Si chiamano ipossia e acidificazione i due pericoli che insieme possono minacciare gravemente la salute degli oceani e l’intero clima del nostro pianeta. L’unione di questi due stress ambientali di origine antropica è infatti in grado di minare l’equilibrio dei fondali marini, un ecosistema fragile ma fondamentale per contribuire alla cattura ed al sequestro di CO2 dall’atmosfera. Questo rischio ambientale è stato per la prima volta messo a fuoco da uno studio coordinato dai ricercatori dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista “Global Change Biology”. La ricerca, finanziata in parte dal MIUR tramite il progetto TETRIS, è stata condotta da Chiara Ravaglioli e Fabio Bulleri del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano, in collaborazione con il Plymouth Marine Laboratory, la Southampton University e la Florida State University.
Secondo i ricercatori a minacciare l’equilibrio dei fondali marini sarebbe proprio l’azione congiunta di questi due fenomeni in gran parte dipendenti dalle attività umane. L’acidificazione corrisponde infatti ad un aumento della concentrazione di CO2 nei mari provocato da un incremento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera; l’ipossia è invece un fenomeno che deriva da una diminuzione di ossigeno negli oceani causato da accumulo eccessivo di nutrienti, legato per esempio all’uso dei fertilizzanti in agricoltura.
“Eventi di ipossia, come quello simulato nel nostro studio, si osservano frequentemente lungo le zone marine costiere e la previsione è che si intensifichino ulteriormente a causa dei cambiamenti climatici – spiega la dottoressa Chiara Ravaglioli prima autrice dell’articolo - Valutarne gli effetti legati all’azione simultanea dell’acidificazione è quindi fondamentale per capire come gli ecosistemi marini risponderanno a queste condizioni in un possibile scenario futuro”.
Per condurre la sperimentazione, i ricercatori hanno utilizzato dei “mesocosmi” di ultima generazione, cioè dei laboratori in cui vengono simulate le condizioni degli ecosistemi marini. Durante i test, gli scienziati hanno marcato le alghe con carbonio-13 per seguire il flusso di carbonio, dalla sua assunzione da parte degli invertebrati marini sino al successivo accumulo nel sedimento.
“I risultati della nostra ricerca forniscono indicazioni importanti per la gestione dei sistemi marini – sottolinea Fabio Bulleri - ad esempio, la riduzione di uno stress che agisce su scala locale o regionale, come ad esempio un apporto eccessivo di nutrienti, può mitigare gli impatti del cambiamento climatico come l’acidificazione sui sedimenti marini”.
Lo studio degli habitat marini è un filone di ricerca consolidato nell’Ateneo pisano. Protagonista di questa ricerca è Chiara Ravaglioli, 31 anni di Sinalunga (Siena), attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, unità di Biologia Marina ed Ecologia. I suoi principali interessi di ricerca riguardano lo studio degli effetti dei cambiamenti climatici globali e delle attività umane sulle comunità marine costiere.
Insieme a lei ha coordinato lo studio Fabio Bulleri, 49 anni di Livorno, professore associato del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa dove tiene i corsi di Ecologia ed Impatto dei Cambiamenti Climatici in Ambienti Marini. La sua attività di ricerca che conta all’attivo circa 90 articoli su riviste scientifiche indicizzate è incentrata sugli ambienti marini costieri, utilizzati come sistemi modello per affrontare tematiche di ecologia di base.
Didascalia:
Da destra Chiara Ravaglioli dell’Università di Pisa e Ana Queiros del Plymouth Marine laboratory, durante lo svolgimento dell’esperimento
Descrizione della figura:
La vasca di mesocosmi (1m3), riempita di acqua di mare, in cui sono stati collocati i cilindri trasparenti contenenti il sedimento con la comunità di invertebrati marini. All’interno di ciascun cilindro sono state manipolate le diverse condizioni sperimentali (alcuni erano mantenuti in condizioni naturali, altri sottoposti ad un aumento di CO2 o una diminuzione di O2 o la combinazione dei due stress). La CO2 è stata iniettata all’interno di ciascun cilindro grazie all’utilizzo dei piccoli tubi di plastica che si vedono in foto. La concentrazione di O2 è stata manipolata sigillando con silicone tutte le aperture del cilindro per circa 48 h.