Una narrazione polifonica di docenti, studenti e amministrativi, che racconta l'esperienza vissuta nella pianificazione e realizzazione del corso di laurea interfacoltà in Comunicazione pubblica, sociale e d'impresa dell'Università di Pisa tra il 2002 e il 2012. È questo il tema del volume dal titolo "La Nave dei Folli: in cerca di nuove rotte nella formazione universitaria", curato dalla linguista e presidente del corso, Susan George, ed edito da Pisa University Press.
Pubblichiamo di seguito una parte dell'Introduzione scritta dalla professoressa Susan George.
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Sì, eravamo una squadra, o per essere più precisi, un equipaggio della Nave dei Folli che aveva la temerarietà di voler mettere in questione le premesse alla base della formazione universitaria in Italia. Queste premesse sono: l'università è un non-luogo dove le persone non si incontrano, dove gli studenti sono passivi e non possono esprimere le loro idee prima di laurearsi, dove l'unica autorità è quella del professore, dove la formazione è una giungla di orari e di date di esami e dove esiste un esile rapporto fra scuola e università e fra università e il mondo del lavoro. Noi volevamo, invece, creare una comunità indagante e dialogante dove le abilità e le diversità di ognuno potessero essere potenziate in una ricerca permanente a beneficio di noi stessi e del nostro territorio. Si sperava che cambiando il nostro ruolo anche chi era intorno a noi sarebbe stato costretto a cambiare.
Chi eravamo? Un gruppo di professori di ben quattro facoltà (Lettere e Filosofia, Economia, Scienze Politiche, Lingue e Letterature Straniere) e del dipartimento di Informatica dell'Università di Pisa che si sono trovati, alcuni per caso e altri per convinzione, nel Consiglio del nuovo corso di laurea interfacoltà in Comunicazione pubblica, sociale e d'impresa. La cosa che ci univa era che venivamo considerate tutte persone che si muovevano al di fuori degli stretti confini disciplinari dei vari dipartimenti. Ed è stata proprio questa curiosità, questo desiderio di contaminazione che ci ha permesso di cercare nuove rotte nei mari burrascosi delle continue riforme dell'università italiana.
Era l'anno 2002. Il "Processo di Bologna" del 2000, condotto da Luigi Berlinguer e Luciano Modica, Rettore dell'Università di Pisa e presidente della Conferenza dei Rettori dell'Università Italiana (CRUI), aveva stabilito che le lauree quadriennali fossero convertite in lauree triennali in modo che i laureati italiani non fossero in svantaggio nell'ingresso nel mondo del lavoro rispetto ai colleghi di altri paesi europei. L'idea di questa riforma era di creare corsi in parte professionalizzanti, da concludere in tre anni con un diploma dotato di un senso autonomo, e quindi senza necessità di proseguire. Chi, invece, avesse proseguito gli studi nel biennio successivo, avrebbe avuto un'impostazione più teorica.
Noi docenti del futuro corso di laurea in Comunicazione pubblica, sociale e d'impresa ci siamo trovati con un piano di studi disegnato da tre rappresentanti delle facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature Straniere e Scienze Politiche5 che, su pressione del Rettore Modica, erano riusciti a delineare una laurea di comunicazione per formare comunicatori delle esigenze del territorio: comunicatori della pubblica amministrazione, delle Onlus, delle attività commerciali. Il nostro compito era riempire questa struttura, renderla vitale.
A questo fine ci siamo chiesti quali competenze comunicative e profili professionali sono indispensabili nel panorama del mondo in trasformazione, quale poteva/doveva essere il rapporto fra i contenuti disciplinari e queste competenze umane e professionali e come si sarebbe potuta evitare quella netta divisione fra teoria e pratica che spesso in Italia è a scapito della pratica.
Ci siamo avvalsi di tre culture pedagogiche: quella accademica, che in Italia di solito è deduttiva, ma con una speciale attenzione a modalità di insegnamento interattive; quella teatrale/culturale che mette al centro il rapporto fra individuo e gruppo; e quella più pragmatica inglese dove, partendo da casi, esempi, simulazioni, gli studenti sono "obbligati" a fare delle esperienze, sulle quali riflettere per estrapolare delle generalizzazioni. Volevamo un apprendimento che non fosse mai distante dagli studenti, in grado di attivare la gamma di intelligenze presenti in classe e di utilizzarle in lavori di gruppo che abituano a riconoscere le abilità altrui e la necessità di prendersi delle responsabilità individuali. Nel corso dei tre anni il ruolo dello studente doveva cambiare, rendendolo sempre più autonomo, e il modo per valutarlo doveva cambiare di conseguenza. Con questi diversi approcci siamo riusciti a far "toccare con mano" la rilevanza delle premesse teoriche nelle scelte pratiche e a riflettere e far riflettere sui rapporti fra teoria e pratica.
Susan George