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Da un lavoro del professor Della Posta il testo sulla globalizzazione della seconda prova del Liceo delle Scienze Umane

L'intervento del docente che racconta la vicenda e i suoi studi

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Copertina libro.jpgÈ tratto dal volume “Effetti, potenzialità e limiti della globalizzazione. Una visione multidisciplinare” curato da Pompeo Della Posta e Anna Maria Rossi (2007, Springer-Verlag Italia), il testo che i maturandi 2023 del Liceo della Scienze Umane hanno trovato tra le tracce della seconda prova nell’esame di maturità di quest’anno.
Professore associato di Economia politica presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa, al momento il prof. Pompeo Della Posta si trova in aspettativa presso l’Ateneo pisano e riveste una posizione di full professor alla Belt and Road School della Beijing Normal University a Zhuhai, nel Guandong, nel sud della Cina.
Di seguito un intervento a sua firma sul che racconta dei suoi studi sulla globalizzazione.

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Nel 2003 e 2004 fu imposto un blocco alle assunzioni nel pubblico impiego che impedì anche la presa di servizio di professori (associati e ordinari) vincitori di concorso universitario. A Pisa, come in quasi tutti gli altri atenei italiani, si costituì un gruppo di professori associati e ordinari SPS (senza presa di servizio) che si mobilitò fino al raggiungimento dell’assunzione, avvenuta fra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, solo quando il blocco fu di fatto rimosso a livello nazionale. Facevo parte di quel gruppo e all’indomani della presa di servizio, insieme ad alcuni di quei colleghi, decidemmo di cercare un’occasione per proseguire il percorso che avevamo iniziato, individuando la globalizzazione quale tema di interesse comune per una conferenza dal taglio multidisciplinare. La conferenza ebbe luogo nel dicembre 2005 e ne presero parte, oltre a me, Gianluca Brunori, Luca Ceccherini-Nelli, Pierluigi Consorti, Alessandro Franco, Rossano Massai, Paola Nieri, Sandro Paci, Marta Pappalardo, Daniela Reali e Anna Maria Rossi, la maggior parte dei quali è ancora in servizio nel nostro ateneo. I lavori della conferenza furono poi raccolti nel volume “Effetti, potenzialità e limiti della globalizzazione. Una visione multidisciplinare”, curato da me stesso e Anna Maria Rossi e pubblicato nel 2007 da Springer-Verlag Italia.

Dal mio contributo al volume, dal titolo “Effetti, limiti e potenzialità della globalizzazione: il quadro economico” è stato tratto uno dei passi utilizzati come possibile traccia per la prova di Diritto ed Economia Politica di quest’anno dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione, Liceo delle Scienze Umane – Opzione economico-sociale (1).

In un tempo nel quale la globalizzazione economica veniva magnificata come fenomeno al quale non si poteva resistere (come suggeriva l’acronimo TINA, There Is No Alternative, attribuito alla signora Margaret Thatcher), nel capitolo dal quale quel passo è tratto venivano ricordate invece alcune delle problematiche che la caratterizzavano.

Già da diversi anni (a partire almeno dalla fine degli anni Novanta dello scorso secolo), i cosiddetti No Global, che sollevavano critiche a quel modello di globalizzazione, piuttosto che alla globalizzazione in sé (e che proprio per questo avrebbero preferito essere chiamati New Global), venivano rappresentati, nella migliore delle ipotesi, come inguaribili sognatori che vagheggiavano un mondo passato al quale non era possibile tornare, pena la rinuncia alla modernità e alle promesse di benessere che la globalizzazione sembrava assicurare in maniera pressoché automatica (famosa a questo proposito era l’immagine, alquanto evocativa, della marea che quando arriva ‘solleva tutte le barche’, le piccole quanto le grandi). Le critiche che essi avanzavano si riferivano soprattutto al fatto che le regole di quel tipo di globalizzazione fossero stabilite dai vincenti, i quali non si curavano di chi ne soffriva gli inevitabili costi, fossero essi interni ai paesi sviluppati o esterni ad essi. Nel primo caso si trattava dei propri lavoratori non specializzati, obbligati a competere con chi non era soggetto allo stesso modello di protezione sociale e ambientale. Nel secondo si trattava del sud del mondo, che subiva le regole di liberalizzazione imposte dai paesi del nord del globo, tecnologicamente più avanzati (gli stessi paesi che non avevano esitato, però, agli albori del loro decollo economico, a dotarsi di misure protezionistiche proprio per favorire la propria industrializzazione e che avevano cominciato a predicare il verbo del libero commercio solo quando i loro prodotti da esportazione potevano dominare incontrastati i mercati mondiali).
Si trattava, a ben vedere, di una posizione che, ragionevolmente, riconosceva i limiti dei mercati e suggeriva che venissero orientati per curarne le distorsioni e mitigarne le inefficienze.

Erano quelli gli anni, tuttavia, in cui il verbo del liberismo economico regnava incontrastato, dopo avere sconfitto il keynesismo che aveva guidato lo sviluppo economico del mondo fino agli shock petroliferi degli anni Settanta del secolo scorso. Proprio negli stessi anni, con una incredibile quanto irripetibile coincidenza temporale, la Cina aveva cominciato la propria ‘politica delle porte aperte’ sotto la guida di Deng Xiao Ping e negli ultimi 40 anni, proprio grazie alla sua apertura ad un mondo a sua volta disposto ad accoglierne i manufatti, ha saputo sollevare dalla povertà ben 800 milioni di persone, un risultato che troppo spesso viene ignorato, pur essendo di gran lunga migliore di quello di paesi come l’India o il Brasile, che ancora combattono con ampie sacche di povertà estrema. Non si può dire, tuttavia, che quel successo sia da attribuire del tutto alla globalizzazione, perché la Cina ha saputo declinarla secondo le proprie necessità ed imporre le proprie regole, non rinunciando a orientare l’economia nei settori che riteneva importanti per la propria industrializzazione e per il proprio sviluppo e imponendo una partnership cinese, per esempio, a chi voleva spostare la produzione in Cina per beneficiare dei più bassi costi di lavoro. Si trattava, però, di una norma contrastata dal WTO, nonostante fosse una misura di assoluto buon senso che mirava a far sì che il Paese di Mezzo potesse imparare tecnologie nuove e creare così le premesse per il proprio sviluppo economico. La Cina aveva anche impedito il libero movimento dei capitali a breve termine che l’IMF suggeriva di adottare in tutto il mondo in applicazione del mantra dei liberi mercati dei beni e dei fattori produttivi (ma solo dei capitali e non anche dell’altro fattore produttivo per eccellenza, il lavoro!). Erano quelli gli anni del Washington consensus, che vedeva IMF, WTO e Ministero del Tesoro americano predicare e proporre, quando non imporre, le stesse ricette neoliberiste in ogni parte del globo, come ricorda anche Joseph Stiglitz in molti suoi lavori. Fu proprio il libero movimento dei capitali a breve termine che produsse nel 1997 una grave crisi finanziaria nel Sud-Est asiatico (da cui la Cina uscì indenne grazie al rifiuto di seguire i precetti dell’IMF). Quella crisi fu premonitrice di quello che sarebbe successo nel mondo circa 10 anni dopo a causa dello sviluppo incontrollato degli strumenti finanziari derivati, fino ad allora ritenuti buoni per definizione, per il solo fatto che era il libero mercato a produrli.

Proprio la crisi finanziaria del 2007/08 segna però lo spartiacque fra l’età d’oro della terza fase della globalizzazione economica (dopo la prima, che comunemente identifichiamo con la Belle Époque che precedette lo scoppio della Prima guerra mondiale, e la seconda, che coincide con la ripresa seguita alla Seconda guerra mondiale) e l’età della slowbalisation, termine coniato da The Economist per rappresentare la fase attuale di rallentamento, e non di decrescita (deglobalization), del processo di globalizzazione economica. La crisi, prima finanziaria e poi anche economica, aveva minato la fiducia nel quadro tracciato dai cantori della globalizzazione indiscriminata.

L’elezione di Trump e la Brexit, nel 2016, segnano poi in maniera inequivocabile il cambiamento di percezione rispetto alla globalizzazione economica (così come, poco più di 25 anni prima, l’elezione della Thatcher e quella di Reagan avevano segnato, invece, l’inizio della fase neoliberista dell’economia mondiale). Le nuove parole d’ordine sono oggi quelle di “sovranismo” economico, di de-risking se non addirittura de-coupling (a ben pensarci, però, il termine sovranismo cela dietro di sé il vecchio nazionalismo, che nell’Italia fascista sfociò nell’estremo dell’autarchia: non è un caso che negli articoli scientifici pubblicati su riviste di International business, il sovranismo tecnologico, cioè l’ambizione all’indipendenza tecnologica, venga spesso definito techno-nationalism). Ora che paesi emergenti nel mondo (primo fra tutti la Cina) cominciano a condurre il gioco in termini di tecnologia avanzata che potrebbero esportare nel mondo (vedi le auto elettriche), abbiamo riscoperto le virtù del protezionismo. Abbiamo (re)imparato che lasciare la crescita dell’economia al libero mercato rischia di far sì che la tecnologia sviluppata da altre realtà economiche abbia il sopravvento sui mercati mondiali. In Europa avevamo adottato rigide misure per evitare che gli stati intervenissero nell’economia per favorire i rispettivi campioni nazionali. Nel far questo, però, abbiamo perso di vista quello che succedeva nel resto del mondo e dimenticato di pensare in termini europei per creare campioni di livello europeo. L’Airbus è un esempio di quello che si sarebbe potuto fare su più ampia scala, ma è un’iniziativa unica, risultante dal consorzio fra soli quattro stati europei, non riconosciuta dalla Commissione europea e osteggiata dal WTO, al quale si appellava la Boeing statunitense per difendere le ragioni del libero mercato che l’avrebbero lasciata indisturbata monopolista mondiale del trasporto aereo. Solo recentemente la Commissione europea ha lanciato un programma per una “Nuova strategia industriale europea”. Tale è il nostro abito mentale, però, che per fare questo abbiamo dovuto invocare superiori ragioni di sicurezza nazionale, mentre sarebbe sufficiente riconoscere che l’intervento pubblico è assolutamente legittimo, soprattutto quando altre realtà economiche sono avvantaggiate dal seguire politiche pubbliche che evidentemente non sono sempre così fallimentari come venivano dipinte (la Cina) o dal beneficiare di un infinito bacino di raccolta di capitali privati provenienti da ogni parte della terra che finanziano qualunque tipo di innovazione tecnologica (gli Stati Uniti). E sarebbe sufficiente pensare al caso Airbus-Boeing ricordato sopra per comprendere che, solo per fare un esempio, la creazione di piattaforme digitali che possano competere con i giganti i cui servizi utilizziamo tutti i giorni (lo abbiamo scoperto all’improvviso, soprattutto con la pandemia), sarebbe funzionale a rimuovere posizioni di monopolio a livello mondiale e a migliorare la competitività dei mercati, oltre che a consentire un bilanciamento delle competenze tecniche fra paesi e aree geografiche diverse.

È di tutta evidenza che siamo di fronte ad una nuova fase della globalizzazione. Sta a noi, soprattutto a noi europei, guidarla con equilibrio, anche svolgendo un ruolo pacificatore nel conflitto sempre più aperto che sta opponendo gli Stati Uniti alla Cina e con la consapevolezza che le vere parole chiave da pronunciare nel mondo dovrebbero essere quelle della sostenibilità, della transizione ecologica e del de-risking, sì, ma ambientale, in un mondo del quale siamo tutti ugualmente cittadini.

Pompeo Della Posta
Full professor alla Belt and Road School della Beijing Normal University a Zhuhai (Guangdong, Cina), in aspettativa dal ruolo di professore associato al Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa.
Direttore della rivista “Scienza e Pace/Science and Peace” dell’Università di Pisa

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1. Quello è il primo di una serie di altri miei scritti sul tema della globalizzazione economica, fra cui la curatela del volume “Globalization, Development and Integration: a European Perspective” con Milica Uvalic e Amy Verdun, Palgrave Macmillan, 2009; il libro “The Economics of Globalization: An Introduction”, Pisa: ETS, 2018 e gli articoli scientifici “An analysis of the current backlash of economic globalization in a model with heterogeneous agents", Metroeconomica, Volume72, Issue1, pp. 101-120, February 2021, DOI: 10.1111/meca.12312; “The economic and social costs of globalization: a target zones analysis”, The World Economy, Volume44, Issue3, pp. 633-644, March 2021, https://doi.org/10.1111/twec.13008; “Global value chains and the retreat of globalization”, Special Issue on New Globalization Challenges and EU Trade Policy, Perspectivas – Journal of Political Science, Guest Editors: Annette Bongardt and Francisco Torres, 2022. (https://www.perspectivasjournal.com/index.php/perspectivas/about); ¬¬e “The European Union in the age of ‘slowbalization’”, Journal of Policy Modeling, forthcoming.

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La copertina del volume “Effetti, potenzialità e limiti della globalizzazione. Una visione multidisciplinare” è realizzata a partire da un quadro di Carlotta Gualtieri.

 

 

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  • 11 luglio 2023

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