Dal 16 luglio al 4 novembre 2015 il Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi ospita L'emozione di marmo. I monumenti ai caduti della Grande Guerra a Pisa e nel suo territorio, una mostra che presenta una serie di esempi emblematici e suggestivi dei monumenti ai caduti della Grande Guerra a Pisa e nel suo territorio.
Uno spettacolare percorso tra opere grafiche (disegni e incisioni di alcuni tra i protagonisti dell'arte del '900, come Luigi Bartolini, Mario Chiattone, Lorenzo Viani, Umberto Vittorini, Giuseppe Viviani...), riproduzioni fotografiche, modelli e ricostruzioni virtuali, documenti e testimonianze, che invita il visitatore a riflettere sulle tante storie – di tipologie, committenze, artisti, istituzioni – raccontate dai monumenti, facendo riaffiorare quel valore emozionale su cui la contemporaneità deve tornare a misurarsi.
Promossa dal Museo della Grafica (Comune di Pisa, Università di Pisa) e curata da Alberto Mario Banti, Stefano Renzoni e Alessandro Tosi, L'emozione di marmo. I monumenti ai caduti della Grande Guerra a Pisa e nel suo territorio è realizzata in collaborazione con la Prefettura di Pisa, e con la Soprintendenza alle Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno, la sezione di Pisa dell'Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e dell'Associazione fra Mutilati e Invalidi di Guerra, Gli Amici dei Musei e Monumenti Pisani, Palazzo Blu.
Qui di seguito pubblichiamo la prefazione al catalogo della mostra stampato dalla Pisa University Press a firma dei curatori.
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L'emozione di marmo
Le parole con cui Doris Lessing affronta il tema della memoria personale e collettiva della Grande Guerra, in un magistrale passo della sua autobiografia Under my skin pubblicata nel 1994, emozionano profondamente: «Nel 1990 [...] ero nel Sud della Francia, in quella campagna collinosa che si trova alle spalle della Riviera, e visitavo quelle deliziose cittadine e quei paesetti, nati secoli addietro come roccaforti in collina; e in ogni città o paese c'era un monumento ai caduti in guerra con l'elenco di dodici o venti giovani uccisi nella prima guerra mondiale. E questo in paesi minuscoli che persino oggi contano meno di un centinaio di abitanti. Era normale che tutti i giovani di quei paesi rimanessero uccisi. In ogni città, paese o villaggio d'Europa c'è un monumento ai caduti in guerra con i nomi dei morti della prima guerra mondiale. E su un altro lato della stele o dell'obelisco si trovano i due o tre nomi dei morti nella seconda guerra mondiale. Con il 1918, tutti gli uomini giovani e sani che c'erano in Europa sono morti» (Sotto la pelle. La mia autobiografia. Primo volume. 1919-1949, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 20-21).
Quel preciso riferimento geografico e paesaggistico acquista improvvisamente significati e valori transnazionali, condivisi, universali. Basta attraversare la dolce «campagna collinosa» pisana, così assimilabile a certo paesaggio agrario francese, per ritrovare le stesse tracce del conflitto, addirittura moltiplicate. Persino a Tripalle, piccola frazione di Crespina, è possibile scovare un obelisco di pietra ormai quasi dimenticato, nascosto alla vista, accessibile magari durante una gita in bicicletta, nella sosta per riprendere fiato tra un tornantino e l'altro: e poi trattenere il respiro davanti all'elenco dei ventidue nomi di giovani, sottratti alle fatiche della terra e alle gioie della vita, che «il popolo di Tripalle ricorda e onora».
Come in ogni frazione, paese e città d'Italia e di tanta Europa, scattano subito altri pensieri su «quella mattanza che è stata la prima guerra mondiale» – ancora in sottofondo la scrittura di Doris Lessing – con un elenco di nomi, e di «vite non vissute», di «figli non nati», non più contenibile.
E subito dopo la Guerra non si voleva dimenticare. I reduci, gli invalidi, e tutti coloro che avevano visto uno dei loro «ragazzi» cadere in guerra, dovevano sopportare un dolore immenso. Per questo avevano bisogno di conforto; avevano bisogno di essere rassicurati sul senso della sofferenza e delle morti subite; avevano bisogno di essere persuasi che migliaia e migliaia di giovani non avevano patito invano, non erano morti invano. Ed ecco, allora, sorgere quasi dovunque tutta una costellazione di statue e lapidi che, talora con umana pietas, talaltra con tracotante orgoglio, hanno congelato le emozioni nel marmo, nel bronzo, nella pietra, e hanno cercato una risposta definitiva nel nazional-patriottismo, un sistema ideologico che all'epoca dominava ancora moltissime menti: ed ecco, dunque, che i simboli del sacrificio, del martirio, dell'integrità nazionale, della grandezza e della coesione della comunità patria hanno plasmato le forme dei monumenti ai caduti.
C'è qualcosa di strano, in tutto ciò. Quella stessa ideologia che giustificando l'ingresso in guerra ha aperto ferite terribili, dopo la fine della guerra è servita a lenire i traumi che ha provocato, e a dare un senso a «un'inutile strage». È una spirale concettuale tremenda, dalla quale non moltissimi allora riuscirono a prendere le distanze. È una spirale concettuale che, negli anni seguenti, avrebbe continuato a spargere i suoi veleni attraverso l'ideologia fascista. È una spirale concettuale che ancora oggi ha bisogno di essere decifrata e decostruita, giacché anche le forme della memoria hanno una propria storia, e da noi assai complessa.
Ecco che i monumenti ai caduti a Pisa e nel suo territorio, per densità di esempi e tipologie, forse anche per qualità – rara, ma comunque avvertibile – possono offrire materia estremamente significativa. L'album fotografico che negli anni '30 mappava la provincia e quella «invasione monumentale» che ne avrebbe definitivamente segnato il paesaggio, è documento in tal senso di straordinaria rilevanza storiografica. Partendo proprio da quella prima ricognizione è possibile infatti decifrare e dunque ricomporre una memoria che passa attraverso modelli, autori, linguaggi, trasformazioni, verificata e aggiornata nel paesaggio attuale e con lo sguardo di oggi.
Da una parte, allora, la rappresentazione di una memoria sottomessa a un preciso programma simbolico, ideologico, politico; dall'altra, la sua decostruzione e riproposizione in una contemporaneità che ancora può farne occasione di intense riflessioni.
E a questo dialogo tra due diversi momenti storici e modi della percezione – risolto nelle splendide fotografie di Simona Bellandi e Elda Chericoni, così come nella suggestione del modello tridimensionale del monumento eretto nel cortile della Sapienza agli studenti caduti dell'Università di Pisa realizzato da Marco Callieri – è stato possibile aggiungere preziose e in molti casi inedite opere grafiche, grazie alla ricchezza delle collezioni del Gabinetto Disegni e Stampe dell'Università di Pisa e alla generosa e appassionata disponibilità di collezionisti, che può spiegare molto nella formazione di un immaginario che restituisse senso alla radice etimologica di quei marmi: monumenti, cose da ricordare, appunto.
Con tali materiali, L'emozione di marmo vuole partire da un singolo contesto per invitare a riflessioni più articolate, e da molteplici prospettive di lettura, sulla nostra percezione della memoria e sul valore che può avere nella contemporaneità e potrà avere per le nuove generazioni. Un percorso tra i monumenti di una provincia toscana, in definitiva, può avere lo stesso significato dell'itinerario seguito da Doris Lessing: «Quel viaggio attraverso i villaggi di Francia e d'Inghilterra, attraverso la Scozia, ridestò in me le emozioni cariche di rabbia della mia infanzia, e poi un senso di protesta, un dolore: quello dei miei genitori. Provai anche incredulità, ma quella fu un'emozione successiva: come era potuto succedere?».
Emozioni, dunque, da ricomporre e su cui riflettere. Che vuol dire rinnovata cognizione del dolore, consapevolezza «che da quella guerra non avevamo imparato niente. Ed è proprio questa la peggiore eredità che abbiamo ricevuto dalla prima guerra mondiale: se siamo una razza incapace di imparare, cosa ne sarà di noi?».
Un'emozione di marmo, ma assai più spesso di pietra, di bronzo, di carta, come rilettura delle cose e attraverso queste come riappropriazione della storia e dei suoi documenti visivi, per provare a imparare, per dare un senso al ricordare, al pensare. Anzi, per ricordarci di pensare.
Alberto Mario Banti, Stefano Renzoni, Alessandro Tosi
Nelle foto, dall'alto: la locandina della mostra; Navacchio, Monumento ai Caduti, 1923, Zoraldo Frattini; Castelfranco di Sotto, Monumento ai Caduti, 1927; Calci, Monumento ai Caduti, 1923, Bruno Galeotti.