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Festival Toscano di Musica Antica - Risonanze

Concerto inaugurale aperto al pubblico il 27 giugno in San Frediano con l'Orchestra e il Coro femminile dell'Ateneo

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0000000risonanze_vert.jpgAl via, dal 27 giugno al 7 luglio il Festival Toscano di Musica Antica-RISONANZE, un viaggio musicale e un itinerario culturale completo, un’esperienza unica nel cuore di Pisa. Il concerto inaugurale a ingresso gratuito si svolge giovedì 27 giugno alle 21,30 in San Frediano. L’Orchestra e il coro femminile dell’Università di Pisa diretti rispettivamente dai Maestri Manfred Giampietro e Stefano Barandoni eseguiranno lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi.

L'Università di Pisa collabora al Festival, per i concerti in Sapienza studentesse e studenti hanno uno sconto sul biglietto (5 euro invece di 20) che può essere acquistato la sera stessa del concerto dalle 20,30 alle 21,30.

Di seguito una nota introduttiva all’ascolto curata dal professore Fabrizio Cigni, responsabile scientifico del Polo Musicale “Maria Antonella Galanti” - CIDIC dell’Ateneo

La celebre sequenza attribuita a Jacopone da Todi faceva parte della liturgia dell’Addolorata (15 settembre). Composta di venti strofe, ognuna di tre versi, legate a due a due dalla rima finale, risale al secolo XIII, e con tutta probabilità ha una matrice francescana. Con toccanti parole si dà qui espressione al dolore di Maria alla vista del Figlio Crocefisso e alla speranza dell’umanità di redimersi attraverso la sofferenza e morte di Cristo. Durante il secolo XIV, con le loro peregrinazioni i Flagellanti contribuirono notevolmente alla diffusione di questa Sequenza, che divenne una delle liriche religiose più radicate nella coscienza popolare. Lo Stabat Mater era allora cantato isolatamente anche durante la messa, ma solo nel 1727 Benedetto XIII lo introdusse ufficialmente nel Missale Romanum come sequenza, in connessione con l’antica solennità dei Sette Dolori di Maria. Alla fine del secolo XVI, nel periodo post-tridentino, lo Stabat Mater era già stato impiegato come inno nelle preghiere delle ore canoniche.

Le più antiche composizioni polifoniche sullo Stabat Mater risalgono in effetti al periodo intorno al 1500 (Josquin Desprez, Gaspar van Weerbeke); quindi si va dalle composizioni di Palestrina, Lasso o Aichinger a quelle di Alessandro e Domenico Scarlatti, Caldara e Haydn, per arrivare a Schubert, Rossini, Dvorák, Liszt e Verdi, fino al secolo XX inoltrato con quelle di Poulenc (1950) e Penderecki (1962). Il più famoso degli Stabat Mater, tuttavia, è quello che il ventiseienne Pergolesi compose poco prima della sua morte. Nel 1734 la confraternita napoletana dei Cavalieri della Vergine dei Dolori di San Luigi al Palazzo, infatti, commissionò a Pergolesi un nuovo Stabat Mater da sostituire a quello in uso da tempo, musicato da Alessandro Scarlatti ed eseguito ininterrottamente per circa vent’anni nella chiesa napoletana. Al suo antecedente diretto Pergolesi si richiama innanzitutto per la scelta dell’organico vocale, piuttosto insolito, in quanto costituito esclusivamente da un soprano e da un contralto (al posto delle quattro parti di soprano, contralto, tenore e basso), ma vi accompagnò un’orchestra più articolata (violini primi e secondi, viole e basso invece di due violini e organo). Quasi tutti i brani presentano la classica struttura bipartita dell’aria da chiesa, eccezion fatta per il quinto, Quis est homo, l’ottavo, Fac ut ardeat, che è un fugato, il nono, Sancta Mater, di forma tripartita, e il finale, che, come l’ottavo brano, è un fugato. Si consideri inoltre che ai primi del Settecento molti dovevano essere gli Stabat che prevedevano anche interventi corali, secondo una tradizione forse più popolareggiante che in tempi moderni sarebbe stata applicata anche alla composizione di Pergolesi, come la presente esecuzione testimonia. Pergolesi, in quel periodo della sua vita probabilmente alla ricerca di un clima più salubre per ultimare il lavoro, si trasferì da Napoli a Pozzuoli, e lì nel convento dei Cappuccini fu ospitato e accudito: la composizione dello Stabat lo assorbì totalmente. Nell’autografo della partitura, conservato presso la biblioteca del Monastero di Montecassino, è possibile rilevare una certa fretta di concludere, si dimenticò di stendere alcune parti delle viole, e nell’ultima pagina appose la scritta Finis Laus Deo.

Vale forse la pena ricordare che il clima musicale cittadino di quegli anni fruiva della grande eredità della cosiddetta “scuola napoletana”: Scarlatti era morto nel 1725, Leonardo Vinci nel 1730, Francesco Mancini nel 1737, ma personalità come Domenico Sarro, Nicola Fago, Francesco Durante e Leonardo Leo erano ancora attive. I dettami di quella scuola circolavano ancora sia nei quattro conservatori della città, sia nelle quasi 500 chiese, senza contare che nel 1737 si sarebbe inaugurato il teatro San Carlo. In questo fervore artistico, lo Stabat Mater di Pergolesi avrebbe enormemente contribuito ad alimentare il mito di un compositore innovativo e geniale, anche perché scomparso troppo presto. La cantata infatti, comprensiva di 12 brani (l’ultimo dei quali successivamente sdoppiato), pubblicata a Londra nel 1749, si affianca agli altri suoi due capolavori assoluti quali La serva padrona e Lo frate ‘nnamurato. Nel corso del Sette e Ottocento lo Stabat Mater fu molto apprezzato negli ambienti di corte, ad esempio in Francia (a Parigi e a Versailles, dove ne fu eseguita espressamente una copia manoscritta), ma conobbe un apprezzamento piuttosto contrastato da parte dei massimi compositori, da Bach, che peraltro utilizzò la musica del Pergolesi nel mottetto Tilge, Höchster, meine Sünden (BWV 1083) apportando qualche modifica per adattarla al testo del Salmo 51, a Berlioz, non sempre generosi nei confronti di questo straordinario pezzo, percepito come troppo operistico e teatrale. Inoltre era eseguito con organici sempre differenti, modificati di volta in volta secondo le diverse disponibilità vocali e orchestrali, fino a che Giovanni Paisiello, intorno al 1810, decise di scriverne una versione per un organico più ampio. In particolare, nella parte strumentale sostituì i due violini della versione di Pergolesi con un’orchestra formata da archi e legni, e divise in due parti separate l’ultimo numero, il dodicesimo (Quando corpus e Amen); aggiunse quindi alle voci un tenore e un basso, che cantano un'ottava sotto le parti originariamente affidate al soprano e al contralto. La suggestiva versione qui presentata costituisce invece un arrangiamento, che segue un uso molto invalso negli ultimi anni, e che qui è stabilito da Stefano Barandoni, che affida al coro femminile molte frasi di alcune sezioni in origine destinate alle sole due voci femminili. Abbiamo dunque l’intervento corale di soprani e contralti nei brani 1 (Stabat Mater dolorosa), 3 (O quam tristis et afflicta), 5 (Quis est homo qui non fleret), 9 (Sancta Mater istud agas), 11 (Inflammatus et accensus) e 12 (Quando corpus morietur).

Nel complesso, lo Stabat Mater di Pergolesi è caratterizzato da una cantabilità ed una musicalità così appassionate ed accese che, come spesso accade in questi eccezionali episodi del repertorio sacro, hanno fatto pensare alla produzione profana, grazie ad una prospettiva più squisitamente sentimentale (secondo la nota “teoria degli affetti”), incentrata sul pathos del testo sacro e, da un punto di vista tecnico-compositivo, grazie all'alleggerimento degli austeri toni presenti nella precedente versione scarlattiana. Questo non significa però un totale abbandono delle forme tipiche della tradizione sacra (i richiami arcaizzanti di alcuni passaggi del Fac, ut ardeat cor meum), ma indubbiamente colpiscono, e contrastano, i drammatici trilli sopranili del Cujus animam gementem (posti sopra il quinto rigo e indicati forte), o lo struggente Fac me vere tecum flere, solo per citare alcuni momenti che, fra gli altri, contribuiscono soprattutto alla vera novità musicale e religiosa del pezzo: una forte umanizzazione della figura, solitamente ieratica, della Vergine dolorosa.

 

 

 

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  • 26 giugno 2024

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