Si è tenuto martedì 10 dicembre, nella sede del Senato di Palazzo Madama, l'incontro sul tema "Scienza, innovazione e salute". L'iniziativa, a cui hanno partecipato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha affrontato temi che vanno dalla biomedicina alla fisica, dagli investimenti in ricerca al rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica e tra scienza e libertà. L'obiettivo primario è quello di ripristinare un utile dialogo tra il mondo della cultura scientifica e il mondo della politica e delle istituzioni.
All'incontro ha preso parte il professor Andrea Bonaccorsi, docente di Ingegneria economico-gestionale dell'Ateneo e componente del Consiglio direttivo dell'ANVUR, che ha tenuto una relazione dal titolo "Conviene investire in ricerca?".
Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento del professor Bonaccorsi.
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Conviene investire in ricerca?
In momenti di crisi economica e in presenza di un elevato debito pubblico anche la spesa per ricerca viene assoggettata alla dura disciplina dell'austerità. Le decisioni del governo e del Parlamento sono costrette a misurarsi con la ristrettezza delle risorse e quindi a porre di fatto, al di là della formalità, domande brutali: perché assegnare risorse alla ricerca a preferenza di altri settori della vita pubblica? Una volta assegnate le risorse, è possibile garantire un uso efficiente?
In questo intervento intendo offrire alla riflessione dei parlamentari alcune acquisizioni della ricerca economica sul ruolo della ricerca nelle società avanzate e sui principi di fondo con i quali finanziarla e gestirla. Accetterò quindi un terreno di gioco economico, pur sapendo che vi sono anche fondamentali motivazioni extra-economiche (culturali, sociali, di crescita della coscienza civile e delle istituzioni democratiche, di qualità della vita) per sostenere la ricerca.
Primo: investire in ricerca conviene
Assumendo un punto di vista economico, la spesa pubblica in ricerca deve essere considerata una spesa per investimento, non una spesa corrente. Infatti per definizione la ricerca produce effetti differiti nel tempo e presenta quindi tutte le caratteristiche della spesa per investimenti. La domanda economicamente rilevante è dunque: quanto rende la spesa in ricerca?
La ricerca può generare direttamente un ritorno economico. Questo effetto è evidente per la ricerca privata e si può misurare in riferimento ai profitti aggiuntivi che le imprese ottengono dai nuovi prodotti (innovazione di prodotto) e dalla riduzione dei costi e dal miglioramento della qualità (innovazione di processo). Anche per la ricerca pubblica è possibile identificare un ritorno economico diretto, ad esempio sotto forma di licenze sui brevetti delle università o di idee di ricerca che si trasformano in prodotti commerciali attraverso l'attività delle spinoff companies. E tuttavia l'esperienza di tutti i paesi avanzati suggerisce che l'impatto diretto è trascurabile. Persino nel caso della NASA è stato stimato che l'impatto diretto, in termini di prodotti che non si sarebbero mai realizzati senza la ricerca svolta internamente, era intorno al 10% della spesa, un livello chiaramente insufficiente a giustificare l'investimento. Quindi è un errore cercare la giustificazione economica della spesa in ricerca nell'impatto diretto. Questa è una prima lezione importante.
Quello che conta è l'effetto economico indiretto, che si manifesta in due dimensioni principali: gli spillover di conoscenza e la creazione di capitale umano.
Gli spillover sono i flussi di conoscenza che vengono generati dalla ricerca e che circolano nel sistema economico trovando applicazioni in settori anche molto lontani e con tempistiche imprevedibili. La telefonia cellulare non sarebbe mai nata senza la trasformata veloce di Fourier (FFT) e le banche non gestirebbero oggi in sicurezza l'home banking senza sistemi basati su una delle parti più astratte della matematica, la teoria dei numeri. Ma nessuno, nemmeno gli stessi ricercatori, poteva prevedere queste applicazioni.
La buona notizia è che oggi disponiamo di una stima di quanto valgono questi spillover in termini economici. Da alcuni decenni gli economisti hanno cercato di misurare non solo gli effetti diretti ma anche gli effetti indiretti, con varie tecniche di rilevazione, e poi, attraverso metodi finanziari che tengono conto del tasso di sconto, hanno sintetizzato le misure in un numero, chiamato tasso di rendimento. L'idea è semplice: un tasso di rendimento del 20% significa che per ogni 100 euro di investimento si riceve un flusso netto di 20 per ogni anno di vita dell'investimento. Il tasso di rendimento può quindi essere confrontato con quello di altri investimenti pubblici. Sebbene gran parte degli studi si siano occupati del rendimento della ricerca privata, in quanto l'impatto è maggiormente misurabile, vi sono anche importanti studi sull'impatto della ricerca pubblica.
La seconda buona notizia è che una volta misurato, questo tasso di rendimento è largamente superiore a quello di altri investimenti, sia pubblici che privati. Investire in ricerca conviene!
Alcuni degli studi sull'impatto economico della ricerca pubblica si soffermano su tre indicatori:
- La quota di innovazioni derivante dalla ricerca pubblica
- Il beneficio complessivo derivante dall'investimento in ricerca pubblica per tutta la durata dei loro effetti (da pochi anni a 20-25 anni)
- Il tasso di rendimento annuale.
Tutti gli studi confermano un impatto elevato; laddove si sia stimato il tasso di rendimento si ottengono valori compresi tra il 20 e il 50%. Ciò significa che, tenendo conto di tutti gli effetti diretti e indiretti, l'investimento si ripaga in 2-5 anni. Si tratta di tassi nettamente superiori ad altre forme di investimento pubblico.
La seconda forma di effetto indiretto è data dal capitale umano. Le istituzioni che producono ricerca producono anche, inscindibilmente, capitale umano qualificato. Quanto vale l'investimento in istruzione superiore? Anche in questo caso numerosi economisti si sono applicati in esercizi di stima, misurando l'aumento di reddito nell'intera vita lavorativa che è associato ai titoli di studio superiori (laurea o titoli post-laurea). Le stime più frequenti si attestano intorno ad un tasso di rendimento privato del 15-20% annuo, ed un tasso di rendimento sociale nello stesso range, anche se in genere più basso in quanto lo Stato sostiene una quota elevata della spesa. Anche in questo caso, si tratta di un rendimento superiore al costo del capitale e al livello medio degli investimenti industriali.
Secondo: la ricerca si (auto)governa attraverso il merito
La seconda evidenza risponde ad una domanda che in sede politica viene spesso legittimamente avanzata: posto che il risultato della ricerca è in gran parte immateriale e poco visibile, come evitare che i finanziamenti vengano allocati in modo inefficiente? Come evitare che il legislatore e il decisore pubblico siano indotti a finanziare attività che rientrano nell'interesse dei ricercatori, ma non della società? In altre parole, anche ammesso che si debba investire, come controllare l'allocazione dell'investimento tra i ricercatori?
Anche qui l'analisi economica ha fatto una scoperta interessante, ovvero che la produttività dei ricercatori è molto differenziata. L'evidenza è robusta. Se prendiamo i ricercatori più produttivi, ad esempio il top 1% dei ricercatori più citati al mondo, e li confrontiamo con quelli meno produttivi, scopriamo che non stanno su una retta che scende dolcemente, ma su una curva molto ripida. In altre parole, tra il primo 10% e l'ultimo 10% la differenza è enorme, assai più marcata di quella che si ha in altre attività professionali. In gergo tecnico, è in azione una legge di potenza.
Per quanto disturbante questa scoperta possa essere per il proprio ego, gli scienziati ci sono abituati, competono fieramente tra loro ma allo stesso tempo tributano con generosità i riconoscimenti ai loro colleghi più produttivi. Tra le ragioni che spiegano queste grandi differenze vi è il fatto che i ricercatori più brillanti arrivano a scoperte, a volte anche fondamentali, che aprono interi nuovi settori di ricerca. Più in generale, i ricercatori che acquisiscono maggiore visibilità internazionale attraggono maggiori finanziamenti, attirano gli studenti di dottorato migliori, creano laboratori, collaborano con i colleghi più stimolanti. Se giungono a scoperte importanti da giovani questi effetti sono ancora più pronunciati. Cumulando nel tempo gli effetti si giunge alle ampie differenze osservate empiricamente. Se poi i ricercatori produttivi si trovano insieme ad altri altrettanto di talento, allora nascono istituzioni (laboratori, istituti, dipartimenti) che possono mantenere elevati livelli di qualità scientifica anche per molti decenni.
L'implicazione di questa scoperta è molto chiara: la ricerca va sempre (sempre) governata con il merito. L'unica moneta che ha valore nella comunità scientifica è il riconoscimento del merito scientifico. Ciò significa due cose: che nemmeno un euro deve essere speso senza una rigorosa valutazione ex ante, sulla base della peer review, e che tutte le attività di ricerca (non solo quelle vigilate dal MIUR) dovrebbero essere sottoposte periodicamente ad una valutazione ex post.
Questa è anche una garanzia per il denaro pubblico. Se la spesa in ricerca viene allocata secondo criteri di merito, allora il Parlamento sa che non sarebbe possibile fare meglio, perché le risorse andranno proporzionalmente a coloro che possono utilizzarle nel modo più produttivo. Seguendo la traccia del merito, le comunità scientifiche si auto-organizzano, trovando al proprio interno le regole di funzionamento che massimizzano l'impatto positivo sulla società.
Ed è importante richiamare a questo Parlamento il fatto che la comunità scientifica italiana nel suo insieme, sia nelle università che negli enti di ricerca vigilati dal MIUR, si è appena sottoposta ad una valutazione che ha coinvolto tutti i ricercatori senza eccezione alcuna, e che ha portato a risultati trasparenti, consultabili in rete e confrontabili fin nei minimi dettagli. Parliamo della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) realizzata dall'ANVUR. Sulla base di questa valutazione verrà allocato il 66% della quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario per le università, a sua volta pari al 13,5% del Fondo. Nessuna amministrazione dello Stato si è sottoposta ad un esercizio simile per ampiezza, copertura, rigore di metodo e trasparenza, nonché per impatto sul finanziamento. Invito a riflettere su cosa potrebbe accadere se altre parti della Pubblica Amministrazione venissero sottoposte ad una valutazione esterna di questa portata.
Non potrebbe esservi controprova migliore del fatto che i ricercatori sono quasi per costituzione pronti a sottoporsi al giudizio del merito. Ciò nonostante è onesto riconoscere che permangono ancora tracce, talora consistenti, di vecchie abitudini orientate a favorire i legami di appartenenza e di cordata, nella opacità dei criteri di giudizio. Ma occorre dire con assoluta chiarezza che la strada del merito è tracciata ed è irreversibile.
Terzo: i ricercatori sono più produttivi da giovani
Veniamo ad una ulteriore acquisizione della analisi economica della scienza, che va sotto il nome di ciclo di vita degli scienziati. Si è osservato che la produttività dei ricercatori diminuisce con l'anzianità. L'intuizione è la seguente: nel produrre risultati scientifici i ricercatori "investono" nel proprio capitale umano. Mano a mano che si avvicinano alla fine dell'attività accademica investono sempre di meno, perché sanno che non potranno sfruttare i risultati. Questo effetto è stato trovato su tutti i campi scientifici, con poche eccezioni. Naturalmente vi sono singoli scienziati che hanno una straordinaria produttività fino ad età avanzata, come questo Parlamento fino a poco tempo fa ha potuto constatare con la presenza di Rita Levi Montalcini e come testimoniano numerosi ricercatori attivissimi. Occorre tuttavia guardare agli effetti aggregati, non alle eccezioni, per quanto luminose.
La conseguenza è evidente. Se una istituzione scientifica non ha un adeguato turnover, la sua anzianità media aumenta inesorabilmente. Con il passare degli anni, questo produrrà un calo della produttività scientifica.
Il fatto che i ricercatori sono più produttivi da giovani ha anche un'altra conseguenza importante: occorre programmare la politica della ricerca su un ampio orizzonte temporale. I giovani non strutturati devono sapere che vi saranno opportunità di inserimento, molto selettive, per le quali prepararsi a tempo debito. I ricercatori devono sapere che vi saranno opportunità di carriera per le quali pianificare l'attività. Niente è più dannoso al sistema della ricerca di un avanzamento di carriera che funziona a "stop-and-go": per molti anni nessuna opportunità, poi d'improvviso una finestra stretta da cui tutti devono passare. Esistono studi economici che mostrano come la produttività della ricerca cali vistosamente a fronte di un andamento discontinuo del reclutamento.
Occorre quindi arrivare presto ad una programmazione pluriennale, che consenta ai soggetti di aprire veri e propri programmi di reclutamento a lungo termine.
Quarto: trovare con creatività nuove forme di finanziamento della ricerca
Di fronte alle evidenze sopra richiamate, e soprattutto all'ampiezza dei ritorni economici dell'investimento pubblico in ricerca, viene da chiedersi perché il nostro paese continui a segnalarsi nella coda di tutte le classifiche internazionali.
Vorrei avanzare una congettura. I governi e il Parlamento non ragionano secondo il tasso di rendimento della ricerca pubblica. Se lo facessero, raddoppierebbero la spesa italiana in pochi anni, comprimendo altre componenti della spesa pubblica.
Come ci dice un altro filone della teoria economica, i governi e il Parlamento ragionano sulla base di procedure di budgeting. Conservano la spesa dell'anno precedente se tutto va bene, tagliano se vi è austerità. L'Italia si è infilata in un tunnel di spesa sostanzialmente costante, in termini reali, dopo un decennio di forte crescita negli anni '80, e da allora non si è più mossa. La strategia di Lisbona è passata come acqua fresca. La logica del budgeting, in assenza di vigorose decisioni politiche, ha condotto ad assoggettare la spesa per ricerca agli stessi tagli lineari del resto della pubblica amministrazione, in controtendenza rispetto ai principali paesi nostri competitori.
Avanzo una modesta proposta. Perché non esplorare, prendendo atto di una difficoltà persistente, che si è finora espressa con governi di diverso orientamento, strade alternative di finanziamento della ricerca? Suggerisco due possibilità:
- Valorizzare il ruolo delle grandi aziende pubbliche nelle quali il Tesoro mantiene una quota del capitale: perché oltre che incassare dividendi lo Stati non chiede, in quanto azionista, di allocare una parte piccola ma costante degli utili alla costituzione di fondi per la ricerca, basati su procedure rigorose di peer review, sul modello delle fondazioni private?
- Agganciare la spesa in ricerca a qualche voce di fiscalità generale con un meccanismo automatico. Suggerirei di allocare alla ricerca una quota della tassazione dei giochi. Nelle scommesse le persone mostrano di essere propense al rischio, a differenza della generalità degli individui. Ebbene, una parte della tassazione potrebbe andare ad altri soggetti propensi al rischio, i ricercatori.
Credo che occorra esplorare nuove strade, sulle quali avventurarsi anche sfidando la opinione comune. I ricercatori a questo sono abituati e sono pronti a fare la loro parte.
Andrea Bonaccorsi
docente di Ingegneria economico-gestionale e componente del Consiglio direttivo dell'ANVUR