È rientrato da pochi giorni l’undicesimo Treno della Memoria toscano, partito nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Primo Levi. Al Viaggio della memoria 2019, promosso dalla Regione Toscana e realizzato ancora in collaborazione con il Museo della deportazione di Prato, sotto l’Alto Patronato del presidente della Repubblica, hanno partecipato oltre 500 studenti delle scuole superiori con i loro docenti e 60 studenti universitari dei tre atenei toscani, che hanno viaggiato grazie al contributo dell’Azienda regionale per il diritto allo studio.
Immancabili e fondamentali come sempre, i compagni di viaggio eccellenti, ovvero i testimoni: le sorelle Andra e Tatiana Bucci, affezionate al viaggio della memoria toscano, e Silva Rusich, la figlia di Sergio Rusich deportato politico al lager di Flossenburg ed esule istriano, testimone della deportazione politica, che ha viaggiato come rappresentante dell’Aned.
Con loro anche i rappresentanti delle associazioni ovvero le Comunità ebraiche di Firenze e Pisa, le Associazioni rom e sinti, Aned (di Firenze, Prato, Pisa, Empoli), Anei, Anpi, Arcigay, che hanno incontrato gli studenti sul treno durante il viaggio, attraverso workshop di discussione di quarantacinque minuti tra passato e presente. Insieme hanno parlato di antisemitismo e antiziganismo, delle deportazioni degli omosessuali e degli oppositori politici, di ieri ma anche dei segnali che arrivano dalla società di oggi. In questa edizione si è parlato anche d’Europa: l’ultimo giorno a Cracovia, il 23 gennaio, si è svolto infatti un citizen dialogue all’università della città polacca con il vicepresidente della commissione europea Timmermans e il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, i testimoni della furia nazista, gli studenti polacchi e quelli toscani.
Qui di seguito si pubblicano le testimonianze di alcuni dei 20 studenti dell’Università di Pisa che hanno viaggiato sul Treno della Memoria e che hanno voluto condividere con tutta la comunità accademica la loro esperienza di viaggio.
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Jessica De Lucia, 22 anni, corso di laurea in Giurisprudenza
Entrare in quei campi e vedere il modo in cui erano costretti a vivere i prigionieri, le condizioni igieniche e meteorologiche che dovevano sopportare, l'annientamento completo dell'identità e della personalità che subivano solo perché qualcuno, dall'alto della sua posizione, aveva deciso che degli esseri umani dovessero essere annientati per la loro razza, religione, orientamento politico o disabilità in quanto inferiori, mi ha sconvolto e mi ha condotto a pormi delle domande: com'è stato possibile disumanizzare e trattare delle persone come fossero un male da estirpare? L'odio? La paura del diverso? La povertà e la fame o la necessità di trovare un capro espiatorio? La paura indotta dal regime? Sono domande, che dal giorno della visita di quei campi, mi tormentano e a cui non riesco a trovare una risposta, perché molto probabilmente una risposta non esiste.
Questa esperienza, però, nonostante il malessere che comporta, mi ha arricchito e mi ha reso una persona migliore. Mi ha portato a indagare e a voler essere più partecipe di quello che accade intorno a me, a fare attenzione ai segnali che potrebbero portare a un'altra Auschwitz e a combattere affinché questo non accada cercando di raccontare quello che ho visto e che ho imparato a più persone possibili per sensibilizzarle e renderle consapevoli, tanto quanto me, che per quanto la deportazione e lo sterminio possano essere inspiegabili e aberranti, sono stati commessi e possono essere commessi di nuovo. Infatti, come ha detto Primo Levi "è accaduto e può succedere di nuovo", per cui dobbiamo impegnarci in quanto esseri umani a non permettere a nessuno di elevarsi a giudice con il potere di decidere chi possa vivere e chi debba morire, dobbiamo impegnarci a non permettere che nessuno venga privato della dignità, della libertà e della vita, e soprattutto dobbiamo impegnarci a non permettere che l'indifferenza, l'omertà e la paura di reagire prevalgano sulla giustizia, sull'uguaglianza e sulla garanzia dei diritti che appartengono ad ogni individuo in quanto tale.
Vittorio Studiale, 20 anni, corso di laurea in Medicina e Chirurgia
Il giorno della partenza per il Treno della Memoria è stato un po' come rivivere la partenza per una gita scolastica: forse perché eravamo un piccolo gruppo di universitari insieme a liceali con i loro professori, tutti intenti a conoscerci e sistemarci nei vari scompartimenti dove avremmo passato le successive 20 ore e più. Il lungo viaggio ci ha permesso di staccarci fisicamente e mentalmente dalla nostra realtà di tutti i giorni, via via che il treno si faceva strada sempre più a nord e le temperature calavano.
L'atmosfera è cambiata drasticamente una volta arrivati al campo di Birkenau/Auschwitz 2: l'impatto è sconvolgente, una struttura tanto grande che non si riesce ad abbracciare con un unico sguardo, eppure paradossalmente così opprimente, circondata da recinti di filo spinato che si perdono nella nebbia del gelido inverno polacco. Ricorderò per sempre il freddo provato durante la visita, nonostante indossassimo tutti abbigliamento termico, sciarpe, cappotti e scarponi invernali. I prigionieri di Auschwitz vestivano leggeri completi a righe e zoccoli di legno. All'impatto emotivo di Birkenau è seguita la visione dei tanti documenti che testimoniano ancora oggi l'orrore dell'Olocausto: foto, registri, oggetti quotidiani, valigie, scarpette, persino i capelli delle donne deportate sono ancora lì, a eterna prova di tutto il male che l'uomo è stato capace di infliggere e che qualcuno tuttora cerca di negare o ridimensionare.
La cosa più preziosa che porterò con me di questa esperienza sono le testimonianze dei sopravvissuti, prime fra tutti le sorelle Andra e Tatiana Bucci, in viaggio con noi, e la voce rotta dal pianto dell'interprete durante la testimonianza di Lidia Maksymowicz, sopravvissuta bielorussa all'Olocausto. Il compito mio e di tutti noi di ritorno da questo viaggio sarà quello di far arrivare la loro voce a più persone possibili, anche quando non ci saranno più loro a potere raccontare, perché non sia mai dimenticato ciò che "è avvenuto, quindi può accadere di nuovo".
Elisabetta Corbo, 19 anni, corso di laurea in Lettere
Perché l’uomo è lupo all’altro uomo? Quale crudeltà lo ha spinto ad attuare l’opera dello sterminio? Cosa trasmette quel luogo di sofferenza e filo spinato? Dolore e vergogna sono stati i sentimenti che hanno prevalso davanti alla crudele atrocità e noi, giovani studenti, siamo stati testimoni di una triste pagina di storia. Nel contesto in cui sono annullati i valori della vita, la disumanità non svanisce, anzi cresce, la ferocia alberga nel cuore dell’uomo e si tramanda di generazione in generazione.
A questo punto una ribellione interiore si scatena e mi ritornano in mente le parole di Primo Levi, che nei versi accorati in prima pagina della poesia “Shemà” di Se questo è un uomo, non esorta, ma comanda di scolpire nel cuore le sue parole e diffonderle in qualunque contesto. Emerge dunque l’importanza e la necessità di farsi testimoni e trasmettere ai più, per mantenere integra la dignità umana. Deduco che la pace e la libertà siano la vera ricchezza e l’amore profondo verso i simili dovrebbe essere arricchito ogni momento dalla sensibilità del cuore. Le ideologie accanite annientano la speranza dell’unione tra i popoli e il perverso risultato è la morte. L’amaro ricordo di quei resti umani, dove i più penosi erano quelli degli oggetti dei bambini, e i disgustosi racconti delle testimonianze di chi è stato sottoposto a “esperimenti” terribili, siano l’ammonimento per i posteri contro le discriminazioni razziali spingendoli ad arricchire i valori grandiosi sul tema della fratellanza e della pace.
Luca Donadeo, 23 anni, corso di laura in Economia e Commercio
Ringrazierò sempre me stesso per essermi deciso a partecipare a questo viaggio. Le ore trascorse in treno per arrivare in Polonia sono volate tra risate, sorrisi, cuccette scomode e nuove conoscenze, ma una volta arrivati al campo di Birkenau tutto si è letteralmente gelato. Il tempo quel giorno era “perfetto” per l’ambiente ostile e crudo in cui eravamo. Credo che se avessimo trovato una giornata soleggiata, non avrebbe suscitato le stesse emozioni che abbiamo provato invece con quel cielo grigio e quella nebbia. Una nebbia così fitta e densa come non l’avevo mai vista, che non permetteva ad occhio nudo di vedere la fine di questo enorme campo. Ma la cosa più sconvolgente è stato il silenzio, un silenzio pieno di dolore, di voci soffocate e di rispetto, un silenzio che ti entrava dentro e che in qualche modo vi è rimasto.
A questo punto, il compito che spetta a chi, come me, ha avuto la fortuna di partecipare a questo viaggio è quello di portare fuori da quel campo il silenzio e farlo diventare una grande voce, una voce unita e solidale. La voce di tantissimi ragazzi che non abbassano gli occhi davanti alle ingiustizie, ma che seguono i loro ideali nonostante tutto e tutti. Perchè “è accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo”
Alberto Soavini, 20 anni, corso di laurea in Scienze della formazione primaria
Ecco che improvvisamente nell’angolo di un’aula studio, mi ritrovo a pensare ai cinque giorni trascorsi con i partecipanti all’iniziativa “Treno Della Memoria 2019”, alle tante cose viste, gli orrori e i sorrisi, le lacrime di rabbia e i brividi suscitati dai racconti e dal contatto con l’ambiente dei lager nazisti. Ho percepito in me stesso la nascita di una nuova e maggiore consapevolezza durante le discussioni intavolate sui temi della differenza, del razzismo differenzialista, dell’unione fra popoli e della memoria; mi sono abbandonato all’ascolto di mille parole piene di sentimento e ho compreso. Durante il viaggio di andata, sul treno, essendomi stato assegnato il compartimento 7, mi sono seduto in mezzo ad Aldo e Andrea scoprendo, poco dopo, quanto questi ragazzi avessero da offrirmi e come loro altre decine di persone con le quali ho condiviso i piccoli spazi del nostro vagone. Ma, mentre nel treno il tempo è trascorso tra racconti e risate, ovviamente non posso dire lo stesso dell’esperienza dentro i campi di sterminio di Birkenau e Auschwitz 1.
Ho camminato per qualche ora nella gelida nebbia che ricopre gli interminabili spazi di Birkenau e, ad ogni passo, mi guardavo intorno impietrito, con gli occhi spalancati e senza il coraggio di rompere quel silenzio di morte. La paura è ancora una sensazione possibile in luoghi come il lager nazista; quando entri e sai quello che è successo all’interno, conosci l’enorme numero di vittime e ti vedi circondato da un filo spinato del quale non riesci a individuare i confini, l’angoscia ti toglie il fiato. Io ho addirittura fatto fatica a ricordarmi chi ero, a tener presente il fatto che ero lì in visita e che davanti a me c’era un interprete che spiegava, traducendo il polacco della guida locale, la storia e la struttura del campo. Il problema è che lo sguardo non trova rifugio, ad Auschwitz la vita ti mette di fronte alle tue responsabilità in quanto membro della specie umana.
“È successo e può succedere di nuovo” afferma Primo Levi, italiano sopravvissuto, e noi, sapendo che spesso, nella storia passata ma anche presente, tante persone subiscono violenza e vedono calpestati i loro diritti e la loro umanità ingiustamente, noi che abbiamo visto, sentiamo adesso di dover fare qualcosa. La conoscenza e il rispetto sono gli strumenti che dobbiamo adoperare e diffondere, frequentare luoghi in cui regna la differenza per sviluppare maggiore spirito critico, e ancora viaggiare, conoscere persone che la pensano diversamente da noi, pensare con la propria testa e scegliere sempre il bene con coraggio. Racconto ad amici, parenti e scrivo su carta di aver visto montagne di scarpe, capelli, valigie, protesi, pentole appartenute alle vittime, un peso portato sulle spalle in nome dell’attaccamento alla propria esistenza, oggetti personali che rappresentavano una parte importante dell’identità umana di queste persone e dei quali sono stati però brutalmente privati poche ore dopo l’arrivo. Ho imparato l’importanza di ricordare questa e altre stragi simili, segno di una enorme sconfitta da prevenire, e ho inoltre capito che camminare sulle ceneri dei prigionieri ti insegna molto più di quanto lezioni, libri e film possano fare… una lezione di vita alla quale vi invito a prender parte.
Laura Corleo, 20 anni, corso di laurea in Medicina e chirurgia
A qualche giorno dal rientro faccio ancora fatica a realizzare di aver preso parte a questa esperienza. La sensazione che mi ha dato, dall’inizio alla fine, è stata quella di distacco e isolamento dalla vita quotidiana, dalle cose e dalle persone di tutti i giorni, come se lo avessi sognato.
Penso sia dovuto anche al clima che si respira nei campi di Auschwitz e ancora di più a Birkenau, un clima di desolazione, statico, immobile, freddo e silenzioso: un cimitero. Forse è stata questa calma a rendere faticoso il cercare di collegare quello che vedevo e quello che sapevo, di rendermi conto di dov’ero e che era proprio là che era successo tutto. Eppure non è una calma autentica, serena e tranquilla, ma piuttosto triste, vuota e tetra, che lascia una certa sensazione di disagio, che pesa sullo stomaco. Ovviamente avevo già sentito tante storie, testimonianze, a cui si aggiungevano le informazioni che dava la guida durante le visite, e sapevo che era successo, sapevo che cosa era successo, ma toccare con mano e cercare davvero di capacitarsene è diverso, serve a spezzare il distacco temporale, spaziale e anche emotivo dai fatti; è anche in questo che risiede il valore di questo viaggio.
Un altro punto cardine di questa esperienza, oltre alle visite guidate ai campi di Auschwitz e Birkenau, sono stati i racconti dei testimoni, sia dal vivo che in video. Incontrare dei testimoni e ascoltare dal vivo la loro esperienza è una fortuna che non credo siano in molti ad avere avuto e che purtroppo in un futuro non lontano non avrà più nessuno. Credo che l’incontro con le sorelle Bucci in particolare sia stato uno dei momenti più intensi per me e probabilmente anche per molti altri. Quello che forse più colpisce è che, per quanto sembrino assurdi e irreali, i fatti di cui siamo testimoni, seppur indirettamente, sono in realtà molto “normali”. Ce l’hanno anche detto: non si trattava di un branco di pazzi guidati da un mostro, ma di persone che si sono limitate a eseguire ordini e si sono a piccoli passi approfittate di un già ben radicato antisemitismo (e non solo). Credo che per arrivare a tanto servano molta indifferenza e desensibilizzazione, proprio ciò che esperienze come quella del Treno della Memoria si propongono di intaccare dando la possibilità di prendere contatto diretto con i luoghi e le vittime dell’olocausto. È stata un’esperienza importante, a cui sono contenta e fiera di aver preso parte e di cui conserverò e tramanderò il ricordo.
Federica Suffredini, 20 anni, corso di laurea in Infermieristica
Freddo, trapassante, impossibile da eliminare anche con gli abiti più pesanti. Questa la prima impressione avuta al momento della discesa dal treno, nella stazione di Oswiecim. Impressione che è stata ben presto sovrastata dal pensiero “Quale pena devono aver provato queste persone, anche solo per il freddo?”. Arriva una fitta al cuore immaginandosi milioni di donne, uomini, anziani, bambini….i bambini...al di là di un cancello, di chilometri e chilometri di filo spinato, al freddo, nudi o quasi. E sì, sono concetti praticamente scontati: l’idea del grande campo, del filo spinato, i camici a righe. Ma fino a che non si è lì dentro, pensando che quello stesso terreno su cui camminiamo nel suo silenzio grida e si rivolta per tutto quello che ha dovuto vedere; che “chissà quanti hanno sperato di vedere qualcuno di buono, un salvatore al di là di quel cancello”; quanta libertà è stata violata e quanta dignità violentata. Ecco, solo lì si può capire davvero il senso di quel filo spinato, di quel freddo e delle lacrime che inevitabilmente scendono sui visi di tutti noi. Una delle cose che mi hanno maggiormente colpito è la finezza con cui tutto è stato organizzato e preparato: dalla registrazione estremamente dettagliata di ogni singolo individuo, all’ingresso del campo; alla costruzione delle strutture.
Nel campo di Auschwitz (costruito seguendo la costruzione di una piccola cittadina, dove ogni struttura è a mattoncini rossi) è possibile visitare diversi “block”, adibiti a museo. Ed è qui che si comincia davvero a tremare: capelli, vestiti, valigie, ciotole per il cibo, scarpe. Non si possono contare, non si può avere la minima idea delle proporzioni di ciò che ci si pone davanti agli occhi. “Nessuno che sa di andare a morire porta con sé questa roba”. Fa raggelare il sangue l’idea che le famiglie si erano fatte di una nuova vita, da iniziare proprio in quel luogo. La speranza di andare verso qualcosa di bello, che si è rivelato l’inizio della situazione più tragica mai vissuta da tutto il genere umano.
E in tutte quelle masse di oggetti, pezzi di vita, sono le scarpine dei bambini, i vestitini, le protesi a scaturire dentro di noi il massimo odio, la rabbia più grande; ma soprattutto l’impotenza, tanto forte da distruggerci. Ringrazio la mia regione per avermi dato l’opportunità di fare questo viaggio, quindi Ugo Caffaz, colui a cui si deve la nascita del Treno. Sono ringraziamenti dovuti perché, come già detto, fino a che non si va in quei luoghi e non si vede, non si tocca con occhi e mani proprie, non si può capire fino in fondo cosa la memoria possa essere. Sarebbe blasfemo affermare che si può capire, anche dopo la visita, quello che le persone hanno vissuto, perché si può solo immaginare, mai comprendere fino alla fine. Credo sia doveroso per la nostra generazione e sempre di più per quelle a venire, andare in questi luoghi e riportare quello che è successo, per non perdere la concezione di una realtà che è stata e che mai più dovrà essere. I testimoni, come le sorelle Bucci, che hanno fatto con noi il viaggio, stanno invecchiando e saremo noi la loro futura voce.
Ritengo, poi, necessario visitare in segno di grande rispetto, come vicinanza a tutte quelle anime lì tormentate, quasi a dire “noi siamo qui, siamo qui per darvi quella voce che vi è stata tolta inutilmente”. Ma non solo: il viaggio permette, a mio avviso, di sensibilizzare tutti coloro che spesso usano parole a sproposito, per ignoranza, come “maledetto ebreo” oppure “che brutto questo posto, nemmeno nei campi di concentramento!” o ancora “puzzi come un nero”. Frasi dette totalmente a sproposito, per convenzione, in situazioni che, ormai, fanno parte della nostra quotidianità: bullismo, razzismo.
Il male è forte e si sconfigge solo conoscendo. Dico a tutti di fare questo viaggio, come scelta ma anche come dovere morale, perché, come cita Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
Miria Del Guasta, 23 anni, corso di laurea in Infermieristica
La prima impressione che ho avuto attraversando l’entrata del campo di Birkenau e poi di Auschwitz è stata quella di mettere piede in un luogo congelato nel tempo. La nebbia e il freddo sono stati la cornice perfetta che rendeva l’esperienza ancora più unica nel suo genere: il clima impietoso ti costringeva a chiederti come potessero sopravvivere quelle persone malnutrite e vestite di stracci, mentre noi battevamo i denti nonostante i giacconi pesanti, le sciarpe e i guanti. È incredibile poter osservare gli oggetti appartenuti a coloro che più di settanta anni fa erano arrivati con tutto ciò che possedevano, guardando fiduciosi a un futuro che credevano migliore: vestiti, pentole, padelle, spazzole… tutto ciò che rimane di persone che hanno capito che cosa stava succedendo solo quando ormai era troppo tardi. Solo chi sapeva a cosa andava incontro ha lasciato dietro di sé un segno, come alcuni deportati che hanno inciso il proprio nome sui mattoni di un block. Non dimenticatemi, questo è stato il loro ultimo grido. Ed è esattamente quello che dobbiamo fare: dobbiamo serbare nei nostri cuori il ricordo di questa esperienza, e cercare di farla arrivare a quante più persone possibile.
Camminare su quei viali percorsi da milioni di persone che nulla provavano se non disperazione è un’esperienza scioccante. Ma ciò che più lascia il segno è come appare il cimitero più grande d’Europa: cittadine disabitate, set cinematografici. Perché una persona qualunque pensa a quanto sia incredibile che un uomo abbia ucciso milioni di persone che non avevano alcuna colpa. Viene da pensare che l’autore di questo genocidio sia un pazzo, un mostro... un “qualcosa” al di là di noi. Ma non è così. Quell’uomo era un essere umano, una persona che di sua spontanea volontà ha fatto ciò che ha fatto. Per questo è importante, è fondamentale non permettere più che ciò accada. Capire questa cosa è il fulcro del Treno della Memoria, secondo me.