In occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria 2012, l'Università di Pisa, la Scuola Normale Superiore, la Scuola Superiore Sant'Anna, insieme con il Comune di Pisa, hanno scoperto nel cortile della Sapienza una targa in memoria degli Ebrei e le Ebree sottratti agli studi dalle leggi razziali. Nell'occasione erano presenti Nicoletta De Francesco, prorettore vicario dell'Università di Pisa, Claudio Ciociola, vicedirettore della Scuola Normale Superiore, Pierdomenico Perata, prorettore vicario della Scuola Superiore Sant'Anna, Marco Filippeschi, sindaco di Pisa, Guido Cava, presidente della Comunità Ebraica di Pisa.
Sulla targa sono state incise le parole:
L'Università di Pisa, la Scuola Normale Superiore, la scuola Superiore Sant'Anna, insieme con la Città di Pisa, ricordano alla comunità scientifica e alla cittadinanza tutta la vergogna delle leggi razziali che, nel silenzio di troppi, sottrassero irrimediabilmente ebree ed ebrei agli studi, alla docenza, alla ricerca.
Pubblichiamo qui di seguito il discorso pronunciato da Nicoletta De Francesco.
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Presidente della Comunità Ebraica di Pisa, Gentili Autorità, Colleghe e Colleghi, Signore e Signori,
sono profondamente onorata di presiedere alla cerimonia di scoprimento della lapide che – a nome dell'Università, della Scuola Normale e della Scuola Sant'Anna, e insieme alla città di Pisa – dedichiamo oggi alla memoria degli studenti e dei docenti ebrei colpiti dalla legislazione razziale emanata dal regime fascista.
Questa iniziativa, com'è noto, fa parte delle celebrazioni che la nostra città ha organizzato per il Giorno della Memoria, a ricordo di una data - quella del 27 gennaio - che nel 1945 segnò la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell'esercito sovietico. Altri momenti significativi si sono già svolti in mattinata, con l'inaugurazione a San Rossore di una targa a ricordo delle leggi antiebraiche firmate dal re Vittorio Emanuele III proprio in quel luogo, con la consegna della Medaglia Città di Pisa allo scrittore israeliano Abraham Yehoshua e della Medaglia d'onore alla memoria di Italo Baroni, deportato a Dachau. Nel pomeriggio seguirà il conferimento, da parte della Scuola Normale, del Perfezionamento honoris causa in Letteratura contemporanea allo stesso Yehoshua.
La lapide che scopriremo tra qualche minuto si inquadra in un percorso storiografico e culturale che l'Università, insieme alle Scuole pisane, ha intrapreso da diversi anni, avvertendo distintamente la responsabilità di ricordare il Giorno della Memoria al di là di ogni enfasi retorica e, anzi, facendo innanzitutto i conti con la propria storia, con le sue tante luci e anche con le sue zone d'ombra.
Riflettere sullo sterminio sistematico realizzato dal Nazismo, con la complicità dei diversi fascismi europei, vuol dire interrogarsi su se stessi, facendosi carico della propria parte di responsabilità nei confronti della Storia con la esse maiuscola, ma soprattutto nei confronti delle storie dei singoli individui.
Nel 2001, per volontà dell'allora prorettore per i Rapporti con il territorio, il compianto professor Tommaso Fanfani, la casa editrice dell'Ateneo ha pubblicato il volume su "Shoah e cultura della pace", legato alle iniziative per il Giorno della Memoria. Utilizzando un'ampia documentazione reperita negli archivi dell'Università, della Scuola Normale e del ministero della Pubblica istruzione il libro ha gettato le basi per ricostruire la realtà della discriminazione razzista a Pisa, restituita nella dimensione plurale della normativa, della prassi e delle sue ripercussioni sui destini individuali di docenti e studenti.
Era un argomento, per altro, già sviluppato da una studiosa pisana, Francesca Pelini, nella sua tesi di laurea, e che ha avuto piena realizzazione, dopo la prematura scomparsa della giovane storica, nel volume a due mani – della stessa Pelini e di Ilaria Pavan – pubblicato da "Il Mulino" nel 2009 con il titolo "La doppia epurazione. L'Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra".
Un ulteriore e importante contributo è arrivato dal convegno del settembre 2007, organizzato dal dipartimento di Storia dell'Ateneo, dalla Scuola Normale e dalla Scuola Sant'Anna, su "Le vie della libertà. Maestri e discepoli nel laboratorio pisano tra il 1938 e il 1943"; così come dagli studi germogliati negli ultimi anni al Centro interdipartimentale di studi ebraici dell'Università, anche grazie ai rapporti con le istituzioni accademiche israeliane e con il Museo "Yad Vashem".
Tutte queste ricerche e queste iniziative, che certo non possono essere considerate come conclusive, hanno ampliato di molto le conoscenze relative all'applicazione che le leggi razziali ebbero nelle istituzioni universitarie pisane, favorendo l'avvio di una riflessione complessiva su tale realtà. Sono i tratti fondamentali che cercherò di sintetizzare in questo intervento.
La svolta antisemita del regime fascista si abbatté sulla comunità accademica pisana in modo tanto repentino, quanto inaspettato. Fino alle leggi razziali del 1938, infatti, la presenza ebraica nell'Ateneo era consolidata e pienamente integrata, oltre che numericamente e qualitativamente consistente. Non a caso, a fine Ottocento, il "Vessillo Israelitico" aveva segnalato l'Università di Pisa come quella con il più alto numero di docenti ebrei in tutta Italia e per oltre venti anni, dal 1898 al 1920, un suo rappresentante, David Supino, aveva ricoperto la carica di rettore.
Diversi esponenti di origine ebrea, per di più, avevano oramai perso o allentato i propri legami identitari e non pochi avevano aderito in modo convinto al fascismo.
Lo studium pisano non solo poteva vantare una tradizione di calorosa accoglienza verso gli studenti israeliti, ma era diventato anche punto di riferimento a livello europeo, dopo il 1933, per quegli studenti che sfuggivano alla legislazione antiebraica della Germania nazista e degli altri Paesi dell'Europa Orientale, in particolare della Polonia. Nell'anno accademico 1937-38, con il picco di 308 studenti, l'Ateneo rappresentava il secondo polo attrattivo, dopo Bologna, per quanto riguarda le istituzioni universitarie italiane.
La loro espulsione a seguito delle leggi razziali ebbe conseguenze immediate e pressoché definitive: nell'anno accademico 1939-40 da più di trecento gli studenti ebrei stranieri erano rimasti in quattro, che poi furono azzerati completamente l'anno successivo.
Più difficile da quantificare, ma altrettanto significativa, è la vicenda degli studenti italiani di "razza ebraica", sia di coloro a cui, terminati gli studi superiori, fu preclusa l'iscrizione all'Università, sia di coloro che, già iscritti negli anni precedenti, non poterono continuare e terminare il proprio percorso universitario.
Per quanto riguarda i docenti, dopo le leggi dell'autunno 1938 furono sospesi dall'insegnamento cinque professori di ruolo e diversi tra liberi docenti, assistenti, aiuti e un lettore di lingua tedesca. In tutto erano venti, che rappresentavano il 5 % dell'intero corpo docente dell'Ateneo.
I percorsi di queste persone, prima separati e solo in quel momento accomunati dalla scelta di cancellare le rispettive carriere, tornarono naturalmente a seguire fili individuali. Ci fu chi scelse la strada difficile e problematica dell'emigrazione. Per esempio Bruno Paggi, aiuto di Patologia chirurgica, lasciò moglie e sette figli e riparò prima a Parigi e poi a Londra, per finire dopo il 1940 in Venezuela a lavorare in un'impresa di olii minerali. Tornò in Italia solo nel 1947, dopo oltre otto anni di separazione dalla famiglia, accettando il posto di chirurgo all'ospedale Santa Chiara di Pisa. Morì nel 1951, ad appena 50 anni.
Altri, per ragioni di età, per motivazioni economiche o familiari, perché non avevano alle spalle solidi contatti internazionali o un curriculum accademico di prestigio, finirono per rimanere in Italia. È il caso di Enrica Calabresi, incaricata di Zoologia, che, alla soglia dei cinquant'anni, decise di non abbandonare Firenze, insegnando scienze nella scuola ebraica organizzata dalla comunità cittadina dopo l'inizio della persecuzione. Arrestata nella sua abitazione fiorentina nel gennaio del 1944, Enrica Calabresi si suicidò dopo pochi giorni nel carcere di Santa Verdiana. In onore della professoressa, due specie di coleotteri portano oggi il suo nome.
Due docenti, Raffaello Menasci e Ciro Ravenna, furono tra le vittime del campo di sterminio di Auschwitz.
L'Ateneo e i suoi rappresentanti più alti accolsero le leggi antisemite senza entusiasmo, ma anche senza squarciare il velo di silenzio sulla loro evidente barbarie, e le applicarono in modo burocraticamente efficace. Nel discorso di inaugurazione dell'anno accademico 1938-39, il rettore Giovanni D'Achiardi si limitò a dare una comunicazione asettica della normativa antiebraica e subito dopo non mancò di richiamare l'appartenenza all'Ateneo del fresco Premio Nobel per la Fisica, Enrico Fermi. In questo passaggio evitò ogni riferimento al fatto che il fisico avesse dovuto abbandonare il nostro Paese per difendere la moglie, ebrea, dalle possibili conseguenze della legislazione razziale.
Il vuoto prodotto dall'espulsione dei docenti ebrei aprì invece spazi per ridistribuire cariche e potere, che a volte costituirono l'occasione per dimostrazioni di cinico opportunismo. Sul versante opposto, tuttavia, all'interno dell'Ateneo non mancarono esempi di generosa solidarietà.
Come ha ricordato Elio Toaff, studente della facoltà pisana di Giurisprudenza, al momento della tesi non riusciva a trovare un professore disposto a seguirlo: "uno mi scaricava all'altro – ha detto - e nessuno si decideva ad assegnarmi un argomento da svolgere". Allora intervenne Lorenzo Mossa, docente di Diritto commerciale, che fu l'unico ad offrirsi, permettendo a Toaff di laurearsi nel 1939 con una tesi su "Le società commerciali in Palestina". In sede di discussione, il professor Mossa volle sottolineare la dignità dell'abbigliamento di Toaff, vestito con camicia bianca e pantaloni a righe, come segno di critica indiretta alla regola che chiedeva agli studenti di sostenere esami e tesi in camicia nera.
La ferita aperta con le leggi del settembre 1938 non si rimarginò neppure nell'ultima fase del secondo conflitto bellico mondiale e nel dopoguerra, dando così ragione della scelta del titolo "La doppia epurazione" del libro di Pelini e Pavan.
A livello generale si seguì l'impostazione crociana del fascismo come parentesi estranea alla storia d'Italia e, anche a costo di vere e proprie azioni omissive, i rappresentanti dell'Ateneo rivendicarono la propria separazione, se non proprio opposizione, rispetto al regime.
Su un piano più concreto, ebbe un'applicazione solo parziale, reticente e inefficace tanto la normativa che riguardava l'epurazione di chi si era compromesso con il fascismo, quanto quella relativa alla riparazione dei danni subiti dai perseguitati.
Tra fine 1945 e inizio 1946 la Commissione provinciale per l'epurazione propose di procedere, come poi avvenne effettivamente, con l'archiviazione di tutte le pratiche. Di fatto, nessun docente pisano, al termine dell'istruttoria condotta dai diversi organismi di epurazione, fu sanzionato. Di contro, dei venti professori sospesi dall'insegnamento nell'autunno del 1938, solo cinque poterono tornare nominalmente dopo la guerra a occupare la cattedra forzatamente abbandonata e tutti furono costretti o decisero di lasciare l'Università negli anni immediatamente successivi. Così, nel giro di poco più di un decennio la significativa presenza ebraica nell'Ateneo pisano era stata totalmente cancellata.
A conclusione del loro volume, Pelini e Pavan hanno scritto che "se nell'immediato dopoguerra la rimozione si rivelò un funzionale strumento politico e insieme un indispensabile appiglio psicologico, utile, per opposte ragioni, alle vittime quanto ai persecutori, quell'oblio si sarebbe protratto per decenni, frutto dell'intricato sovrapporsi di un desiderio di dimenticare, come di inconsapevolezza, indifferenza, ottusa e pervicace solidarietà e autodifesa corporativa".
E' ormai lontano questo periodo in cui la rimozione poteva avere una finzione di aiuto alla pacificazione.
Oggi è importante da una parte continuare il lavoro di ricostruzione storica, e dall'altra portare avanti azioni concrete per non dimenticare le vittime delle persecuzioni razziali.
"L'Università di Pisa, la Scuola Normale Superiore, la scuola Superiore Sant'Anna, insieme con la Città di Pisa, ricordano alla comunità scientifica e alla cittadinanza tutta la vergogna delle leggi razziali che, nel silenzio di troppi, sottrassero irrimediabilmente ebree ed ebrei agli studi, alla docenza, alla ricerca".
Con queste semplici parole, che ritroverete scritte nella lapide, le istituzioni accademiche pisane vogliono rinnovare oggi l'impegno a tramandare la memoria della persecuzione antiebraica, un impegno che avvertiamo come bisogno essenziale, primario e irrinunciabile.