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Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio

L'analisi del fenomeno nel libro dell'antropologo Fabio Dei

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copertina libro Il tema molto attuale del terrorismo anti occidentale affrontato da un inedito punto di vista. "Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio" (Donzelli, 2016) è lultimo libro di Fabio Dei, docente di Antropologia culturale dell’Università di Pisa. Il volume si va ad aggiungere alla già ricca produzione del professore che, tra le altre pubblicazioni, annovera: "Antropologia culturale" (il Mulino, 2012), "Antropologia della violenza" (Meltemi, 2005) e "Grammatiche della violenza" (Pacini, 2014, con Caterina Di Pasquale).

Pubblichiamo di seguito alcuni stralci dell'introduzione a firma del professor Dei.

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Nell’immaginario occidentale contemporaneo, il “terrorista suicida” è una figura dell’alterità che sembra sfuggire a ogni possibile comprensione. L’opinione pubblica lo rappresenta per lo più in termini di devianza, follia, fanatismo; il suo combinare la furia distruttrice e “barbara” con il sacrificio antiutilitario della vita suscita orrore e inquietudine. Un soggetto irrazionale, insomma, che è stato plagiato o agisce sulla base di credenze religiose “primitive”, quali l’attesa di un premio nel paradiso. D’altra parte, l’inquietudine suscitata dal “terrorista suicida” dipende anche dal fatto che alcune caratteristiche del suo comportamento non ci sono così estranee: le riconosciamo anzi benissimo come parte di una nostra storia. Il martirio volto alla diffusione di ideali religiosi e politici è centrale nelle grandi tradizioni religiose, così come in tutti i movimenti nazionalisti che hanno plasmato l’occidente moderno.

Gli approcci politologici al problema hanno posto l’accento sulla razionalità strategica del terrorismo suicida. Non si tratta di capire cosa c’è nella testa dei martiri, si dice, ma solo di comprendere le strategie che utilizzano, riconducendo le loro motivazioni e il loro comportamento a finalità strumentali di ordine geopolitico e militare. Il limite di questo approccio è però che ci propone di comprendere questo tipo di terroristi a partire da un modello di soggettività strategica universale e astratta. Trascura invece l’analisi delle condizioni culturali specifiche e delle reti di relazioni sociali che producono la scelta dei “martiri”.

Ma c’è anche un profondo motivo che connette l’antropologia culturale con il terrorismo suicida. Gli attentati più clamorosi degli ultimi anni hanno sollevato grandi movimenti nell’opinione pubblica occidentale riguardo le questioni del fondamentalismo religioso, della secolarizzazione, della libertà di parola, dell’accoglienza dei migranti, delle relazioni interculturali, dei rapporti tra identità e differenze. La violenza non aiuta certo a pensare con lucidità - specialmente gli attacchi che hanno colpito centri reali e simbolici degli Stati Uniti e dell’Europa (dall’11 settembre ai più recenti episodi di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza; ed è in sé significativo che siano apparsi meno sconvolgenti i ben più costanti e – perlomeno numericamente – drammatici attentati avvenuti in altri continenti).

A fronte di questi eventi, vi sono state reazioni addensate su due poli narrativi. Da un lato una narrazione che possiamo chiamare identitaria, che ha diffuso l’idea di un occidente assediato dai barbari e dall’irrazionalismo religioso e ha invocato un qualche tipo di barricata o di “guerra al terrore” in difesa della civiltà. Dall’altro lato, una posizione di taglio postcoloniale, che ha attribuito ogni responsabilità della violenza alle eredità imperialiste e agli squilibri politico-economici che caratterizzano l’attuale ordine neoliberista del mondo.

Nello sforzo di capire meglio alcuni aspetti del terrorismo suicida ho cercato, nelle pagine che seguono, di mantenere un’adeguata distanza critica da queste due opposte scorciatoie.

Fabio Dei

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  • 12 giugno 2017

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