzi la rivoluzione di velluto che ha permesso di cogliere a pieno i frutti della guerra fredda.
Essa va oltre la rigida identificazione tra cittadinanza, società civile, comunità, nazione e Stato.
In Europa, si è allo stesso tempo cittadini del proprio Stato e cittadini dell'Unione.
In Europa si può essere "minoranza felice" in uno Stato. Vi sono funzioni storiche dello Stato che vengono esercitate in una maniera del tutto nuova e originale. Allo stesso tempo, anche in paesi per lungo tempo centralizzati, si sta procedendo ad un forte decentramento, per riconoscere le nuove esigenza politiche e le peculiarità storiche delle comunità regionali e locali. Contrariamente alle previsioni di molti, l'allargamento e il rafforzamento dell'Unione viene accompagnato da un allargamento e un rafforzamento delle autonomie locali. Il principio di sussidiarietà diviene ovunque pratica quotidiana.
E tutto avviene consensualmente, non in modo unilaterale.
Gli Stati e i popoli dell'Unione si sono sforzati di comprendere le ragioni gli uni degli altri, anziché imporre ad ogni costo le proprie. Lo spirito comunitario è sopratutto caratterizzato proprio dall'attenzione per le ragioni degli altri e dalla volontà di procedere insieme per promuovere un interesse comunitario generale. Siamo lontani dall'unilateralità, dal fatto compiuto, dall'uso della forza politica o economica per imporre decisioni dei grandi sui piccoli, dei forti sui deboli.
L'Europa comunitaria ha permesso di superare la convinzione per cui la pace può essere garantita dal cambiamento delle frontiere, dal rafforzamento dei confini, dagli spostamenti delle popolazioni. E' lo stesso principio che, pur con grande sforzo e, per ora, un limitato successo, noi stiamo applicando nella nostra politica nei balcani.
Quando si circola in macchina nell'Unione, spesso non ci si accorge neppure di aver attraversato una frontiera. Tendiamo a dimenticarlo, ma questo è un grande successo dell'Europa. Non è infatti la frontiera ma l'adesione a fondamentali principi comuni - oggi raccolti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione - a garantire le diversità e le specificità nazionali, comunitarie, regionali o locali nell'Unione. Un'Unione delle diversità, quindi: un'alleanza di minoranze.
Ciò che può sorprendere, è che questo successo è nato sulle ceneri di un fallimento, quella della Comunità europea di difesa e della Comunità politica europea, nel 1953. In effetti, il trattato di Roma appariva, nel 1957, un semplice palliativo innanzi all'impossibilità di perseguire una rapida strategia federalista, che pure era stata sviluppata ed approfondita negli ultimi anni di guerra e nei primi anni dell'immediato dopoguerra.
Ed è anche interessante notare che, sempre nel 1953, il tentativo di lanciare un modello federale fu affidato ad un'Assemblea di parlamentari - l'Assemblea della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio - a cui fu dato il mandato di realizzare "una costruzione federale o confederale, fondata sui principi della separazione dei poteri e basata, in particolare, su un sistema bicamerale" (progetto di trattato sulla Comunità europea di difesa - CED).
Interessante, dicevo, perché, di fronte al fallimento di questo tentativo, la costruzione europea ha continuato ad avanzare, ma lo ha fatto senza affrontare le questioni politiche di fondo: le finalità politiche dell'Unione, la separazione dei poteri, l'esercizio del potere legislativo, la dimensione democratica dell'Unione.
Negli anni Cinquanta, il contesto politico internazionale rendeva possibile solo un "trattato-quadro", che dette vita ad un negoziato istituzionale permanente in settori tecnici.
Settori imposti dalle necessità di politica economica del momento, secondo un metodo che poteva assicurare il più alto grado di integrazione economica/settoriale con i minimi sacrifici politici ma che non implicava radicali ed immediati cambiamenti nella concezione dello Stato.
Nel frattempo, attraverso un sapiente e delicato equilibrio tra interessi nazionali, tendenze federali e azione sovranazionale, di cui le Istituzioni dell'Unione rappresentano la massima espressione, l'Europa è andata avanti, passo dopo passo. Nella dottrina, questo metodo - che passa sotto il nome di metodo Monet - ha avuto successi crescenti, ha costruito l'Europa che noi conosciamo, ma oggi non basta più.
L'affermarsi di una nuova dimensione politica dell'Unione ci impone oggi di dare una risposta adeguata alle numerose aspettative dei nostri cittadini, nel momento in cui l'Unione:
- chiama i cittadini al voto, ogni cinque anni;
- si riferisce a concetti e progetti come la "cittadinanza europea";
- proclama una Carta dei diritti fondamentali;
- adotta una moneta comune alla maggioranza dei suoi membri;
- si prefigge di realizzare uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia;
- dichiara di perseguire una politica internazionale di stabilità, basata sul rispetto dei diritti umani, sulla solidarietà con le parti più povere del mondo, sul partenariato sempre più stretto con i suoi vicini: Russia, Ucraina, Balcani, Mediterraneo.
I tragici eventi che stiamo vivendo in questi giorni ripropongono con ancora più forza ed urgenza la "questione Europea", che è legata direttamente alle nuove sfide che la nostra Unione deve affrontare.
Dopo numerosi tentativi, nel recente passato, di uccidere il progetto europeo, oggi sono numerose le voci che finalmente riconoscono la necessità dell'Europa. Ora molti si stanno rendendo conto che un progetto politico per l'Europa è necessario e che l'Europa stessa è ormai una questione altamente politica.
L'esempio della lotta al terrorismo internazionale è illuminante. Le iniziative dell'Unione sono fondamentali, ma soprattutto è fondamentale discuterne insieme, trovare insieme strumenti di azione. Immaginiamoci un'azione separata dei diversi Stati membri, magari spinti da preoccupazioni diverse: una situazione di disgregazione sarebbe un enorme regalo ai terroristi.
L'unità dell'Europa può contribuire alla costruzione di un mondo più giusto.
E oggi abbiamo un bisogno ancora più forte di Europa.
Ne abbiamo bisogno per evitare lo scontro tra civiltà: è questa infatti la trappola tesa dagli autori dei crimini commessi negli Stati Uniti, ma rivolti contro l'intera umanità.
Al mondo globalizzato dobbiamo offrire la nostra esperienza. Non si tratta di annunciare una nostra superiorità, perché in tanti settori abbiamo da imparare dagli altri tanto quanto gli altri da noi.
Non possiamo però, non ne abbiamo il diritto morale, non impegnarci per proporre un modello d'integrazione, per diffondere un messaggio di apertura e tolleranza e per promuovere quei valori - innanzitutto l'inviolabilità della dignità umana - proclamati nella nostra Carta dei diritti fondamentali.
La crisi attuale può quindi favorire una maggiore integrazione e sta mostrando quando essa sia necessaria.
Ma questo richiede una chiara scelta politica.
In effetti, la paura della gente, la percezione di una minaccia fisica potrebbero anche spingere a chiudersi, a vedere nella nazione l'unico rifugio, l'unica protezione e a rigettare l'Unione proprio a causa della sua ridotta capacità di affrontare la questione della sicurezza. In tal caso, il processo d'integrazione ne potrebbe risentire molto gravemente.
Dopo l'11 settembre, dobbiamo quindi accelerare il processo d'integrazione già in corso, senza precipitazione, ma in maniera decisa, risoluta e rapida. L'integrazione è una conquista tanto preziosa quanto fragile: gli spaventosi attentati di settembre ci hanno brutalmente ricordato che la pace e la stabilità non possono mai essere date per scontate né acquisite per sempre, neppure nei paesi a prima vista forti e potenti.
La questione che dobbiamo oggi affrontare è come organizzare la democrazia al di là dello Stato nazionale, come risolvere la questione democratica nell'Unione che sta diventando un'Unione continentale.
Il Libro bianco sulla governance fornisce una prima risposta su come migliorare l'Unione già oggi (a trattati costanti), senza attendere il lungo processo di revisione dei trattati e ratifiche nazionali. Esso mira appunto a rendere il sistema più aperto, a favorire la partecipazione, la semplificazione, la coerenza e l'efficacia.
Si tratta di una prima risposta. A Gand, tra pochi giorni e soprattutto a Laeken, in dicembre, i capi di Stato e di Governo europei porranno le basi di un più ampio processo di riforma, che si concluderà probabilmente (ratifiche comprese) nel 2005/6.
Tale processo deve ravvicinare l'Europa ai cittadini.
Il problema non è d'informazione e propaganda, è un problema politico.
In cosa possono riconoscersi i cittadini? In una buona direttiva ambientale, in una corretta soluzione al problema del mandato di cattura europeo per i peggiori criminali, in una nuova direttiva sull'IVA?
Queste realizzazioni concrete sono certo molto utili, ma vanno accompagnate da un vero processo costituente. Bisogna in altre parole che l'Europa consolidi la sua esistenza per le generazioni attuali e future a partire da un dibattito politico, pubblico, con opzioni differenti, con una battaglia alla fine della quale sia ben chiaro per tutti chi siamo e dove andiamo come cittadini europei.
Perché questo nuovo processo costituente possa veramente farci fare un salto di qualità occorre cambiare metodo di revisione dei trattati. La sola diplomazia degli Stati non può, da sola, lanciare in maniera credibile agli occhi dei cittadini un processo costituzionale europeo compiuto.
Per preparare la prossima revisione dei trattati bisogna ottenere una Convenzione di natura largamente parlamentare con la partecipazione dei Governi e della Commissione. A questa va affiancato un Forum della società civile, capace di dare il senso delle idee che percorrono il nostro mondo molto ricco e variegato. La loro interazione, seppure a diverso titolo - l'una istituzionale, l'altro consultivo - fornirà opzioni precise per consentire ad una conferenza intergovernativa corta e decisiva di adottare le decisioni finali al più tardi all'inizio del 2004 e forse anche prima.
La Convenzione garantisce più democrazia, poiché rafforza il ruolo dei popoli e assocerebbe più direttamente il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali alla riforma dell'Unione.
Cosi facendo, a distanza di quasi cinquant'anni, dunque, ritorneremo ad un metodo più democratico per discutere proprio quei temi che - dal fallimento del 1953, cui facevo sopra riferimento - non sono mai stati affrontati in maniera decisiva:
- una più chiara separazione dei poteri tra le Istituzioni;
- un sistema legislativo di tipo bicamerale, con una Camera dei popoli, il Parlamento, ed una degli Stati, il Consiglio;
- un'Unione che, diventando continentale, prosegue anche sulla via della sussidiarietà e del decentramento e rafforza i suoi legami con i Parlamenti nazionali.
Dobbiamo cioè completare il primo esperimento storico di costruzione democratica al di là dello Stato nazionale. Ed è un esperimento che non possiamo fallire.
Ultimo aggionamento documento: 20-Dec-2006