Ci sono novità su Homo naledi, il nostro antenato ominine i cui resti fossili sono tornati alla luce in Sudafrica nel settembre 2013. Il 9 maggio sono usciti altri due articoli sulla rivista eLife dove vengono fornite nuove evidenze su questa specie di ominine (Dirks et al., “The age of Homo naledi and associated sediments in the Rising Star Cave, South Africa”, eLife 6:e2423; Hawks et al., “New fossil remains of Homo naledi from the Lesedi Chamber, South Africa”, eLife 6:e24232).
Abbiamo chiesto al professor Damiano Marchi, antropologo dell’Università di Pisa e unico ricercatore italiano del team che si è occupato dello studio dei resti della Camera di Dinaledi e che ha pubblicato recentemente sulla rivista Journal of Human Evolution (“The thigh and leg of Homo naledi”, marzo 2017) la descrizione del materiale fossile relativo all’arto inferiore, di spiegarci l’importanza delle nuove evidenze.
Damiano Marchi
“I due articoli recentemente pubblicati rivestono una grande importanza per capire Homo naledi in particolare, ma anche per capire meglio le dinamiche evolutive del genere Homo. La data di 236.000-335.000 anni fa proposta dal primo articolo e ottenuta tramite diversi metodi di datazione è molto più recente di quello che credevamo in base all’anatomia della specie, che è abbastanza primitiva. Questo ci dice che in un periodo che grossomodo corrisponde all’apparizione dei primi antenati della nostra specie, in Sudafrica esisteva una specie di Homo molto primitiva e che si arrampicava sugli alberi. Questo ci obbliga a rivedere le nostre idee riguardo alle dinamiche evolutive che hanno portato all’evoluzione del genere Homo. Pensavamo che l’aumento del cranio e della massa corporea avessero guidato la sua evoluzione, in associazione all’abbandono degli alberi. Ma evidentemente la cosa è molto più complessa di quello che pensavamo.
Nell’altro articolo, si rende nota la scoperta di una seconda camera nel sistema di grotte Rising Star, denominata Camera di Lesedi, che contiene un minimo di tre individui di cui uno scheletro semicompleto articolato con un cranio quasi completo. Questo è molto importante perché ci dice che il primo ritrovamento non è un evento unico e fortuito ma che Homo naledi portava i propri morti sistematicamente in quelle grotte. Inoltre, ci ha fornito una prova diretta della validità delle ricostruzioni precedenti effettuate su elementi provenienti da individui diversi”.
Scheletro parziale articolato dalla Camera di Lesedi, Credits: John Hawks
Nel 2015 la notizia della scoperta di Homo naledi fece il giro del mondo e finì sulle prime pagine dei più importanti quotidiani italiani. La ricerca fece scalpore per il numero di fossili trovati (almeno 15 individui) e per le sue caratteristiche morfologiche, sia primitive come il piccolo cranio e gli adattamenti per arrampicarsi, sia evolute come l’arto inferiore snello e il piede molto simile al nostro. Fece scalpore anche la spiegazione che il team propose per l’accumulo di così tanti fossili: Homo naledi avrebbe deposto intenzionalmente i propri morti in quella Camera nelle profondità della terra. Questa affermazione creò molte controversie nel campo accademico a causa del piccolo cranio che indicherebbe capacità cognitive molto inferiori a Homo sapiens, l’unica specie accertata che sistematicamente seppelliva i propri morti. Un’altra fonte di controversie sulla scoperta era la mancanza di una data per i fossili. La scoperrta di una nuova Camera fornisce supporto all’ipotesi di sepoltura intenzionale dei morti da parte di Homo naledi mentre un’età così recente per i fossili stimolerò la comunità paleoantropologica a rivedere le teorie riguardo all’origine del genere Homo.