Il lungo percorso di Tullia Zevi
Una vita appassionante tra ebraismo e cultura universale
Ho incontrato Tullia Zevi a casa sua, nel cuore del ghetto ebraico di Roma, a pochi passi dall’Isola Tiberina e dalla Bocca della Verità. Mi ha accolto nel suo salotto, una vetrina del mondo impreziosita da quadri, sculture e oggetti provenienti dai tanti Paesi che lei ha visitato. E in fondo è proprio questo doppio legame, da un lato con le radici ebraiche e dall’altro con i grandi temi della cultura universale, una delle chiavi per descrivere questa elegante signora ormai vicina ai novant’anni, che nella sua autobiografia politica si è descritta come una ragazza della borghesia ebraica milanese-ferrarese, nata e vissuta per gli anni della sua formazione in pieno fascismo. “In quel periodo - mi racconta - la donna era usata come uno strumento e a lei era destinato un ruolo subalterno all’interno della società. Le grandi campagne sulla fertilità e sulla maternità insistevano quasi esclusivamente sulla funzione di madre. Io in realtà non ho vissuto molto quel clima, sia perché mio padre era antifascista e non mi imponeva di partecipare alle manifestazioni di adesione al regime, sia perché con la mia famiglia sono emigrata già nel 1938”.
In vista dell’emanazione delle leggi razziali, infatti, il padre di Tullia Zevi portò la famiglia prima a Parigi e poi, nel corso del 1939, negli Stati Uniti. “Ricordo il trauma di quei momenti, anche perché avevo appena iniziato a frequentare la facoltà di Filosofia all’Università di Milano. Oltretutto, ero in vacanza in Svizzera quando ci chiamò mio padre, che era rimasto in Italia, e ci disse di aspettarlo perché non saremmo più rientrati a Milano, nemmeno per praparare il trasloco. Visti gli avvenimenti futuri, devo dire che quella scelta fu coraggiosa e lungimirante”.
Al di là dell’Oceano, Tullia Zevi entrò in contatto con gli ambienti antifascisti di impronta socialista-liberale e conobbe personalità di grande prestigio quali Gaetano Salvemini e le donne della famiglia Rosselli. Fu forte soprattutto il legame con la signora Amelia, madre di Carlo e di Nello Rosselli, rievocato dalla Zevi con parole che testimoniano grande partecipazione: “andavo da lei - ha scritto - soprattutto quando mordevano l’angoscia, la solitudine e la nostalgia. Conservo un ricordo straordinario e struggente di quelle visite. Parlavamo di tutto, parlavamo della vita, lei mi raccontava dei momenti della sua vita e cercava di darmi dei consigli. Qualcuno l’ho seguito, qualcuno no e me ne sono pentita”.
Negli Stati Uniti, Tullia Zevi iniziò la sua attività politica e giornalistica, contribuendo alla pubblicazione dei “Quaderni di Giustizia e Libertà” e del bollettino “Italy against fascism” e partecipando alla realizzazione dei programmi radiofonici rivolti al pubblico italiano. Quel periodo, tuttavia, non fu affatto facile. “Tra gli italo-americani - ricorda - la propaganda fascista era stata molto efficace, trovando ampio spazio in un’opinione pubblica grossolana, conservatrice e anticomunista. Noi ci rapportammo con una comunità fascistizzata e sensibile al mito di Mussolini, l’uomo dalla mascella sporgente che parlava un linguaggio muscolare e che rivalutava l’orgoglio nazionale italiano.
Quando con Salvemini iniziammo a fare propaganda antifascista e a organizzare delle commemorazioni in occasione del Primo maggio o dell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, i nostri connazionali strappavano i volantini e ci rincorrevano al grido di ‘traditori’. Naturalmente con l’entrata in guerra dell’Italia e con il coinvolgimento degli Stati Uniti la situazione cambiò”.
Nel luglio del 1946 Tullia Zevi tornò in Italia insieme alle donne della famiglia Rosselli e raggiunse così suo marito, che si era trasferito nel nostro Paese già da alcuni anni per partecipare alla Resistenza. “Ho iniziato a prendere coscienza della nuova situazione italiana - mi dice - attraverso le lettere che lui mi scriveva, sintetizzando i sentimenti prevalenti che caratterizzavano l’ultima fase della guerra e l’immediato dopoguerra: innanzitutto, la grande incertezza, i dubbi e le angosce, e poi le tante speranze. Io mi tuffai subito nel mio lavoro di giornalista, andando a seguire i processi di Norimberga, e a livello politico seguii da vicino e con molta tristezza la parabola discendente del Partito d’Azione”.
Oltre all’attività politica e a quella giornalistica, Tullia Zevi si è impegnata da subito all’interno della comunità ebraica dalla quale proveniva, che era stata annientata e dissolta fin nelle strutture più profonde dallo sterminio nazi-fascista. È stata eletta, prima donna nella storia dell’ebraismo italiano, al primo Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche e nel 1983 è diventata, prima e finora unica donna ad aver assunto tale carica, presidente dello stesso organismo.
“Nello Statuto dell’ebraismo italiano - ricorda - per indicare coloro che potevano essere eletti in Consiglio si utilizzava la dizione di cittadino, ma nella prassi questo termine veniva interpretato come solo uomini. Il mio caso servì per mettere in discussione e quindi per interrompere questa insensata consuetudine. Ricordo che il vecchio antifascista Raffaele Cantoni, che più di tutti stava cercando di rianimare la traumatizzata comunità ebraica italiana e che in quel momento era il presidente del Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche, sostenne la mia candidatura con una sua tipica espressione veneziana: ‘La s’è una donna, ma la capisce tutto!’”.
Il bilancio di questa esperienza non può che essere largamente positivo. “Se mi hanno riconfermato per quattro mandati - continua infatti Tullia Zevi - evidentemente anche come donna ho onorato l’ebraismo italiano”. E in effetti Tullia Zevi ha connotato una lunga stagione dell’ebraismo italiano e internazionale (nella sua carriera, è stata anche vice presidente dello European Jewish Congress e membro dell’Esecutivo dello European Congress of Jewish Communities) fatta di sfide difficili e appassionanti: “lo sforzo per dare nuova linfa alla vita organizzata dell’ebraismo italiano è stata esaltante, così come, a livello internazionale, lo sono stati il lavoro mirato alla ripresa dei rapporti con le grandi organizzazioni ebraiche e quello di ricucitura con le comunità ebraiche dell’Est europeo, che nel frattempo si aprivano all’Occidente”.
Nel 1998 Tullia Zevi è stata nominata membro della Commissione per l’Interculturalismo del ministero dell’Istruzione. “Abbiamo lavorato soprattutto con le scuole e su un piano europeo - riflette la Zevi - ma nel campo del dialogo multiculturale i risultati arriveranno solo al termine di un processo che dovrà necessariamente essere lento. Credo che su questo fronte sarà decisiva la capacità di avere pazienza: le donne che oggi vivono in società chiuse e limitative dei loro diritti fondamentali, come avviene in alcune realtà musulmane, con il tempo sapranno farsi valere e difendere i propri interessi”.
Alla fine del nostro incontro, ricordo a Tullia Zevi i riconoscimenti ricevuti durante la sua carriera in qualità di donna. Sicuro di dimenticarne qualcuno, le cito che nel 1992 è stata scelta come candidata italiana al premio “Donna europea dell’anno”, che nell’anno successivo ha vinto il premio romano “8 marzo: la donna nella scuola, nella cultura e nella società” e quello “Donna coraggio” da parte dell’Associazione Nazionale delle Donne Elettrici, e che nel 1997 ha ottenuto il premio “Firenze-Donna”.
“Questi attestati - mi confida - mi fanno molto piacere, anche se io non sono mai stata veramente femminista in senso tradizionale. Secondo me, il senso più vero dell’emancipazione femminile è dato dal poter agire in maniera asessuata. A mio parere, il femminismo è solamente un percorso per arrivare a considerarci tutti esseri umani e per essere apprezzati sulla base del valore di ogni singolo individuo”.
Antonio R. D'Agnelli
a.dagnelli@adm.unipi.it