Si è chiuso con gli incontri alla Humboldt-Universität di Berlino e al Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino, il tour di presentazione de Il chimico libertino. Primo Levi e la Babele del lager, l’ultimo libro di Fabrizio Franceschini, docente di Linguistica Italiana nel Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa. Un libro intenso, che ripercorre l'opera di Levi e le importanti pagine da lui dedicate, in modo insieme "libertino" e competente, all'uso di lingue, parole e segni, quali strumenti per salvarsi, raccontare e ripensare la sopravvivenza, come ci spiega lo stesso autore.
«E oggi ancora, così come nella favola antica, noi tutti sentiamo, e i tedeschi sentono, che una maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida del cielo come una bestemmia di pietra». Così si chiude uno dei passaggi forse più belli di Se questo è un uomo, dove la torre della fabbrica di gomma sintetica Buna-Werke si sovrappone a quella di Babele, il cui mito ben rappresenta la questione linguistica all’interno del Lager e nell’opera stessa di Levi a cui lei ha dedicato il suo ultimo lavoro…
Fabrizio Franceschini: La Babele delle lingue è fondamentale in Se questo è un uomo e compare con tutta la sua forza nel passo ora citato. Qui il mito di Babele (Genesi 11) è rovesciato: la confusione dei linguaggi non è più conseguenza della costruzione della Torre, ne è la premessa. Ma a questo mito si intreccia l’inizio dell’Esodo, l’amara oppressione e il lavoro schiavistico degli ebrei in Egitto, da cui Mosè li salverà.
I due passi hanno in comune la parola chiave levenìm, ‘mattoni’ in ebraico, la cui radice L-B-N forma anche i verbi per ‘fare mattoni’ ed ‘edificare’. Levi, in Auschwitz, riscrive la Bibbia: prima del passo citato c’è la parola ‘mattoni’ nelle varie lingue del Lager: ted. Ziegel, franc. briques, polacco cegli (= cegły), ucraino kamenny (= kameni), ingl. bricks, ungherese téglak, uniti al latino tegula da cui Ziegel, cegły, téglak derivano e con cui formano una catena fonica, come le forme basate sulla radice L-B-N ‘mattoni’ nei testi ebraici.
Quello biblico della Torre di Babele è solo uno dei tanti riferimenti letterari, più o meno espliciti, che in Levi evocano proprio questo caos linguistico e su cui lei si è soffermato con particolare attenzione, analizzando specifiche serie lessicali. Ce ne può parlare?
F.F.: Accanto ai nomi dei ‘mattoni’ ci sono quelli del ‘pane’ (ted. Brot, yiddish Broit, russo e pol. chleb, fr. pain, ebr. lechem, ungh. kenyér: Iniziazione), quelli dei ‘cavoli e rape’ (Il canto di Ulisse) e altri ancora. Le serie multilingui Levi le trovava in libri a lui molto cari come Pantagruel di Rabelais (Panurgo chiede «pane in tutte le lingue viventi ed estinte», scrive Levi stesso) e Moby Dick di Melville, che si apre coi nomi della balena in tredici lingue.
Per Pavese queste «etimologie» non sono un’esercitazione di Melville ma hanno un valore strutturale, e così avviene in Levi. Le serie multilingui rappresentano il caos linguistico del Lager, che, come un gorgo, può trascinarti sul fondo, ma costituendosi come ordine sono pure un’ancora di salvezza: il dominio del caos linguistico è fondamentale per sopravvivere in Lager e poi «per raccontare, per portare testimonianza», come dice un’altra celebre pagina di Levi.
Questa attenzione di Levi per la lingua arriva da lontano. «Quello del linguaggio è un mio amore mancato», confidava infatti in un’intervista, aggiungendo: «Avrei voluto essere un filologo e studiarlo sul serio; invece, non è andata così e ho fatto un mestiere totalmente diverso». Eppure, questo suo mestiere «totalmente diverso», di chimico, come ci ricorda anche il titolo del suo libro, ha avuto un ruolo fondamentale proprio nella definizione del suo approccio all’uso della lingua e dei linguaggi…
F.F.: La copertina del libro mostra un Levi inconsueto. Non è solo e pensoso ma in compagnia e sorridente, con gli altri studenti di Chimica tra alambicchi e provette. Quel sorriso gli dà un’aria libertina e la parola libertino, nome dello straordinario protagonista di La chiave a stella, definisce proprio le sue scorribande linguistiche, il «libertinaggio» della sua «frequentazione inconsulta dei dizionari etimologici… senza una serie preparazione linguistica».
Questa pagina (dal libro L’altrui mestiere) è tutta all’insegna della modestia, ma simili affermazioni possono anche esprimere velatamente l’autorevolezza di chi le fa. La familiarità col linguaggio della chimica potenzia ancor più la sensibilità per le lingue naturali e i rapporti tra esse che Levi aveva sin da piccolo. D’altro canto, nel Sistema periodico, le parole della chimica, grazie a giochi etimologici e metalinguistici, perdono il freddo statuto di termini e diventano veri e propri personaggi dei racconti.
Un momento della presentazione del libro "Il chimico libertino. Primo Levi e la Babele del Lager" alla Humboldt-Universität di Berlino
Strettamente collegato a tutto ciò vi è anche il ruolo che, in Levi, hanno i dialetti, a cui lei dedica un intero capitolo e che, non a caso, fa diventare la raccolta di racconti Il sistema periodico un vero e proprio “atlante biolinguistico”…
F.F.: Questa definizione è mia. Col Sistema periodico Levi ripercorre la propria vita ponendone gli snodi fondamentali sotto l’insegna d’un elemento chimico, ma presenta anche, in modo geniale, le lingue delle radici, della famiglia, degli ambienti in cui ha vissuto. Questo vale, come lui stesso dichiara in Argon, per il gergo giudeo-piemontese dei suoi «antenati», zie e zii (lo zio Oreste gli fece davvero da informatore).
È più mascherato ma percepibile per il piemontese dei genitori e degli amici (il protagonista di Ferro Sandro ha «una voce piemontese») e per il nuovo «italiano-piemontese» che trionferà in La chiave a stella, ma si affaccia già in questo libro. C’è un altro dialetto che compare durante l’itinerario d’un antico lavoratore dei metalli dalla Germania alla Sardegna, e che insieme riflette esperienze leviane felici, tragiche e poi ironicamente rivisitate…ma non vorrei dire di più per non guastare la sorpresa ai lettori.
Che relazione si può individuare tra il valore che in Levi hanno le lingue per la vita o la morte nel Lager e l’importanza e il ruolo analogo che la lingua ha nella storia stessa degli ebrei, come fattore di sopravvivenza e continuità culturale e spirituale?
F.F.: Gli interessi linguistici di Levi e la sua vocazione di narratore, cosa sarebbero stati senza l’esperienza terrificante, ma anche straordinariamente fortificante del Lager? Come il mitico Tiresia, che incontrando due serpenti in accoppiamento sessuale si mutò da uomo in donna, «anche io – dice Levi – avevo incontrato i serpenti sulla mia strada (ad Auschwitz) e quell’incontro mi aveva fatto mutare condizione donandomi uno strano potere di parola».
Queste ultime parole, abbiamo detto Scarpa ed io a Torino, sono di per sé già chiare, ma lo diventano più drammaticamente se ne cogliamo la fonte non dichiarata né allusa da virgolette. Chi dice così è l’ancient mariner di Coleridge e lo dice dopo i versi «da allora, ad ora incerta, / quella pena ritorna», la pena del superstite scampato al naufragio e carico della colpa di sopravvivere. Del rapporto tra lingua e sopravvivenza culturale nell’ebraismo se n’è discusso a Berlino con Busi.
A salvare «il popolo ebreo dopo la dispersione» e nel «contrasto tra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell’esilio» è stato, dice Levi, «il suo riso», che pervade l’yiddish, «la bizzarra parlata dei nostri padri» cioè il giudeo-piemontese, e tante pagine leviane. Ma accanto al riso e all’ironia c’è la perentoria missione della nominazione, che il Signore affidò ad Adamo e che diviene anche la missione di Levi.
Questo parallelismo porta, infine, all’ultima parte del suo studio, dedicato alle parole del Lager, non solo di Primo Levi…
F.F.: “Appunto… col potere di nominazione di Adamo e lo strange power of speech di cui parla Coleridge, Levi nomina Lager quel che tanti altri sopravvissuti chiamavano campi della morte, campi di sterminio, lager con la minuscola. E nomina Pikolo un aiutante del Kapo benevolo verso i prigionieri e indenne dalle smanie sessuali del superiore, che quindi non merita lo spregiativo nome di Piepel dato a questi ragazzi.
La figura centrale in Lager, che gli italiani chiamavano capo o se donna capa, e i polacchi blokowy o se donna blokowa, Levi la chiama sempre Kapo (plurale Kapos), dicendo che la parola è d’origine italiana ma va marcata col kappa poiché, anche scrivendo in italiano, occorre restare nella lingua in cui quelle cose sono accadute. Ma perché oggi in Italia si dice Kapò? C’entra un intellettuale e partigiano di Pisa, che ha fatto un grande film sui Lager, e c’entra, dice Levi, il «valore differenziale» che la pronunzia Kapò ha rispetto alla nostra tranquilla parola capo…ma per saperne di più si può leggere questo libro”.