Il canto e la poesia come armi di battaglia, come veri e propri strumenti di comunicazione rivoluzionari. E' questo un aspetto importante del Risorgimento livornese secondo Fabrizio Franceschini, professore di Linguistica italiana all'Università di Pisa, che sull'argomento ha scritto il saggio "Vite, lotte, versi: poeti popolari tra Toscana Corsica e Sardegna", scaricabile direttamente dal web (www.incontrotransfrontaliero.com) e comparso in un volume che raccoglie gli studi conclusivi del progetto "IN.CON.TRO (programma europeo Italia-Francia "Maritime").
"Si discute se il Risorgimento sia stato un fatto solo di élites intellettuali e di diplomazie. A differenza di quanto accadde nel resto della Toscana – spiega Franceschini – a Livorno le lotte risorgimentali furono davvero un fenomeno di massa e in questo senso la città è paragonabile a capitali italiane del movimento patriottico come Milano, Venezia o Roma". Nel suo studio Franceschini delinea i tratti di alcune "anime rivoluzionarie" della città labronica e della Toscana: anzitutto Giovanni Guarducci, capo della disesa antiaustriaca nel 1849, e poi Gian Luigi Tognocchi, Pirro Giacchi, e Demetrio Ciofi. "Siamo di fronte – continua Franceschini – a scrittori e poeti di varia estrazione sociale (Guarducci si occupava di commerci, Ciofi e Giacchi erano avvocati, Tognocchi un prete spretato) che misero al servizio del patriottismo tanto il fucile quanto la penna".
Le canzoni sovversive e anti-austriche che questi uomini scrissero spesso riprendevano arie d'opera o motivi popolari. Cantate per strada o nelle osterie, magari con l'accompagnamento di una chitarra, contribuirono a formare una coscienza risorgimentale diffusa e "dal basso". Pensiamo ad esempio alla Rondinella pellegrina, dal Marco Visconti di Tommaso Grossi, e alla Rondinella che libere l'ali stesa da Enrico Mayer nel carcere di Castel Sant'Angelo. Questi testi, nati per sottolineare l'infelicità degli esuli o dei prigionieri (tipicamente la rondine portava con sé notizie di chi era lontano), divennero una specie di "giornale cantato", dove si cambiavano le parole per raccontare le ultime novità dai campi di battaglia. Ci furono così la Rondinella di Livorno, scritta dopo l'arrivo degli austriaci (11 maggio 1849) che mise fine alla "Repubblica di Livorno", le Rondinelle legate alla II Guerra di Indipendenza e infine La Rondinella d'Aspromonte e quella di Mentana.
"Fra i patrioti livornesi e italiani che ripararono da Livorno a Bastia dopo l'arrivo degli austriaci – continua Franceschini – ci fu anche Guarducci, che di fatto divenne il capo della nutrita colonia italiana di esuli, composta da circa mille persone". Ma anche dalla Corsica questi uomini, penna in mano, continuarono a combattere inviando in Toscana opuscoli e canzoni "sovversive" stampate al di là del Tirreno. "Siam raminghi Livornesi, / siamo profughi infelici / ma terribili ai nemici / della nostra libertà./ Noi pugnammo un contro mille, / vinti sì, ma senza scorno: / la caduta di Livorno / tutta Italia onorerà", scriveva ad esempio Giacchi nel 1849. "In generale questi canti – spiega il professore – erano scritti in italiano, ma si usava anche il dialetto livornese (ad es. "noi semo livornesi/ veri repubbriàni,/ lo sa anch'er Cipriani/ se noi si sa pugnar"); analogamente a Roma il famoso Ciceruacchio, ossia Angelo Brunetti, usava il romanesco come strumento di comunicazione politica".
Un fenomeno particolare è poi l'uso del "bagitto", cioè del dialetto ebreo-livornese, nelle rime del Guarducci stampate a Bastia (che Franceschini sta per pubblicare in edizione critica e con un ampio studio presso Belforte di Livorno). Si tratta di poesie che satireggiavano non solo certi aspetti tradizionali della comunità ebraica livornese, ma anche gli israeliti impegnati in prima linea nel movimento patriottico e repubblicano, sulla linea indicata da Giuseppe Mazzini, mentre Guarducci era schierato sulle posizioni, spesso diverse e più moderate, di Francesco Domenico Guerrazzi. "E' probabile che Guarducci, ricordando anche in Corsica le lotte comuni e le rivalità intestine, – conclude Franceschini – riempisse il vuoto di azione dell'esilio, ma la faccenda aveva anche un risvolto economico: appena queste opere arrivavano a Livorno la comunità ebraica le acquistava in blocco per levarle di circolazione. Ma i proventi di queste vendite andavano comunque a sostenere la comunità degli esuli. Allo stesso modo Giacchi e Ciofi facevano al Teatro di Bastia serate di poesia estemporanea, devolvendo gli incassi a favore dei compagni in difficoltà. La poesia popolare era così uno strumento di lotta, ma anche di vita".
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