È scomparso all’età di 70 anni lo scrittore Luis Sepúlveda, attivista ed esule politico cileno, autore di libri di poesia, romanzi e racconti tra cui “Il vecchio che leggeva romanzi d'amore” e “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”. Era ricoverato nel reparto malattie infettive dell'Ospedale dell'Università centrale delle Asturie (Huca), a Oviedo, a causa di una polmonite associata al nuovo coronavirus.
L’11 maggio 2005 Luis Sepúlveda era stato protagonista all’Università di Pisa di uno degli incontri del ciclo di conferenze "La traduzione d'Autore" organizzato dall’allora corso di laurea specialistica in "Traduzione dei testi letterari e saggistici". L’incontro, molto partecipato, è stato registrato in un video disponibile a questo link.
Inoltre pubblichiamo l’intervista a Luis Sepúlveda realizzata dalla professoressa Marcella Bertuccelli e confluita poi nel volume “La traduzione d’autore”, pubblicato dalla Pisa University Press, in cui furono raccolti gli interventi degli scrittori di fama internazionale che quell’anno parteciparono al ciclo di conferenze pisano. Il libro racconta la loro esperienza di autori ampiamente tradotti in numerose lingue del mondo, che a loro volta sono stati traduttori da lingue e culture anche molto distanti.
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Intervista a Luis Sepúlveda. Corso di laurea in Traduzione dei testi letterari e saggistici, Pisa 2005
A cura di Marcella Bertuccelli
MB Luis Sepúlveda è uno degli scrittori più tradotti nel mondo. Ha scritto Primo Levi che essere tradotti non è un lavoro, ma una condizione di semipassività simile a quella del paziente sul lettino del chirurgo o sul divano dello psicanalista, una condizione comunque ricca di emozioni violente e contrastanti: “L’Autore che trova davanti a sé una sua pagina tradotta in una lingua che conosce si sente, volta a volta o a un tempo, lusingato, tradito, nobilitato, radiografato, castrato, piallato, stuprato, adornato, ucciso.” Raramente uno scrittore resta indifferente al proprio Traduttore, conosciuto o sconosciuto, che – prosegue primo Levi - “ha cacciato naso e dita nelle sue viscere, e gli manderebbe volentieri, volta a volta o a un tempo, il suo cuore debitamente imballato, un assegno, una corona di lauro o i padrini”.
Qual è il Suo rapporto con la traduzione e con i Suoi traduttori?
LS La traduzione è per me una sorta di miracolo. Provo una profonda gratitudine nei confronti dei traduttori, semplicemente perché senza di loro il mondo sarebbe piccolissimo e triste, e poverissimo. Senza la presenza di questa figura anonima, per lo più mal pagata, che dà voce ad un’opera letteraria in una lingua diversa dalla mia, non avrei la possibilità di leggere Heinrich Böll, o Kenzaburo Oe, o tanti altri scrittori che sono patrimonio dell’umanità. Uno dei caratteri più belli della letteratura è che non ha frontiere, non conosce limiti geografici, politici, sociali - è uno spazio di libertà.
Sto scrivendo un romanzo in cui il protagonista è il personaggio di un altro mio romanzo –Un nome da torero. Si chiama Juan Belmonte, e l’avevo abbandonato per dieci anni aspettando l’occasione di fargli vivere una nuova avventura. Due anni fa è venuto il momento che aspettavo. In un capitolo di questo nuovo romanzo, che si svolge in Italia, in un bellissimo paese vicino a Lucca, chiamato Torre, Belmonte si trova in una situazione difficile: è vittima di una persecuzione, vogliono ucciderlo, e nella sua fuga arriva ad una casa molto bella, vecchia, vuota. Entra nella casa, palpa i muri, sente il calore della presenza umana e pensa che la casa non può essere disabitata, chi la abita si è soltanto allontanato per un poco. Incomincia a rovistare qua e là, segue il perimetro dei muri, intravede un computer e scopre sullo schermo una poesia di Pablo Neruda. In questa casa abita un traduttore che sta traducendo Neruda, e Belmonte comincia a riflettere. È curioso, Neruda è morto, ma la sua opera, la sua bellezza, la sua poesia sono vive in questo computer, nelle annotazioni fatte a mano su carta dal traduttore. Prova una commozione molto forte – è la rinascita alla vita di qualcosa che sentiva dimenticato.
È questo il grande merito, il miracolo della traduzione letteraria, riportare alla vita le cose che sono state dimenticate o semplicemente ignorate. La traduzione letteraria è la fantastica, bellissima finestra che permette di guardare il mondo in maniera più ampia e più generosa.
MB Come lavora con i Suoi traduttori? È soddisfatto del loro lavoro o ha avuto qualche esperienza negativa?
LS Ho sempre cercato di avere un buon rapporto con i miei traduttori. Lavoro a stretto contatto con loro, e sono sempre pronto a discutere i passi controversi, e ad ascoltare i loro consigli.
In qualche caso, come è avvenuto con la mia traduttrice italiana, Ilide Carmignani, si è creato un rapporto di profonda amicizia, che va al di là della relazione puramente professionale. Mi piace, quando scrivo, pensare ai problemi che forse sto creando ai miei traduttori. Il mio traduttore tedesco, un altro grande amico, ogni tanto mi telefona per chiedermi cosa sto facendo, allora io gli leggo qualche brano e lui mi supplica “No, no, ti prego, non puoi farmi questo, non me lo fare!”
Il traduttore finisce per conoscere l’Autore meglio di qualsiasi altra persona, meglio anche dei suoi stessi familiari. Può accadere che il rapporto si trasformi per il traduttore in un’ossessione di fedeltà. A Colonia abitava una bravissima traduttrice spagnola, Monica López. Un giorno, Monica stava traducendo un racconto di Cortázar, autore che amava, ammirava, di cui aveva tradotto 12 libri, si può dire che quasi respirava all’unisono con lui. Mi chiamò angosciata perché sentiva che mancava qualcosa alla sua cultura generale per poter essere totalmente fedele. Mi chiese se conoscevo bene tutta l’opera di Adorno, perché a un certo punto del racconto si citava un pensiero del grande filosofo che non riusciva in nessun modo a trovare nelle oltre 15.000 pagine della sua opera. Allora dovetti invitarLa a ricordare che una volta eravamo stati ospiti di Cortázar e forse aveva dimenticato che l’Autore aveva battezzato il suo gatto col nome di Theodor Adorno!
Il traduttore bravo deve anche essere creativo, avere grande immaginazione. Io mi reputo molto fortunato ad avere bravi traduttori nelle lingue europee - quelle di cui posso giudicare, nelle altre non so cosa abbiano fatto! – con i quali vivo questa straordinaria avventura letteraria, e auguro a tutti gli studenti di Traduzione di poter provare un giorno questo senso di gioiosa complicità che si instaura tra l’autore e il traduttore.
MB Lei è ha avuto anche esperienze come traduttore.
LS Non sono un traduttore professionista, ma ho tradotto alcune cose. Molti anni fa mi ha commosso particolarmente la poesia di un poeta tedesco morto a 42 anni in un campo di concentramento a Orianenburg. Si chiamava Erich Mühsam e ha lasciato 4 o 5 libri di poesie. L’ho sentito molto vicino al mio modo di scrivere, col suo linguaggio sintetico e chiaro, e ho tradotto alcune liriche. Ho poi collaborato alla traduzione di alcune poesie di Celan; ricordo di aver trovato grande difficoltà nella resa di un verso “Der Tod ist ein Meister aus Deutschland”. Ci sono voluti due mesi per arrivare ad una soluzione soddisfacente in spagnolo e finalmente sono giunto a quella che è il mio orgoglio di traduttore “la morte è un classico tedesco”.
MB La traduzione è un’operazione che mette in gioco molteplici fattori – autore, lettore, testo, traduttore- ma il perno della complessa interazione di questi fattori è senza dubbio la parola, con il suo carico semantico e con le incrostazioni del tempo che la fanno ricca e a un tempo pesante, mentre ne scolpiscono i contorni in modo sempre nuovi…
LS Credo che tutti gli scrittori abbiano una sorta di ossessione della parola, un desiderio di liberare la parola dalle sue ambiguità, e di farne scaturire la forza del suo valore intrinseco. Ricordo che da ragazzo ascoltavo gli anziani che frequentavano la mia casa, quasi tutti vecchi spagnoli repubblicani, ed ero incantato dalla forza che promanava dalle loro parole, le stesse parole che noi pronunciavamo in maniera più debole, quasi affettuosa, e che loro caricavano di una potenza che le riscattava. Parlo degli anni 50-60. La parola “libertà”, per noi una parola comune, per loro era un grido, un clamore, un’eco, piena di passione e sentimento. Da allora è maturato in me il desiderio di liberare la parola dalle sue ambiguità e recuperarne il cuore.
Un’altra esperienza mi ha portato a riflettere sul valore immortale delle parole. Spesso con Carmen, mia moglie, abbiamo rivisto i vecchi compagni del GAP, il Grupo de Amigos Personales del Presidente Allende. Ho avuto molti onori dalla vita – lauree honoris causa, cittadinanze onorarie - ma questo è stato per me l’onore più grande, aver fatto parte della guardia del corpo personale di Salvador Allende. Eravamo un gruppo di 160 persone, per lo più studenti universitari e intellettuali, di cui Allende amava circondarsi per discutere dei problemi della società cilena con spiriti aperti, menti sveglie. Siamo sopravvissuti soltanto in 52, gli altri sono morti o scomparsi dopo il colpo di stato del 1973. Una volta ci siamo ritrovati, presso Santiago, nel paesaggio bellissimo e maestoso della Cordigliera delle Ande e ricordavamo che il Presidente Allende amava pronunciare i propri discorsi davanti al fiume, perché il fiume portava le parole al mare e le spargeva nel mondo. Il Presidente spesso inseriva nei propri discorsi una formula “Parlo al popolo cileno con serena fermezza e virile energia”. Noi scherzavamo su queste parole, dicendo “Compagno Presidente, va bene la serena fermezza, ma la virile energia…ricordati che hai quasi 60 anni”. Quando ci siamo ritrovati, un compagno ha ripetuto uno dei discorsi di Allende, e ha pronunciato la stessa formula e l’eco l’ha ripetuta al fiume, e il fiume l’ha portata al mare, e allora ho pensato all’immortalità delle parole e al potere rivoluzionario dell’eco. Al termine abbiamo ripetuto il giuramento di fronte al fiume e l’eco ha ripetuto le nostre parole, ma non erano le nostre parole di uomini di 50 anni e più: erano le stesse parole che avevamo pronunciato quando avevamo 20 anni. E questo lo racconto perché ho spesso riflettuto sul potere della parola di evocare e trasmettere le cose migliori dell’uomo e dell’umanità: la fede nella parola è un credo quasi religioso che porto dentro di me.
MB Le sue parole sono state tradotte anche in altri sistemi semiotici, ad esempio il cinema, e Lei stesso è autore di sceneggiature.
LS L’esperienza col cinema è stata molto bella. Quando ho saputo che c’era interesse a trasformare in film la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, la mia unica preoccupazione era che fosse Walt Disney a realizzarlo, ma quando ho saputo che sarebbe stata una produzione europea, con un regista di qualità come Enzo D’Alò, sono stato felicissimo. Sono stati due mesi di lavoro intenso per tradurre le parole in immagini, è stata un’esperienza straordinaria e di fronte allo schermo, di fronte al risultato finale mi sono sentito orgoglioso di poter dire “questa è la mia storia”.
È accaduto lo stesso con Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, del regista australiano Rolf De Heer. Quanto alla mia esperienza di sceneggiatore, scrivere un romanzo e scrivere una sceneggiatura sono due cose profondamente diverse. Quando ho cominciato a scrivere sceneggiature seguivo alcune intuizioni. La prima intuizione mi diceva che era necessario tenere distinta l’immaginazione dalla parte tecnica e avere come unico riferimento la categoria Tempo. Il tempo del romanzo è diverso dal tempo della sceneggiatura. Poi ho imparato molte altre cose da un grande maestro, Tonino Guerra, che considero il più grande sceneggiatore di tutti i tempi. Lui mi ha insegnato che quando si scrive un romanzo si è soli con la nostra grande Idea, ma quando si scrive una sceneggiatura la nostra grande Idea deve scomparire e trasformarsi in una Struttura Mentale. All’inizio non è stato facile, ma Tonino Guerra, con una generosità enorme, mi ha guidato nella costruzione della sceneggiatura come una grande architettura: quando si costruisce una casa, occorre che le fondamenta siano ben solide, poi si costruisce il secondo piano, che è il climax, e infine il terzo piano, discendente. È stata una lezione meravigliosa.
MB Qual è il rapporto tra impegno civile e arte nella Sua visione della letteratura?
LS È una domanda molto complessa. La mia attività di scrittore si esplica in due campi – la narrativa e il giornalismo. Per me il giornalismo, se ben scritto, è una forma di letteratura. Si parla moltissimo dell’impegno dello scrittore. Io non credo in questa formula francese dell’écrivain engagé – la trovo molto semplicistica: lo scrittore si impegna e si disimpegna con molta facilità. Credo nell’eticità della scrittura, che deriva dal mio essere prima di tutto un cittadino e poi uno scrittore. È il risultato del mio legame etico con la società che si riflette nella letteratura. D’altra parte, il mio legame con la società è anche un legame estetico, perché mi sento un artista, perché lavorare con la parola è una forma d’arte. L’importante per la qualità dell’opera letteraria è l’equilibrio tra il legame etico con la vita e il legame estetico con l’arte: dare all’arte il legame etico che lo scrittore ha con la vita e alla vita il legame estetico che lo scrittore ha con la propria arte. Questa è un po’ la mia formula – non è complessa come quella della Coca-Cola, ma io ci credo.
MB Una domanda personale: cosa significa per Lei essere sposato con una poetessa come Carmen Yáñez? E rivolgo la stessa domanda a Carmen.
LS Io credo che il poeta detenga il sacro ufficio della conservazione della parola: Il poeta è un artigiano che cura amorevolmente le parole, le dispone con attenzione, in ordine, poi arriva il romanziere che se ne impossessa e le usa.
CY Scrivere romanzi e scrivere poesie sono due cose ben distinte: anche gli spazi in casa sono separati: Luis scrive in mansarda, io al piano terra. Io scrivo delle piccole cose, lui delle grandi. Però le piccole cose sono importanti.
LS È vero che i campi di battaglia sono separati, ma abbiamo un elemento in comune – il nostro cane Zarko. Quando sta accanto a Carmen, al piano terra, è sereno e tranquillo. Poi ogni tanto sale da me, mi osserva con fare inquisitorio, mi vede scuotere la testa, dire “questo non va, non va” e allora scende giù desolato a rifugiarsi da Carmen, e sono sicuro che pensa “ecco qualcuno che riesce a fare in modo che quello che scrive sia a posto”.