I successi economici delle aziende delle economie emergenti come Cina o India si legano spesso con la violazione dei diritti umani. E’ questo quanto emerge da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato su Business & Society, la rivista di punta dell’associazione internazionale per gli studi su impresa e società (IABS).
La ricerca ha riguardato 245 imprese provenienti da 8 paesi in via di sviluppo (Brasile, Cina, India, Malesia, Messico, Russia, Sudafrica e Tailandia) osservate dal 1992 al 2012. Il campione è composto da imprese leader che fanno parte del ranking Forbes Global 2000 come, ad esempio, la brasiliana Vale Corp, la cinese China Construction Bank, l’indiana Tata Motors o la Russa Gazprom.
“Abbiamo imparato che i cattivi nel mercato non sono necessariamente gli anelli più deboli, ma gli anelli più forti, quelli con le migliori performance economiche – commenta la professoressa Elisa Giuliani (foto) del Dipartimento di economia e management dell’Università di Pisa che ha coordinato lo studio – ma abbiamo anche verificato l’importanza delle norme nel regolare il comportamento di impresa: ridurre i cosiddetti governance gap dei governi è un passo fondamentale per disciplinare il mondo delle imprese e promuovere un capitalismo più responsabile”.
Dallo studio emerge che in media un raddoppio della prestazione economico finanziaria rispetto alle imprese globali dello stesso settore aumenta la probabilità di commettere abusi di circa il 25%. Gli abusi rilevati sono stati 366 di cui il 47% sono contro i lavoratori, 52% contro le comunità e solo l’1% contro consumatori. Le violazioni riguardano ad esempio i diritti del lavoro, cioè la mancanza di salari giusti, il lavoro minorile, la schiavitù moderna, la poca sicurezza e le discriminazioni sul lavoro, ma anche il diritto alla vita, alla salute, come nel caso di aziende che inquinano, sino all’uccisione di sindacalisti o attivisti.
“Alcune aziende dei paesi in via di sviluppo sono diventate leader mondiali nei loro settori, superando anche le principali concorrenti che provengono dalle cosiddette economie avanzate, questo però è accaduto a scapito dei diritti umani - continua Giuliani – Esistono però dei correttori che possono mitigare questo effetto se non anche invertire la tendenza, in primo luogo le norme di diritto nei paesi dove queste aziende vanno ad investire e secondariamente la presenza di un codice di autoregolamentazione aziendale in materia di diritti umani, che spesso le aziende adottano anche per mantenere una legittimità nel mercato globale, ma che può anche essere usato come strumento interno di pressione normativa”.
La ricerca da questo punto di vista ha ribaltato il pensiero dominante sull’argomento, ovvero che le imprese violino i diritti umani soprattutto quando sono costrette a prendere decisioni rischiose per aumentare le scarse performance economico-finanziarie, una visione che ha spesso relegato il problema alle aziende meno performanti e più marginali del capitalismo contemporaneo.
“L’evidenza empirica a supporto di questa visione teorica però è piuttosto inconcludente - ricorda Giuliani - I risultati di questo studio offrono spunti per ribaltare questa teoria e, almeno per il nostro campione, suggeriscono che sono invece le imprese di successo a violare maggiormente i diritti umani, questo perché sono disposte a tutto pur di restare al top della scala competitiva globale, assumendosi anche il rischio di essere sanzionate o dal sistema giuridico o dal mercato attraverso un danno reputazionale”.
“Ma questo risultato – chiarisce Giuliani - non è necessariamente limitato alle imprese nei paesi emergenti, questo studio non vuole puntare il dito contro queste regioni. Infatti, già nel 2010, un altro studio, tra i pochissimi ad oggi esistenti, mostrava come le imprese occidentali più esposte a comportamenti illegali fossero proprio quelle di maggior successo economico-finanziario. Il nostro studio rafforza quindi questa prospettiva con nuova evidenza e nuove interpretazioni teoriche.”
“In sintesi – conclude Giuliani - c’è una irresponsabilità sociale da parte delle grandi aziende di successo che ci impone un ripensamento del modello di capitalismo contemporaneo, che trascende il paese di origine di queste grandi imprese globali”.
La responsabilità e irresponsabilità sociale d’impresa, la misurazione delle performance sociali delle imprese e le strategie di legittimità delle imprese multinazionali sono fra gli interessi di ricerca della professoressa Giuliani, prima autrice del lavoro pubblicato su Business & Society. Giuliani, attuale prorettrice per la sostenibilità e l’Agenda 2030 dell’Università di Pisa, nel 2017 Giuliani ha fondato il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) che dirige presso il Dipartimento di Economia e Management. Al centro sono affiliati anche gli altri due autori dell’articolo: Andrea Vezzulli, professore di Economia Applicata all’Università degli Studi dell’Insubria, e Federica Nieri, ricercatrice senior in Economia e Gestione delle Imprese dell’Ateneo pisano.