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Selena Ghio, dottoranda al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, ha vinto una borsa di studio di 10mila euro intitolata ad Amelia Earhart, l’aviatrice statunitense che negli anni Trenta del Novecento stabilì numerosi record di volo, diventando un simbolo dell’emancipazione femminile.

Il premio è conferito da Zonta International, un’organizzazione impegnata a migliorare le condizioni delle donne nel mondo, che ogni anno bandisce 30 borse di studio da assegnare a studentesse iscritte ai corsi di dottorato in ingegneria o scienze aerospaziali, per favorire i loro studi in ambiti più tradizionalmente maschili.

 

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Da sinistra, Fernanda Gallo Freschi, Governor del Distretto 28 (Italia, Germania, Svizzera tedesca, Liechtenstein, Repubblica Ceca, Turchia) di Zonta International, Selenia Ghio, Nicoletta De Francesco, Prorettrice Vicaria dell’Università di Pisa, Laura Santagada, Vice Area Director del Distretto 28 di Zonta International, Daniela Pedrini, Presidente Zonta e-Club Italy, AE Fellow, Maria Vittoria Salvetti, Professoressa del Dipartimento di Ingegneria Industriale, e Civile dell’Università di Pisa, vice-presidente della Scuola di Ingegneria


Selenia Ghio, 27 anni originaria di Marina di Carrara, è una delle tre vincitrici italiane di quest’anno e si è aggiudicata il premio con un progetto di ricerca che riguarda il monitoraggio attraverso sensori radar della cosiddetta “spazzatura spaziale”, cioè degli oggetti spaziali residui di lanci o collisioni che orbitano intorno alla Terra.

“La quantità di oggetti spaziali in orbita intorno alla Terra – spiega Selenia Ghio - originati a seguito del lancio di satelliti, collisioni o esplosioni è aumentata più rapidamente del previsto nel corso degli anni. Questa crescita rappresenta un grave pericolo per i veicoli spaziali operativi e le attività umane nello spazio. Al fine di garantire la sicurezza delle attività spaziali, è necessario ottenere più informazioni possibili su questi oggetti le cui caratteristiche non sono note a priori”.

La dottoranda dell’Università di Pisa va così ad aggiungersi alle oltre 1,144 donne nel mondo che, dal 1938 ad oggi, hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento per meriti accademici e comprovata capacità di studio.

 

bincheri volume cover"La situazione italiana a un quarto di secolo dalla Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino. Il gap di genere tra ostacoli nel mondo del lavoro e stereotipi culturali" (Ets, 2018) è il titolo del nuovo libro curato da Rita Biancheri docente del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, e da Giovanna Spatari, docente di Medicina del Lavoro dell’Università di Messina.

Pubblichiamo di seguito un estratto dal volume a firma di Rita Biancheri.

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Il tema delle pari opportunità e dell’equità di genere si ripresenta periodicamente all’attenzione della stampa in seguito alla ripresa di un dibattito, spesso mal posto e sensazionalistico, sulle difficoltà di fare carriera e sugli stereotipi che perdurano nelle radici sessiste della nostra cultura. Gli argomenti che da più parti vengono sollevati sembrano non tener conto dei numerosi studi, progetti europei e conoscenze che su questo tema hanno alimentato un confronto euristico significativo, evidenziando con chiarezza quali sono gli ostacoli e le barriere che nell’accademia e nei luoghi di lavoro discriminano le donne, escludendole dai ruoli apicali e rendendo la loro presenza debole nella sfera pubblica. Una rivoluzione incompiuta, sostiene Esping-Anderesen, una democratizzazione della nostra società che si ferma sulla soglia della sfera privata, dove gli eventi di cronaca quotidiani ci pongono di fronte a drammi esistenziali e a difficoltà che rendono non effettivo il principio della sostanzialità dei diritti per tutte le donne.

Ripercorrere le tematiche, che hanno caratterizzato l’ampia articolazione degli interventi e delle proposte politiche, della Conferenza mondiale delle donne di Pechino del 1995 ha un duplice scopo: da una parte far emergere, a più di vent’anni dall’incontro, la lentezza e vischiosità dei cambiamenti per una scarsa volontà di perseguirne gli obiettivi, dall’altra sostenere la ricerca individuando nuovi contributi per andare avanti, senza scoraggiarsi e con determinazione, per realizzare una società più giusta in grado di promuovere le capacità femminili, mettendo al centro il valore della differenza.

Il volume si propone non solo di mantenere viva l’attenzione su temi cruciali che riguardano tutti/e, dalla sfera familiare all’ambito occupazionale ed educativo, ma anche di fare chiarezza in uno scenario che sembra dimenticare troppo spesso gli esiti di importanti ricerche, come se in quest’ambito studiose e studiosi non abbiano pubblicato libri, disseminato risultati, tenuto convegni trasversalmente in tutte le discipline. Proprio per questo il rischio è quello di ripartite sempre da capo e ritrovarsi a sostenerne l’importanza, fiaccando però le energie più vitali proprio per l’insostenibile leggerezza che non raramente accompagna le argomentazioni e i luoghi comuni, ma soprattutto non permettendo agli studi di genere di essere inseriti a pieno titolo nella formazione universitaria e, quindi, non consentendo un’adeguata diffusione delle ra-dici storiche, sociali e di potere che invece dovrebbero essere i nodi da sciogliere e su cui concentrare le “azioni positive”.

Occorre, dunque, modificare l’organizzazione tuttora improntata unilateralmente sul neutro maschile, per contrastare quel fenomeno di “endogamia sociale” per cui si premiano le affinità. In altri termini, altrimenti si continua a rinforzare quel fenomeno, chiamato effetto Matilda, opposto all’effetto San Matteo, che produce per gli uomini un circuito cumulativo, premiando esponenzialmente coloro che già si trovano in un contesto privilegiato. La posizione europea è chiara occorre avviare un approccio comprensivo e sostenibile per trasformare strutturalmente le istituzioni, capitalizzare e valorizzare i talenti aumentando la presenza delle donne in tutti i settori.

Il progetto europeo TRIGGER (Transforming Institutions by Gendering contents and Gaining Equality in Research) della nostra Università - e presentato in questo libro - ha dato pienamente conto dei diversi elementi che formano il soffitto di cristallo: dai percorsi di socializzazione e familiari alle dinamiche segregative e valutative. Di conseguenza le ricette sono note, è necessario sostenerle con convinzione se c’è l’intenzione di rendere operative molte delle misure di contrasto diagnosticate anche in questo lavoro.


Rita Biancheri

 

Coro unipi a Perugia Il Coro dell’Università di Pisa (foto a destra) ha partecipato al II Simposio Internazionale e VI Convegno Nazionale “I Cori e le Orchestre Universitarie” che si è svolto a Perugia dall’8 al 10 novembre e che ha visto protagonisti quindici differenti cori provenienti da varie regioni italiane e da due paesi stranieri.

Il Coro dell’Università di Pisa, diretto dal maestro Stefano Barandoni, si è esibito la prima sera nella Basilica di San Pietro eseguendo una selezione di brani di Mendelssohn. A conclusione del Simposio, e insieme ad altri cori, ha poi cantato il Requiem di Verdi nella Cattedrale di San Lorenzo.

Oltre alle performance corali, l’Università di Pisa è stata coinvolta attivamente nelle sessioni del convegno che si sono svolte nell’aula magna dell’Università di Perugia. In particolare sono intervenuti la professoressa Maria Antonella Galanti, coordinatrice del Centro d’Ateneo per la diffusione della cultura e della pratica musicale, con una relazione su “Università e valore formativo dell’esperienza musicale” e il dottor Manfred Giampietro, direttore dell’Orchestra universitaria, che ha parlato su “La pratica orchestrale all’Università: un equilibrio dinamico tra inclusività e qualità formativa”.

“La trasferta – racconta Maria Antonella Galanti – è stata un’importante occasione di scambio interculturale e d’apprendimento di tecniche vocali e stili differenti, specie durante i workshop pomeridiani tenuti da Albert Hera, Greta Panettieri, Enrico Zuddas. Sulle note del Gaudeamus Igitur, inno degli studenti europei, siamo quindi rientrati a Pisa portando con noi splendidi ricordi di questa esperienza”.

L’effetto antitumorale in vivo della doxiciclina, un antibiotico appartenente alla classe delle tetracicline e comunemente impiegato nel trattamento dell’acne volgare, è stato recentemente pubblicato sulla rivista internazionale "Frontiers in Oncology", aprendo la strada al possibile utilizzo degli antibiotici nel trattamento del tumore della mammella. Gli antibiotici infatti, oltre a uccidere i batteri, hanno un effetto distruttivo anche sui mitocondri, le “centrali elettriche” delle cellule, di cui sono molto ricche le cellule staminali neoplastiche, responsabili dell’origine del tumore e delle recidive locali, della resistenza alle terapie e delle temute metastasi a distanza.

Lo studio è stato condotto dal gruppo di ricerca del professor Antonio Giuseppe Naccarato (nella foto in alto), del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia dell’Università di Pisa, direttore della Sezione dipartimentale di Anatomia patologica 1 dell’Aoup, con il dottor Cristian Scatena (nella foto in basso), anatomopatologo e allievo della Scuola di dottorato in Scienze cliniche e traslazionali dell’Ateneo pisano, unitamente a ricercatori dell’University of Salford di Manchester, in Gran Bretagna, e in collaborazione con il Centro Senologico dell’Aoup e la Fondazione pisana per la scienza onlus.

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La ricerca clinica è stata condotta su 15 donne affette da carcinoma della mammella in stadio precoce e ha evidenziato, dopo solo 14 giorni di trattamento antibiotico, una riduzione significativa (in media di circa il 40%) del numero delle cellule staminali neoplastiche. I ricercatori dell’University of Salford, coordinati dal professor Michael P. Lisanti, studiavano da tempo questo effetto in modelli tumorali ‘in vitro’ riconoscendo come l’antibiotico doxiciclina fosse capace di eradicare le cellule staminali neoplastiche in otto diversi tipi di tumore, compreso il carcinoma della mammella.
Tali studi in vitro hanno posto le basi per la realizzazione del primo trial clinico sull’utilizzo della doxiciclina in pazienti affette da carcinoma della mammella in stadio precoce e candidate perciò a trattamento chirurgico. Il trial è stato condotto nel Centro Senologico dell’Aoup diretto dalla professoressa Manuela Roncella. Nel dettaglio, la doxiciclina è stata somministrata in 9 pazienti (braccio sperimentale), mentre ulteriori 6 pazienti sono state inserite come braccio di controllo; le prime hanno assunto l’antibiotico per i 14 giorni antecedenti l’intervento chirurgico, a una dose giornaliera standard di 200 mg; le altre, invece, sono state sottoposte direttamente a terapia chirurgica.

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Numerosi marcatori biologici (di staminalità, di massa mitocondriale, di proliferazione cellulare etc…) sono stati indagati in entrambi i bracci del trial clinico, confrontando i loro valori prima e dopo la terapia antibiotica, rispettivamente tra il tessuto tumorale della ago-biopsia preoperatoria e quello del pezzo chirurgico asportato. Ebbene, i tumori delle pazienti del braccio sperimentale, dopo trattamento con doxiciclina, dimostravano una diminuzione significativa nel marcatore di staminalità, compresa tra il 17.65 e il 66,67%. Dati simili sono stati osservati anche con un secondo biomarcatore di staminalità.

I risultati ottenuti da questo studio pilota suggeriscono che le cellule tumorali neoplastiche esprimono selettivamente grandi quantità di proteine correlate al metabolismo mitocondriale. Ciò significa che, se è possibile inibire il metabolismo mitocondriale, è dunque possibile eradicare le cellule staminali neoplastiche. L’arruolamento di nuovi pazienti potrà permettere di confermare nei prossimi mesi questi primi risultati molto promettenti.

Di seguito il link all'articolo: https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fonc.2018.00452/full

Al fisico Guido Emilio Tonelli,  professore di Fisica sperimentale dell'Università di Pisa, è stato assegnato il “Campano d’Oro”, quest’anno alla 48a edizione. La consegna del prestigioso riconoscimento avverrà venerdì 23 novembre, alle 17,30 nel Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi in Lungarno Galilei.

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È dal 1971 che l’Alap (Associazione laureati ateneo pisano) assegna, in stretta collaborazione con l’Ateneo, il "Campano d’Oro" a illustri personalità che si siano laureate a Pisa. Nell’ormai lunga serie di premiati figurano figure della cultura, della scienza, dello spettacolo, dell’economia. Fra coloro che sono stati premiati nelle edizioni passate ci sono Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Rubbia, Giuliano Amato, Andrea Bocelli, Paolo Dario e Franco Mosca. Lo scorso anno il Campano d’Oro fu assegnato al Capo della Polizia di Stato, Franco Gabrielli.

Il premiato di quest’anno è dunque il professor Guido Emilio Tonelli, personalità di grande spicco nel mondo della scienza. Nato in Lunigiana, laureato a Pisa nel 1975, il professor Tonelli è ordinario di fisica sperimentale nell'Ateneo pisano. Fra i suoi maggiori meriti è quello di aver partecipato e di essere stato portavoce dell'esperimento CMS al CERN di Ginevra, che ha portato alla scoperta del bosone di Higgs. Nominato commendatore per meriti scientifici dal Presidente della Repubblica nel 2012, il professor Tonelli ha ricevuto attestati in tutto il mondo fra i quali l’ambito premio “Enrico Fermi” della Società Italiana di Fisica.
Al professor Tonelli sarà consegnata una medaglia d’oro che raffigura la torre medievale, chiamata “Torre del Campano”, che si trovava in prossimità della Sapienza. La sua campana, già dal Medioevo, scandiva l'inizio e la fine delle lezioni universitarie.

Nella cerimonia del 23 novembre, dopo i saluti della prorettrice vicaria Nicoletta De Francesco e del sindaco Michele Conti, il professor Arnaldo Stefanini leggerà la ‘laudatio’ mentre il presidente dell’Alap, Paolo Ghezzi, darà lettura della motivazione del conferimento dle premio. Dopo la consegna del "Campano d’Oro" è previsto un intervento del premiato. Un omaggio musicale concluderà, come da tradizione, la cerimonia.

Si è tenuto venerdì 16 novembre nell'Auditorium di Piazza Bonaparte a San Miniato l'incontro dal titolo "I sommersi, i salvati, i salvatori. Ritratti, racconti e pensieri sulle leggi razziali". L'appuntamento, seguito da circa 300 partecipanti, in gran parte studenti e insegnanti delle ultime classi delle scuole superiori di San Miniato, è stato organizzato nell'ambito della rassegna "San Rossore 1938", promossa dall'Università di Pisa e sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato.

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La mattinata si è aperta con il saluto del presidente della Fondazione CRSM, Gianfranco Rossi, cui è seguita la proiezione di "Phoebe Miranda", un breve film di Massimo Martella che raccoglie la testimonianza di una donna toscana, allora ragazzina, sopravvissuta alle persecuzioni razziali e vittima delle leggi firmate nel 1938. Sono quindi intervenuti il professor Fabrizio Franceschini, docente di Linguistica italiana dell'Università di Pisa e direttore del Centro interdipartimentale di studi ebraici "Michele Luzzati", e il giornalista e scrittore Alfredo De Girolamo.

Nel suo intervento il professor Franceschini ha raccontato un episodio inedito avvenuto nel luglio 1947 sulla spiaggia di Migliarino e rimasto a lungo segreto. Nel quadro dell'operazione "Alyah Bet" coordinata da Ada Sereni, circa ottocento ebrei, scampati ai campi di sterminio, giunsero clandestinamente da Milano e dal Lazio a Migliarino a bordo di trentasette corriere. Facendosi passare per stravaganti turisti americani, furono infine traghettati sulla nave Raffaelluccia e partirono verso Israele.
"Gli ottocento ebrei - ha ricordato il professor Franceschini - si diressero verso la tenuta Salviati di Migliarino: i guardacaccia, che ne custodivano l'ingresso, furono rabboniti a forza di sorrisi femminili, cioccolata e sigarette americane, e i profughi furono fatti passare appunto per stravaganti turisti americani, desiderosi di vedere dalla spiaggia l'aurora sui monti vicini. Dopo aver attraversato la tenuta, giunsero al mare e furono caricati sulla nave".

"La tenuta di Migliarino – ha concluso il direttore del Centro interdipartimentale di studi ebraici dell'Ateneo pisano – è a qualche chilometro di distanza dall'allora tenuta reale di San Rossore. Questa storia bella e segreta riscatta dunque, in qualche modo, il territorio macchiato da Vittorio Emanuele III con la firma della prima legge razziale, il 5 settembre 1938, appunto a San Rossore".

 

Ha festeggiato venti anni di attività il Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace (Cisp) dell'Università di Pisa, che studia e promuove le condizioni per trasformare pacificamente i conflitti, ridurre le violenze e costruire una pace sostenibile. Lo ha fatto con un incontro tenuto, venerdì 16 novembre, nell'Auditorium del Centro "Le Benedettine". Dopo i saluti del rettore Paolo Mancarella, sono intervenuti la direttrice del Cisp, Enza Pellecchia, e i professori Giorgio Gallo, Fabio Tarini e Pierluigi Consorti, che hanno diretto il Centro negli scorsi anni. Nel corso della mattinata sono anche intervenuti gli ex rettori Luciano ModicaMarco Pasquali e la prorettrice vicaria Nicoletta De Francesco per portare la loro testimonianza dei rapporti con il Centro, la presidente dei corsi di laurea in Scienze per la pace, Eleonora Sirsi, e i professori Simone D’AlessandroAlessandro Breccia. L'incontro si è chiuso con le testimonianze di tante e tanti che nel corso di questi anni hanno collaborato a vario titolo con il Centro, contribuendo a renderlo un apprezzato protagonista degli studi per la pace.

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Pubblichiamo di seguito una riflessione della professoressa Enza Pellecchia, direttrice del Cisp, sulla storia e sulla mission del Centro.

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Il Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace (CISP)

A metà degli anni '90, alcuni docenti dell'Università di Pisa provenienti da discipline diverse e da diverse esperienze iniziavano a progettare l'istituzione di un centro di ricerca focalizzato sui temi della pace.
Le idee riguardo ai modi in cui poter sviluppare l'iniziativa nel mondo accademico erano ancora confuse, ma un elemento era già ben chiaro: la consapevolezza che il mondo accademico non poteva continuare a serbare indifferenza verso i problemi della pace e della guerra.
La motivazione nasceva anche da una lettura di ciò che stava accadendo a livello internazionale.
Con la fine della guerra fredda, si era diffusa l'aspettativa dei cosiddetti "dividendi della pace", ovvero l'idea che molte delle enormi risorse fino ad allora usate per apparati militari avrebbero potuto finalmente essere utilizzate per affrontare i grandi problemi che l'umanità aveva davanti, il problema della fame e della salute nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, le crescenti disuguaglianze economiche, i sempre più urgenti problemi ambientali. Dopo soli pochi anni appariva invece chiaro che le spese militari non erano state significativamente ridotte, che la povertà era ancora la norma per la maggioranza della popolazione mondiale, che le disuguaglianze erano in crescita anche nei paesi ricchi, che nuove guerre producevano in misura crescente sofferenze fra la popolazione civile, morti ed esodi forzati, ed inoltre che l'interventismo militare degli stati occidentali stava crescendo.
In questo scenario diventava sempre più evidente il ruolo di primo piano giocato dalla tecnologia e dalle scienze (tutte, da quelle della natura a quelle umane).
Tuttavia l'idea vecchia, ma persistente, della neutralità della scienza costituiva un ottimo alibi per non porsi domande né sul senso e la finalità delle ricerche né sull'origine dei finanziamenti alla ricerca.
Da qui l'idea che fosse necessario inserire il discorso sulla pace non tanto genericamente all'interno dell'università con qualche iniziativa circoscritta, ma su un più preciso duplice piano: in generale, nel contesto della vocazione primaria dell’Accademia; specificatamente, all'interno di tutte le discipline in essa coltivate.
Da qui anche la scelta del nome del nuovo Centro, nato nel 1998 con la missione di studiare e promuovere le condizioni per trasformare pacificamente i conflitti, ridurre le violenze e costruire una pace sostenibile.
Si sarebbe potuto fare riferimento agli "Studi sulla Pace" oppure alle "Scienze della Pace"; è stato invece scelto il meno immediato "Scienze per la Pace", per esprimere la consapevolezza del fatto che la Pace non potesse essere l'oggetto di una nuova disciplina che si collocasse a fianco delle altre. Rinchiudere il discorso sulla pace all'interno degli stretti confini di una disciplina accademica rischia infatti di sterilizzarlo, di ridurne la capacità di incidere e di cambiare la realtà.

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Una cultura di pace

E’ tuttavia essenziale chiarire il senso della parola "pace", anche attraverso il suo opposto, individuato nella violenza, piuttosto che nella guerra. Uno studio critico della violenza è fondamentale all'interno di un discorso scientifico sulla pace.
Questo discorso è molto ampio, perché involge la violenza diretta (violenza fisica, palese, ma anche forme più sottili di violenza, come l'isolamento, l'emarginazione, il non riconoscimento dell'altro a causa della sua diversità etnica, religiosa, sessuale, ...) e la violenza strutturale (condizioni di oppressione e discriminazione che – anche in tempo di pace apparente - sono insite nelle strutture sociali, economiche, politiche e culturali).
Siamo convinti che per costruire la pace sia necessario studiare i conflitti. La visione del CISP è quella di operare sui conflitti in chiave nonviolenta, trasformandoli in opportunità per costruire legami sociali pacifici, cooperativi e duraturi, evitando sempre il ricorso alla violenza, che può facilmente degenerare in guerra.
In sintonia con questa idea di pace che si oppone alla violenza, potremmo definire cultura di pace una cultura della convivialità e della condivisione, fondata sui principi di libertà, giustizia e democrazia, di tolleranza e solidarietà. Una cultura che rifiuta la violenza, cerca di prevenire i conflitti all'origine e di risolvere i problemi attraverso il dialogo ed il negoziato. Infine, una cultura che assicura a tutti il pieno godimento di tutti i diritti e dei mezzi per partecipare pienamente allo sviluppo endogeno della società.
In questa accezione, la latitudine dell'idea di pace è evidentemente molto ampia e coinvolge la società nel suo complesso, a livello locale ed a livello internazionale. Disuguaglianze, sviluppo e sottosviluppo, povertà, sostenibilità, convivenza fra culture e religioni diverse, sono tutti aspetti essenziali di un discorso sulla pace.

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Le Scienze per la Pace

Nel progetto del Cisp, l'inserimento del discorso sulla pace all'interno del mondo universitario si muove lungo due direzioni distinte ma complementari.
La prima direzione va dalle discipline verso la pace. In che modo le nostre conoscenze, le nostre competenze scientifiche possono contribuire ad una diffusione della cultura della pace, ed a realizzare le condizioni perché la pace possa essere la condizione normale della società umana?
La seconda direzione segue invece il percorso contrario, dalla pace verso le diverse discipline: la pace come una lente, una nuova prospettiva attraverso cui guardare il modo con cui facciamo ricerca, i paradigmi che usiamo, per poterli mettere in discussione.
Quanto detto ha una immediata conseguenza, la interdisciplinarità, o, come qualcuno preferisce chiamarla, la transdisciplinarità. Le diverse discipline non possono né contribuire alla pace né farsi da essa mettere in discussione da sole. Sono necessari il dialogo e un continuo scambio. La pace diventa allora il punto di snodo in cui le discipline si incontrano, si confrontano, riconoscono il ruolo e l'importanza delle reciproche prospettive e collaborano, in certi casi arrivando a vere e proprie contaminazioni interdisciplinari, in una sorta di affascinante “meticciato” scientifico.

Enza Pellecchia
Direttrice del CISP

Nella foto in alto: da sinistra, Enza Pellecchia, Pierluigi Consorti, Giorgio Gallo e Fabio Tarini.
Nella foto al centro: Paolo Mancarella e Enza Pellecchia.
Nella foto in basso: da sinistra, Nicoletta De Francesco, Luciano Modica e Marco Pasquali.

Il 17 novembre del 1494 moriva a Firenze, in circostanze misteriose e a soli 32 anni, il grande umanista e filosofo Pico della Mirandola, famoso non ultimo per la proverbiale memoria. A più di 500 anni di distanza, lo studio dei suoi resti conservati in un chiostro vicino alla basilica fiorentina di San Marco ha rivelato che il decesso fu provocato non da sifilide ma da un avvelenamento da arsenico.

La ricerca, pubblicata sul Journal of Forensic and Legal Medicine, è stata condotta da un team di ricercatori delle università di Pisa, Bologna, del Salento, di Valencia (Spagna), di York (Gran Bretagna), dal Max Planck Institute (Germania) nonché dagli esperti del RIS di Parma.

“Gli esami eseguiti hanno dimostrato che nei resti di Pico erano presenti segni riconducibili ad intossicazione da arsenico e che i livelli del veleno erano potenzialmente letali, compatibili con la morte per avvelenamento acuto del filosofo – ha spiegato Fulvio Bartoli del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano - Ovviamente, che si sia trattato di avvelenamento intenzionale è difficile da dimostrare anche se questa ipotesi è sostenuta da varie fonti documentarie e storiche”.

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L’immagine al microscopio elettronico a scansione indica la presenza di una banda di leuconichia su un’unghia del piede sinistro di Pico della Mirandola riconducibile ad una esposizione tossica all'arsenico.

La sepoltura di Pico della Mirandola - fra cui ossa, unghie, tessuti molli mummificati, vestiti, legno della cassa - è stata sottoposta ad una serie di analisi di carattere biologico e chimico-fisico sia per confermare l’identificazione dei resti sia per rilevare la presenza delle tracce di arsenico. In particolare, i ricercatori hanno utilizzato un approccio multidisciplinare mettendo insieme analisi antropologiche e documentali, datazione al radiocarbonio e ad analisi del DNA antico accanto a sofisticate tecniche di microscopia ottica ed elettronica.

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Fulvio Bartoli


“La nostra indagine – conclude Fulvio Bartoli – ha riguardato anche le spoglie di un altro grande umanista, Angelo Poliziano, anche lui scomparso prematuramente nel 1494 e inumato in una tomba vicina a quella di Pico. In questo caso però non risulta confermata l’ipotesi dell’avvelenamento dato che i livelli di arsenico che abbiamo trovato sono piuttosto attribuibili ad una esposizione cronica al veleno, causata probabilmente da fattori ambientali o da trattamenti medici”.



Dal mondo vegetale può arrivare un valido aiuto per ridurre la concentrazione di inquinanti organici e composti farmaceutici negli impianti di trattamento delle acque reflue, come conferma lo studio – appena pubblicato sulla rivista internazionale “Environmental Science and Pollution Research” da ricercatori del dipartimento di Biologia dell'Università di Pisa e dell'Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant'Anna - che ha dimostrato l'efficacia di salici e cannucce di palude per diminuire la presenza di queste sostanze. Nuove classi di inquinanti organici e numerosi composti farmaceutici sono presenti in maniera costante, seppure a bassissime concentrazioni, negli impianti per il trattamento delle acque reflue. I metodi di depurazione convenzionali non risultano in grado di rimuovere in maniera efficiente tutte le classi di questi nuovi microinquinanti. Essi, infatti, possono persistere nell'acqua anche dopo aver concluso il ciclo di depurazione. Questo problema si presenta su scala globale e genera una crescente attenzione e una viva preoccupazione per i possibili effetti negativi sull'ambiente e sulla salute pubblica.

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Grazie ai risultati dello studio, i ricercatori pisani hanno adesso dimostrato come sia possibile eliminare con successo i microinquinanti dalle acque, utilizzando piante di salice e di cannuccia di palude. In particolare, lo studio ha valutato l'efficacia di specie erbacee (Phragmites australis L.) e arboree (Salix matsudana Koidz.) nel rimuovere composti organici utilizzandoli in sistemi di fitodepurazione, collegati al ciclo tradizionale di depurazione delle acque reflue.

acque2“La rimozione dei composti si è focalizzata sui farmaceutici come il diclofenac, il ketoprofene, e l'atenololo e su altri inquinanti come i nonilfenoli e il triclosano. Queste sostanze sono presenti come principio attivo in farmaci antidolorifici e antiinfiammatori e in tensioattivi assai diffusi”, afferma Lorenzo Mariotti, attualmente ricercatore junior al dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell'Università di Pisa.
“Per quanto riguarda la capacità di queste macrofite, ovvero piante di grandi dimensioni, di bioaccumulare, cioè accumulare all'interno del loro organismo, e degradare tali prodotti, la ricerca ha dimostrato che sia P. australis che S. matsudana meglio conosciute come salici e cannucce, sono in grado di farlo e anche in modo efficiente”, sottolineano Simona Di Gregorio e Andrea Andreucci del dipartimento di Biologia dell'Università di Pisa.
“La complessità del refluo nella sua composizione in microinquinanti suggerisce che la consociazione di specie vegetali diverse permetta una migliore fitodepurazione delle acque reflue”, commentano Luca Sebastiani e Alessandra Francini, rispettivamente direttore e ricercatrice dell'Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant'Anna.

Dello studio sono co-autori Alessandra Francini, Lorenzo Mariotti, Simona Di Gregorio, Luca Sebastiani e Andrea Andreucci.
La pubblicazione è disponibile su https://doi.org/10.1007/s11356-018-3582-x

Il tempo e la storia, tra innovazioni e persistenze, tra progressi e crisi, e la percezione del cambiamento nell'area dell'Europa mediterranea sono i temi generali intorno ai quali il dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell'Università di Pisa ha costruito il suo "progetto di eccellenza". Il dipartimento è stato infatti una delle 180 migliori strutture selezionate in tutta Italia dal ministero, ottenendo un finanziamento di oltre 8 milioni di euro per il quinquennio 2018–2022.

Martedì 13 novembre la Gipsoteca di Arte Antica ha ospitato una giornata di presentazione alla comunità universitaria e alla città intera del progetto di eccellenza, che ha come titolo: "I tempi delle strutture. Resilienze, accelerazioni e percezioni del cambiamento nello spazio euro-mediterraneo". Dopo i saluti del rettore Paolo Mancarella, dell'assessore comunale con delega alle Politiche integrate con le università, Paolo Pesciatini, e del direttore del dipartimento, Pierluigi Barrotta, sono intervenuti i referenti delle quattro linee di ricerca del progetto: Marilina Betrò per l'area antica, Giuseppe Petralia per l'area medioevale, Cinzia Maria Sicca per l'area moderna e Alberto Mario Banti per l'area contemporanea. Erano inoltre presenti i professori Simone Collavini, vice direttore del dipartimento, e Federico Cantini, responsabile della Commissione comunicazione dello stesso dipartimento.
In Gipsoteca sono stati anche esposti, e lo saranno fino al 17, alcuni poster che illustrano le varie attività collegate al progetto.

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All'interno delle quattro linee di ricerca gli studiosi del dipartimento esamineranno specifici momenti e processi caratterizzati dalla compresenza dei due aspetti, della resilienza e dell'accelerazione, colti nelle diverse forme della loro relazione.

  • L'area antica vuole indagare le dinamiche di espansione e i processi di crescita negli Early States e negli imperi del mondo antico, differenziando geograficamente e cronologicamente. Nel concreto la ricerca si rivolgerà all'identificazione dei fenomeni di crescita facendo uso di "misuratori", alla cui definizione è imprescindibile il contributo dell'indagine archeologica.
  • L'area medioevale mira a ripensare la nozione di Rivoluzione feudale, indagando l'individuazione di un fattore decisivo nel riconfigurare il sistema delle strutture delle società medievali dopo l'anno Mille. L'asincronia delle trasformazioni, le diverse opzioni fra rapide e accelerate innovazioni ed evoluzioni graduali, la percezione variabile dei contemporanei del carattere rivoluzionario dei cambiamenti fanno del tema un buon caso di studio delle tematiche generali: il cambiamento storico tra resilienze e accelerazioni; la percezione del mutamento e il suo influsso sui processi storici.
  • La terza linea ha l'obiettivo generale di restituire la complessità dei processi di cambiamento in età moderna, utilizzando i due strumenti costituiti dalla polarità accelerazione/resilienza e dalla dimensione della percezione del cambiamento. Essere moderni significa già essere consapevoli della diversità storica di un'epoca che, entro certi limiti, si contrappone al passato e ciò comporta un mutamento nel rapporto tra tempo storico e tradizione, una trasformazione nella direzione dello sguardo verso il futuro. Per studiare questa trasformazione di concetti e paradigmi ci si propone di elaborare un "Lessico europeo del cambiamento", dedicato alle idee chiave che definiscono in età moderna il rapporto con il tempo e la storia.
  • La quarta linea di ricerca incentra la sua attenzione sulla comunicazione e la propaganda in età contemporanea. Mira in particolare a riflettere sul progressivo affermarsi della società di massa, con la costruzione di un campo comunicativo che si articola attorno a quattro fondamentali strutture: quelle tecnologiche e comunicative, con una sequenza continua di innovazioni mediatiche; quelle istituzionali, con modalità pubblicamente regolate di presa di parola; quelle discorsive e simboliche; quelle infine ideali, legate a ideologie e valori, con i relativi conflitti e mutamenti.

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"Questo progetto di ricerca - ha commentato il direttore Pierluigi Barrotta - impegnerà tutto il dipartimento, a cui si sono recentemente aggiunti docenti di elevata qualifica internazionale grazie al finanziamento del MIUR. Sempre in vista dello svolgimento del progetto, saranno dati 32 assegni di ricerca con cui attrarre i migliori giovani ricercatori dall'Italia e dall'estero. I risultati della ricerca saranno via via pubblicati in una collana curata dalla casa editrice accademica Carocci di Roma. La qualifica di dipartimento di eccellenza conferma il profilo internazionale della tradizione umanistica propria dell'Università di Pisa".

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Nella foto in alto: da sinistra, Pesciatini, Mancarella e Barrotta.

Nella foto nel mezzo: da sinistra, Collavini, Sicca, Cantini, Barrotta, Banti, Betrò, Petralia.

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