Venerdì 23 ottobre nella sala "Aldo Moro" di Montecitorio - nell'ambito della VII edizione della "Giornata del Libro Politico a Montecitorio" - é stato presentato il volume Spassionati. Nuovi cittadini nella democrazia che verrà, a cura di Gianna Fregonara.
Il volume, che raccoglie le interviste a dodici notissime personalità del mondo culturale e politico che si sono confrontate in merito al preoccupante livello di disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche, è pubblicato con il logo del Coordinamento University Press Italiane che ha ideato e promosso il progetto, affidandone la realizzazione e la distribuzione alla casa editrice Pisa University Press a cui attualmente é delegata la gestione del Coordinamento.
Al tavolo dei relatori, oltre alla curatrice, erano presenti Luciano Violante e Vittorino Andreoli. Nel corso della cerimonia inaugurale della manifestazione una delegazione del Coordinamento ha incontrato la Presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha espresso vivo apprezzamento per l'attività svolta dalle University Press Italiane e ha apposto una propria dedica ("Alle università che non si arrendono!") su una copia del volume alla cui realizzazione lei stessa ha contributo accettando di essere inserita nel novero degli intervistati.
Nei prossimi giorni saranno disponibili sul sito della Camere le interviste ai relatori presenti. Per maggiori dettagli si può consultare il sito della Camera, all'indirizzo: http://www.camera.it/leg17/537?shadow_mostra=24068
Pubblichiamo di seguito l'Introduzione al volume a firma di Gianna Fregonara.
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Se è vero che per i saggi c'è sempre tempo per trarre una lezione dalla storia, si può anche provare a ricavare qualche insegnamento, o almeno qualche indicazione, dalla cronaca e dagli anni che stiamo vivendo. È questa l'idea all'origine delle dodici interviste di questo libro, dodici colloqui con testimoni significativi del nostro tempo: dialogando con loro sulle istituzioni, così come sono ora e come si stanno adeguando ai cambiamenti causati da fenomeni epocali come la globalizzazione, la caduta delle frontiere e la rivoluzione digitale, si può provare a immaginare come sarà il mondo di domani, che avrà come protagonisti i ragazzi di oggi. Quale sarà la storia che racconteranno?
Il punto di partenza di questa analisi del rapporto tra cittadini e istituzioni è la scarsa passione dei giovani per la vita pubblica, la politica e le istituzioni stesse, che si scopre nel voto, nei sondaggi e in qualsiasi ricerca che li riguardi: secondo un recente sondaggio condotto dall'Ispo, due giovani su tre in Italia non hanno fiducia nelle istituzioni e meno di uno su cinque crede nei partiti, mentre è la Presidenza della Repubblica l'unica istituzione che ha ancora una rispettabilità riconosciuta anche dai giovani.
Così, proprio nel momento in cui si affaccia all'età adulta una generazione complessivamente molto più preparata e istruita di quelle che l'hanno preceduta e in cui le istituzioni, grazie all'innovazione tecnologica, alla globalizzazione e a cambiamenti sociali di portata storica, dovrebbero essere alla portata di tutti, i ragazzi sembrano voler cercare una distanza. Da qui il titolo di questa raccolta di testimonianze: Spassionati. "Spassionati", un aggettivo che connota e, se è possibile, identifica in un unico insieme i ragazzi di oggi. "S-passionati" vuol dire disinteressati, certo. Ma può significare anche "non faziosi" perché "non partigiani". Che sia necessariamente un difetto è tutto da dimostrare. Riuscire a mantenere una distanza, magari volutamente, potrebbe anche rivelarsi un privilegio, addirittura una virtù, in un tempo che invece queste distanze tende ad annullarle: uno spazio mentale più ampio, un maggior senso critico potrebbero diventare oggi, o meglio ancora domani, doti di cui non si potrà fare a meno.
"Spassionati", dunque, non vuol dire soltanto indifferenti. Può assumere addirittura un risvolto molto impegnativo, oltre che positivo: può voler significare – basta consultare il vocabolario della Treccani – addirittura avere un atteggiamento di giustizia ed equità. Ma non è detto che questo sia il cammino con il quale i giovani troveranno altre motivazioni e finiranno per "appassionarsi" di nuovo alle istituzioni e al bene pubblico, inventando un loro modello di partecipazione. Il timore del disinteresse dei giovani non è nuovo.
Sono celebri le parole di allarme di Piero Calamandrei nel discorso che tenne nel 1955 agli studenti nella sede dell'Umanitaria di Milano. Già sessant'anni fa uno dei padri della nostra Costituzione si domandava se i ragazzi non fossero un po' troppo distanti dall'impegno pubblico, un po' "spassionati": "Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l'indifferenza alla politica. L'indifferentismo è un po' una malattia dei giovani. 'La politica è una brutta cosa. Che me n'importa della politica?', quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l'oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l'altro stava sul ponte e si accorgeva che c'era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: 'Ma siamo in pericolo?' E questo dice: 'Se continua questo mare tra mezz'ora il bastimento affonda'. Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: 'Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda'. Quello dice: 'Che me ne importa? Unn'è mica mio!'".
Le cause dell'allontanamento dei giovani dalle istituzioni sono molte e sono state, con risultati alterni, anche molto indagate. Ma per la generazione dei cosiddetti "Millennials", cioè per i ragazzi del Duemila, c'è qualcosa di nuovo e di diverso: non si tratta solo di quell'evoluzione critica ma fisiologica che ha portato a grandi scontri e altrettanto importanti innovazioni negli ultimi cinquant'anni. Si corre per la prima volta il rischio di una cesura più radicale con l'esperienza passata su cui si è fondato il cammino della democrazia nel nostro continente. I ragazzi, lo spiega Giuliano Amato nell'intervista che segue, si trovano a essere cittadini di un'Europa che non hanno costruito loro, che è a loro disposizione ma che nelle sue forme istituzionali non coincide con la realtà vissuta ogni giorno: da Bruxelles e Strasburgo non arriva loro alcun racconto della storia europea, nessun indizio della fatica della costruzione del percorso comune del nostro continente fatto di slanci in avanti e di passi indietro. Non è più questione di contrapposizione tra l'identità nazionale e quella europea, di scontro tra la visione federalista e la visione minimalista che abbiamo ereditato dopo lo shock planetario della Seconda Guerra Mondiale.
È tuttavia difficile dire se i ragazzi di oggi rischiano davvero di essere i "nuovi Barbari", di cui ha parlato Eugenio Scalfari sull'"Espresso", e cioè "una generazione di giovani vigorosi che scelgono nuove forme di linguaggio e lottano per costruire un futuro del tutto diverso dal nostro lascito": "Confesso – scrive Scalfari – che questa visione positiva dei barbari ha trovato fin qui scarso riscontro [...] Una società imbarbarita può avere una visione politica del bene comune? Ne dubito. Una visione del bene comune comporta un'assunzione di responsabilità poco compatibile con l'imbarbarimento. Le società imbarbarite sono piuttosto sedotte dal populismo e dall'antipolitica. Gli interessi particolari soverchiano quelli generali, lo Stato è considerato un nemico, la Costituzione un vincolo inutile, la legalità una parola vuota, una sorta di plastilina che ciascun interesse lobbistico modella a proprio uso e consumo". Barbari, non bamboccioni, non per forza degli incivili, ma persone appartenenti ad un'"altra civiltà", nel senso di un altro modo di pensare che non si sente del tutto erede di quello dei padri o delle generazioni precedenti e che arriva, in qualche caso, a immaginare di poter far senza alcune delle strutture che finora hanno regolato la società occidentale.
Non la pensa così per esempio Beppe Severgnini: lui che da giornalista ha seguito i giovani nell'ultima rivoluzione d'Europa, quella che ormai 25 anni fa ha portato alla caduta del Muro di Berlino, crede che i giovani di allora e quelli di oggi "si somiglino, anche se non lo sanno": "Oggi come allora nessun ventenne pensa di essere uno dei tanti ventenni della storia dell'umanità". Ma nonostante adesso siano sicuramente più rapidi e sintetici, i ragazzi si trovano a navigare senza bussola in acque incerte e agitate, cercando la loro via. La fine del binomio Est/Ovest che per molti di noi era tradotto ideologicamente in buono/cattivo, la sconfitta del comunismo e di tanti "ismi" non hanno portato effettivamente, almeno per ora, a un nuovo ordine.
Se è vero, come pensa il sociologo Domenico De Masi, che il futuro dei giovani, cioè il futuro del lavoro, dipende più dalle stampanti a 3D che non dalle norme del Jobs Act, allora è anche vero chela cesura tra giovani e vecchi non è altro che l'incomunicabilità tra chi ha vissuto nel mondo "analogico" e chi è "nativo digitale": questa separazione non significa soltanto che gli uni sanno usareil computer e muoversi sulla rete e gli altri no. In un mondo "gelatinoso" per dirla con Zygmunt Bauman, in cui il lavoro non creativo diminuisce di anno in anno grazie (o a causa) dell'innovazione, l'economia è guidata molto più dalle invenzioni che dalle regole, per buone e adeguate che esse possano essere. E quello dei giovani è proprio un modo di vivere diverso, che non può che interferire con la dimensione sociale di ognuno di noi, e dunque anche nei rapporti con le istituzioni.
Sicuramente i cambiamenti sociali continui "trascineranno" i giovani a trovare la loro nuova modalità di convivenza (leggere l'intervista dello psichiatra Vittorino Andreoli). Ma, anche senza dover condividere la tesi dell'imprenditore Oscar Farinetti che il sistema è sul punto di "rimbalzare" avendo toccato il fondo, non possiamo non domandarci quale sia lo stato delle istituzioni e la visione della società alla quale i ragazzi di oggi appartengono. Che istituzioni lasciamo alle generazioni che verranno? Siamo a un passaggio epocale in cui si è esaurito il modello di società che si era cristallizzato dopo la Seconda Guerra Mondiale, che aveva giustificato anche tante inefficienze o compromessi in nome della democrazia occidentale e che oggi sono destinati a non resistere a lungo, se non trovano altri fondamenti che ne consolidino il valore. Guardando al nostro Paese, i cambiamenti, a volte non coerenti, che hanno modificato le istituzioni anche radicalmente negli ultimi trent'anni si possono considerare superiori per l'impatto a una riforma organica delle stesse. Non solo è cambiato il modo di funzionare del nostro sistema parlamentare, ma le altre modifiche istituzionali, dall'introduzione di elementi di federalismo fino alla doppia modifica della legge elettorale, hanno ridotto il ruolo dei partiti e addirittura spostato i luoghi di decisione e infine anche modificato la classe politica.
Tutto questo è avvenuto in un clima di emergenza e di delegittimazione reciproca dei partiti – come ci racconta nelle pagine che seguono Luciano Violante –, in uno scontro destra/sinistra che oggi appare anacronistico. E, insieme alla crisi economica più grave dell'ultimo secolo e alla diffusione delle nuove forme di comunicazione digitale, ha portato, in Italia ma anche negli altri Paesi europei, alla nascita di nuovi movimenti di ispirazione più estremista e populista, che tendono tra l'altro a "smontare", senza proporre alternative, quei valori di solidarietà – valori costituzionali che oggi vengono sempre più spesso scambiati per debolezze e "buonismo", come ci ricorda la presidente della Camera Laura Boldrini – e di impegno a condividere la stessa sorte che nel sistema attuale sono risultati fondamentali anche per garantire i diritti, se non proprio a tutti, almeno a tanti.
La filosofa della politica Nadia Urbinati, nelle pagine che seguono, scommette su uno scenario in cui a un certo punto anche le istituzioni, compresi i partiti e l'informazione, dovranno evolversi ma restare come elemento necessario di mediazione – quasi un cuscinetto sociale e ideale – per permettere ai cittadini e dunque alla struttura degli Stati di cambiare senza disintegrarsi o trasformarsi in regimi populisti e autoritari. Nel silenzio degli intellettuali che, secondo quello che racconta il giornalista e scrittore Corrado Augias, per lo più "sono finiti a casa perché risentono dell'atmosfera generale e dopo una stagione in cui ritenevano di intervenire su qualsiasi problema nel vasto mondo, ora si sono rintanati... e vanno in giro a vendere i loro libri", resta da interrogarsi sulla teoria spietata a proposito della fine dell'"homo politicus" elaborata dal francese Christian Salmon nel suo ultimo libro La politica nell'era dello storytelling (Fazi, 2014). Anche senza tirare le estreme conseguenze dell'autore, fa riflettere la sua analisi: dopo la fine della contrapposizione frontale tra due modelli di pensiero, mentre gli Stati perdono di sovranità, la politica come l'abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli "giunge al capolinea" e "i potenti non hanno più le sembianze dei sovrani ma quelle di soggetti di conversazione, di personaggi di serie Tv sui quali proiettiamo i nostri desideri contraddittori", non sono più a capo di istituzioni che fanno leggi e governano ma la "loro autorità è appesa al fragile filo della credenza collettiva", per cui "non viene eletto chi convince delle proprie capacità di agire ma del suo potere illusionistico".
Salmon usa la favola dei Vestiti nuovi dell'imperatore come metafora della politica di oggi, costretta a essere volontaristica e a lanciare perenni e ripetuti segnali di ottimismo senza potersi fermare sulla realtà e sulle difficoltà effettive del momento, rischiando di portare alla lunga auna deriva di promesse irrealizzabili. Ha senso dunque fermarsi e, come dice il ministro della Giustizia del governo Monti Paola Severino, chiedersi se "più che una riforma non sia necessario e utile gettare i semi di una battaglia culturale che parta dall'educazione". O forse, come ci suggerisce Emma Bonino, dovremmo provare a rialzare lo sguardo anche oltre i nostri confini, da dove, per paradosso, arrivano alcune speranze di impegno: proprio da luoghi che oggi consideriamo molto instabili e rischiosi.
Basta leggere il racconto della blogger tunisina Amira Yahyaoui, trent'anni appena compiuti e vincitrice del premio Chirac per la prevenzione dei conflitti, sul lavoro svolto dalla sua Ong al fine di garantire la trasparenza e l'accountability dei parlamentari del suo Paese alle prese con la scrittura della nuova Costituzione e con lo sforzo complesso di proseguire sulla via della democrazia laica e moderna, contrastando giorno per giorno gli estremisti ei fondamentalisti. Perché per le generazioni che verranno il rischio forse non è il re nudo di cui parla Salmon, ma il Pifferaio dei fratelli Grimm: se non troveranno il loro modo di stare dentro le istituzioni, anche per cambiarle, potrebbero finire per non distinguere l'importanza delle battaglie fatte nell'ultimo secolo, di non considerare essenziali diritti che oggi sono scontati e dunque anche a buon mercato, di faticare a distinguere le lungaggini e le inefficienze da quei meccanismi di convivenza democratica che nessuno di noi sarebbe disposto a sacrificare. E proprio cominciando da questa consapevolezza vi invito a cominciare il viaggio nelle pagine degli "Spassionati".
Gianna Fregonara