Nel 2017 ricorrono i 50 anni dalla morte di Don Milani. Un incontro ieri al Circolo Rinascita a Pisa intitolato "Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. Don Milani ieri, oggi, domani" ne ha ricordato la figura. Per l'Università di Pisa è intervenuta Maria Antonella Galanti, docente di Pedagogia, che ha dialogato con Francesco Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo di Vecchiano e Giuseppe Bagni, presidente nazionale del Centro per l'Iniziativa Democratica degli Insegnanti.
Pubblichiamo qui di seguito una riflessione della professoressa Galanti.
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Don Milani: una riflessione
Sono passati cinquanta anni dalla morte di Don Milani. Se ne andò, infatti, nel 1967, un anno prima del movimento del ’68 e senza sapere che la sua Lettera a una professoressa ne sarebbe diventato un vessillo. Senza sapere che le sue parole e la sua battaglia in nome del valore dell’istruzione come elemento di liberazione sociale avrebbero avuto grande eco nel tempo. Senza sapere che quelle stesse parole sarebbero state raccolte per denunciare la non neutralità della cultura tutta e di una scuola concepita, parafrasandolo, come un paradosso al pari di un ospedale pensato per i sani anziché per i malati.
Lettera a una professoressa, scritto insieme ai suoi ragazzi, ha avuto una grande diffusione ed è diventato un simbolo delle battaglie per trasformare la scuola pubblica in scuola davvero di tutti, cioè capace di dare a ciascuno libero accesso alla parola e alla capacità di usarla per esprimersi, comunicare, dare battaglia quando necessario, ma anche ribellarsi quando opportuno. Se questo testo ha avuto tanta meritata notorietà, molti altri scritti coraggiosi di Don Milani gli hanno procurato non poche amarezze perché giudicati, di volta in volta, inopportuni, provocatori o addirittura lesivi della legalità ed eticamente esecrabili. Tra questi basti ricordare i testi compresi in L’obbedienza non è più una virtù. Si tratta di due lunghe lettere: la prima rivolta ai cappellani militari che avevano scritto nero su bianco, in un comunicato ufficiale, che l’obiezione di coscienza rispetto al servizio militare era estranea al comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà; la seconda inviata come autodifesa ai giudici per il processo al quale la malattia che dopo un anno lo avrebbe portato alla morte gli impediva di presenziare. Era accusato di apologia di reato proprio per la prima di queste due lettere nella quale ripercorreva la storia degli ultimi due secoli del nostro paese e di tante guerre, fino ad arrivare all’avvento della dittatura fascista.
“Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette ad aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti)! Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria...” (Don Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, p.16)
Nel processo di primo grado Don Milani fu assolto, ma la condanna dello scritto arrivò, dopo la sua morte, in quello di appello.
Tra le tante sue parole che adombrano una pedagogia della reciprocità e della partecipazione comunitaria rispetto ai processi di insegnamento apprendimento, l’espressione più bella e attuale è quell’ I care che si contrappone al “me ne frego” fascista. E l’ideale che pervade tutte le pagine di Lettera a una professoressa e cioè la convinzione che il problema di uno debba essere considerato come il problema di tutti e che sentirsi comunità debba tradursi nel farsi carico dei propri membri più fragili contrapponendo il pensiero critico all’obbedienza cieca e ignava.
Maria Antonella Galanti