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A symbol of rebellion, of belonging, a badge of shame, a sign of magic but also a fashion accessory and a mark of freedom. Over thousands of years, tattooing has represented all of these and now, for the first time, an original study retraces its history up to the present day. The book in question, "Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio" (Pisa University Press, 2019), was written by Paolo Macchia, associate professor of the University of Pisa and Maria Elisa Nannizzi, his student.

 

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Maria Elisa Nannizzi and Paolo Macchia

 

“Our skin speaks,” says Paolo Macchia. “What we have tried to understand is how tattoos have been used over the ages to express ideas, concepts and opinions. In other words, we want to demonstrate how this form of communication has changed over time, taking on new meanings according to the different cultures.”

The book, therefore, traces a cultural geography of tattoos in the West, from prehistoric times to the present day, with a special focus on the tribal tattoos of the Māori from New Zealand. The starting point is an estimate of the phenomenon based on the data available. From here, for example, it can be seen that 12.8% of the population in Italy has a tattoo, mostly people in the 18-44 age range. This figure is in line with the European average which is around 12% but much lower than that of the United States where the data show an average of 30%.

As regards the tattoo artists, in Italy there are around 2,800 enterprises linked to this activity mainly concentrated in the North with a share of almost 60% of the business. Lombardy is the leader while the Centre lies in mid position and the South and islands do not even total one fifth of the endeavors.

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This picture of the present situation is accompanied in the book by a historical analysis based on literary, iconographic and historical sources. These sources reveal that in Ancient Greece and Ancient Rome tattoos were used as a form of punishment, a stigma to mark fugitives or prisoners of war. With the spread of Christianity, which rejected any form of marking on the body, tattoos then lost their importance, but held out, in spite of everything, until the Middle Ages where ironically they came back into fashion among pilgrims. Throughout the modern period, therefore, tattoos maintained above all their punitive significance and were used to mark individuals on the fringes of society such as prostitutes, criminals and slaves. However, a new phase of popularity and diffusion occurred during the 18th and 19th centuries when tattoos returned to Europe following the exploration and discovery of the Far East and Polynesia. More recently, tattoos have become markers of the great changes which have overturned the socio-political system worldwide from the 1960s onwards, and the main characters in this case are hippies, punks, bikers and even skin-heads for whom tattoos have become a strongly political mark.

 

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“In previous decades tattoos were used to express tendencies and social changes, whereas today they seem to be characterized, above all on an individual level, as market commodities, subject to fashion trends and continuous changes in taste,” concludes Paolo Macchia. “Although many people define this as being a phase of  banalization and depletion, it is what has finally established tattoos on a worldwide basis. Even today, skin is a means of communication, but what is different is the fact that it does not speak to a group but rather, to the individual and about the individual. Since a codified language no longer exists, therefore, in order to understand the meaning of a tattoo, it is necessary to ask the person wearing it.”

It is also worth mentioning the vast gallery of famous people who have flaunted a tattoo and are mentioned in the book. Winston Churchill, for example, had an anchor tattooed on his forearm as a reminder of his time as a correspondent in Cuba, India and South Africa, and his mother, Lady Churchill, had a small snake tattooed on her wrist, which she hid under a bracelet on important occasions; Tsar Nicholas II of Russia had a dragon tattooed on his left arm and Frederick IX, King of Denmark flaunted tattoos on his arms and chest, while the president of the United States, Theodore Roosevelt wore the family’s coat of arms on his chest. In the present day, there are examples everywhere: from the long line of footballers (Beckham, Icardi, Nainggolan, Gabigol, Ibrahimovic and Borriello) through the world of show business (Lady Gaga, Robbie Williams and Angelina Jolie) to Italy with Fedez, Fabrizio Corona, and Asia Argento, the never-ending ‘tronisti’ and even Belen, who created havoc with her butterfly.

 

 

Emblema di ribellione, di appartenenza, marchio di infamia, segno magico ma anche accessorio di moda e simbolo di libertà. Nel corso dei millenni il tatuaggio è stato tutto questo e per la prima volta un originale studio ne ripercorre la storia sino alla contemporaneità. Il volume in questione è "Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio" (Pisa University Press, 2019) scritto dal professore Paolo Macchia del dipartimento di Civiltà e Foprme del Sapere dell’Università di Pisa e dalla dottoressa Maria Elisa Nannizzi, sua allieva.

 

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Da sinistra Maria Elisa Nannizzi e Paolo Macchia


“La pelle parla – racconta Paolo Macchia - quello che abbiamo cercato di capire è come il tatuaggio nelle varie epoche storiche sia stato usato per esprimere idee, concetti e opinioni, in altre parole vogliamo far vedere come questa forma di comunicazione sia cambiata nel tempo assumendo sempre nuovi significati a seconda delle diverse culture”.

Il volume traccia così una geografia culturale dei tatuaggi in occidente, dalla preistoria ad oggi, con un focus sui tatuaggi tribali dei Maori della Nuova Zelanda. Il punto di partenza è una stima del fenomeno a partire dai dati disponibili. Si scopre così ad esempio che in Italia circa il 12,8% della popolazione sarebbe tatuata, in prevalenza persone dai 18 ai 44 anni, un dato in linea con la media Europea che si attesta al 12%, ma ben al di sotto degli Stati Uniti dove la percentuale è al 30.

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A sinistra, soldato statunitense tatuato con simboli patriottici nella prima metà del XX secolo. A destra, biglietti da visita di tatuatori nella stessa epoca. Fonte: Mc Comb (2015), pp. 45 e 65.


Passando invece ai tatuatori, in Italia ci sarebbero circa 2.800 imprese legate a questa attività con una concentrazione nel Settentrione che ha quasi il 60% di tutti gli operatori, Lombardia in testa, mentre il Centro si pone in posizione intermedia e il Mezzogiorno, isole comprese, non raccoglie nemmeno un quinto delle imprese.

A questa fotografia della situazione attuale il volume unisce un’analisi storica a partire da fonti storiche, letterarie e iconografiche. Si scopre così ad esempio che nella Grecia e nella Roma antiche il tatuaggio fu utilizzato perlopiù a scopi punitivi, come stigma per marchiare fuggiaschi o prigionieri di guerra. Con la diffusione del Cristianesimo, che ripudiava ogni forma di marchio sul corpo, il tatuaggio perse invece la sua importanza, ma nonostante tutto resistette durante il Medioevo dove, ironia della sorte, fu particolarmente in voga fra i pellegrini. Per tutto il periodo moderno il tatuaggio mantenne quindi soprattutto un significato punitivo e venne usato per marchiare gli individui al margine della società come prostitute, criminali e schiavi.

Ma una nuova fase di popolarità e di diffusione si ebbe a partire dal Sette e Ottocento, quando il tatuaggio ritornò in Europa a seguito delle esplorazioni e delle scoperte in estremo oriente e in Polinesia. Più di recente il tatuaggio è diventato invece l’emblema dei grandi cambiamenti che hanno stravolto il sistema politico-sociale globale a partire dagli anni ’60 del Novecento e i protagonisti in questo caso sono gli hippies, i punk, i bikers fino agli skin-head, dove il tatuaggio è diventato un marchio fortemente politico.

 

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A sinistra, soldato statunitense tatuato con simboli patriottici nella prima metà del XX secolo. A destra, biglietti da visita di tatuatori nella stessa epoca. Fonte: Mc Comb (2015), pp. 45 e 65. [Nel testo Sulla nostra pelle, p. 43]



Se nei decenni scorsi il tatuaggio esprimeva tendenze e cambiamenti sociali, oggi sembra caratterizzarsi soprattutto a livello individuale, come un bene di mercato, soggetto a mode e continui cambiamenti del gusto – conclude Paolo Macchia – sebbene molti definiscano questa come una fase di banalizzazione e di svuotamento essa è quella che ha dato definitiva affermazione globale al tatuaggio. Anche oggi la pelle è uno strumento di comunicazione, ma ciò che è diverso è il fatto che non parla più ad un gruppo, ma al singolo e del singolo e dunque, dato che non esiste più un linguaggio codificato, per sapere cosa significa un tatuaggio, oggi occorre chiederlo a chi lo indossa”.

Un discorso a sé merita infine l’amplissima galleria delle personalità che hanno sfoggiato un tatuaggio e che sono citate nel libro. Winston Churchill per esempio aveva un’àncora sull’avambraccio in ricordo dei tempi passati come corrispondente tra Cuba, India e Sudafrica e anche la madre, Lady Churchill, aveva un piccolo serpente sul polso che copriva, nelle occasioni importanti, con un bracciale; lo zar Nicola II di Russia, aveva un dragone sul braccio sinistro e Federico IX, Re di Danimarca sfoggiava braccia e petto tatuati, mentre il presidente statunitense Theodore Roosevelt portava sul petto lo stemma araldico della propria famiglia. Arrivando ai giorni nostri gli esempi spaziano ovunque: dalla lunga schiera di calcatori (Beckham o Icardi, Nainggolan o Gabigol, Ibrahimovic o Borriello) passando poi al mondo dello spettacolo (Lady Gaga, Robbie Williams e Angelina Jolie) fino ad arrivare in Italia con Fedez, Fabrizio Corona, Asia Argento, l’infinità di tronisti o volendo anche Belen, che per quella farfalla creò un putiferio.

 

 

Fabrizio DAmicoÈ morto a Roma, la sera di sabato 9 marzo, Fabrizio D’Amico, eminente studioso di Storia dell’arte contemporanea, per oltre dieci anni professore dell’Università di Pisa. Noto al grande pubblico per essere da sempre una delle più acute e sensibili voci critiche del quotidiano «La Repubblica», D’Amico ha condotto studi di capitale importanza sull’arte italiana del XX secolo, curando volumi e ordinando mostre nelle principali istituzioni museali.

Nato nel 1950, Fabrizio D’Amico si era laureato a Roma con Cesare Brandi e Valentino Martinelli. Dopo l’esordio, maturato nel campo della storia dell’arte moderna, si era avvicinato rapidamente al contemporaneo, avviando presto – e con decisione – diverse, parimenti fruttuose linee di ricerca. Alla metà degli anni Ottanta fu tra i protagonisti del rinascere degli studi sull’arte italiana fra le due guerre, segnatamente sulla Scuola Romana. A questo ambito di ricerca si ascrive l’importante mostra “Roma 1934” (Modena e Roma, 1986) e, con essa, numerosi saggi di carattere monografico (tra gli altri su Mario Mafai, Antonietta Raphael, Fausto Pirandello e Ferruccio Ferrazzi).

Altro suo oggetto privilegiato di indagine fu l’arte degli anni Cinquanta e – in senso più ampio – il vasto processo di rinnovamento che caratterizzò l’arte italiana tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Sessanta. D’Amico fu senz’altro uno dei primi studiosi a riconoscere gli elementi di continuità fra il tempo estremo del ventennio fascista e l’immediato dopoguerra (come testimoniato dalla grande mostra “Pittura e realtà”, curata insieme a Flaminio Gualdoni nel 1993). Ha composto pagine memorabili su Afro Basaldella, Achille Perilli, Giulio Turcato e molti altri protagonisti di questa felice stagione dell’arte italiana. Autore di ampie e precise ricognizioni, come in “Roma 1950-’59” (Ferrara, 1995), D’Amico ha al contempo dedicato speciale attenzione a figure che la critica ancora non aveva appieno apprezzato. In quest’ottica si possono intendere gli studi su Antonio Sanfilippo (di cui ha co-curato il “Catalogo generale dei dipinti”) e, soprattutto, su Toti Scialoja, di cui D’Amico è stato e resta uno dei massimi esegeti. A Scialoja D’Amico ha dedicato una monografia, edita nel 1991, e numerose, importanti mostre, allestite nel corso degli anni a Ferrara, Modena, Parigi e Verona.

Per altro verso, D’Amico ha a lungo seguito l’opera di artisti viventi, curando mostre e studi su pittori e scultori appartenenti a generazioni diverse. A tal proposito egli ha speso particolari energie nel campo della scultura, facendosi promotore, spesso insieme a Giuseppe Appella e Nino Castagnoli, di estese esplorazioni, poi tradotte in mostre o in fascicoli della rivista «Quaderni di Scultura Contemporanea».

D’Amico ha lavorato intensamente anche su alcuni grandi ‘solitari’ del XX secolo: Filippo de Pisis, Osvaldo Licini (di cui ha contribuito al rilancio degli studi, alla metà degli anni Duemila) e Giorgio Morandi, suo grande e ineludibile amore, ripetutamente oggetto di lezioni universitarie durante gli anni pisani. 

In aula Fabrizio D’Amico sapeva luminosamente coniugare un rigoroso approccio storiografico, fondato sull’esegesi documentaria, con una appassionata e profonda lettura dell’opera d’arte. Il ricordo delle sue lezioni è sempre vivo e ha lasciato una traccia profonda nel lavoro dei molti suoi allievi.

Mattia Patti
Professore di Storia dell'arte contemporanea
Presidente del corso magistrale in Storia e forme delle Arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media
Università di Pisa

Sono state presentate alle imprese del territorio le ultime ricerche sui dispositivi elettronici “stampati” su carta e materiali flessibili, svolte nel nuovo laboratorio “printable electronics” del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell'Università di Pisa. Il laboratorio è coordinato da Gianluca Fiori, docente di elettronica al dipartimento e vincitore di un prestigioso ERC del Consiglio Europeo delle Ricerche proprio per le sue attività in questo ambito.

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Nella foto, da sinistra: Giuseppe Anastasi, direttore del dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, Gianluca Fiori e Lisandro Benedetti Cecchi, prorettore per la Ricerca europea dell'Università di Pisa.

“Si tratta di un campo di studi – commenta Fiori - che rappresenta una grande occasione, soprattutto per le aziende che operano nel settore di carta e pelli, per innovare i propri prodotti. La nuova tecnologia per la stampa di dispositivi elettronici, infatti, può modificare oggetti di uso quotidiano, come bende, pannolini o cerotti, che, provvisti di elettronica bidimensionale, diventano "intelligenti" e acquisiscono nuove funzionalità, per esempio la capacità di monitorare parametri come pH, umidità o glucosio. Per poter sfruttare le potenzialità di queste innovazioni è però necessario che le imprese siano al corrente di dove si sta muovendo la ricerca”.

Uno degli obiettivi è infatti quello di arrivare sino alla progettazione industriale su larga scala partendo dallo studio dei prototipi. Oltre a Università e Centri di Ricerca europei, infatti, tra i partner dei progetti di elettronica stampabile figurano Quantavis, uno spin-off dell’Ateneo pisano, ed ESSITY, una compagnia leader a livello mondiale nel settore dell'igiene e della salute, conosciuta per marchi popolarissimi come i fazzolettini “Tempo”.

“L’impegno costante del nostro dipartimento – afferma il direttore Giuseppe Anastasi – è cercare di creare occasioni di confronto con le imprese, trovare convergenze e possibili utilizzi, e aprire così la strada ad una ricaduta positiva della ricerca avanzata sul 4.0 italiano. “

La ricerca di frontiera sulla printable electronics condotta nel laboratorio viene finanziata agli scienziati dell’Università di Pisa dall’Unione Europea attraverso due progetti, l’H2020 WASP (Wearable Applications enabled by electronics Systems on Paper) e l'ERC PEP2D (Printable Electronics on Paper through 2D materials based inks).

tour4euCon una sola voce. La Toscana e le sue sette università e scuole di eccellenza si sono presentate insieme a Bruxelles, con la vice presidente Monica Barni, per dire la loro sul futuro della ricerca europea e del programma Horizon Europe, che dal 2021 gestirà gran parte dei finanziamenti. Non dimentichiamo la ricerca di base, avvertono: "È necessaria per la ricerca applicata" spiega la vice presidente. "Serve il giusto equilibrio - aggiungono rettori e prorettori – Sono infatti necessarie tutte e due: altrimenti non ci può essere innovazione". Per l'Università di Pisa era presente il professor Lisandro Benedetti Cecchi, prorettore alla Ricerca europea.

Le università toscane hanno dato via qualche mese fa a Tour4Eu, un'organizzazione con base a Bruxelles che vuol fare da catalizzatore per i finanziamenti europei destinati alla ricerca ma anche rafforzare la presenza degli atenei in Europa. Ne fanno parte le Università di Firenze, Pisa, Siena, Università per stranieri di Siena, Scuola Imt Alti Studi Lucca, Scuola Normale Superiore e Scuola Superiore Sant'Anna.

L’appuntamento di Bruxelles ha dato l’occasione a Tour4EU di accreditarsi e presentarsi come un valido interlocutore, rappresentativo dell’ecosistema di ricerca toscano, al direttore generale della DG Ricerca Jean Eric Paquet e ai rappresentati del Parlamento Europeo, in particolare alla delegazione guidata dall’on. Patrizia Toia, vice presidente ITRE, la Commissione per l'industria, la ricerca e l’energia: “Tour4EU è uno strumento strategico per promuovere gli interessi del sistema della ricerca toscana presso l’UE - commenta il professor Lisandro Benedetti Cecchi - L’Università di Pisa ne fa parte da protagonista e ne è membro convinto e proattivo grazie alla sua tradizione di ricerca e alla sua forte propensione all’innovazione. L'obiettivo è promuovere gli interessi di ricerca e le idee del nostro Ateneo insieme a quelle dell'ecosistema regionale della ricerca".

"Ieri e oggi - ricorda Barni - abbiamo presentato i risultati di una scelta politica forte della Regione Toscana, che ha voluto sempre di più creare una collaborazione fra gli atenei e i centri di ricerca toscani, con l'intento di porre al centro dello sviluppo sociale ed economico della nostra regione l'alta formazione e la ricerca". "Ieri, ad esempio, prosegue – abbiamo avuto un momento di discussione molto importante con il direttore generale Paquet, che ci ha presentato quelle che pensa saranno le novità del programma Horizon Europe e che potrebbero essere interessanti e promettenti per le nostre università".

Barni non nasconde che uno degli obiettivi che ha portato a sostenere da parte della Regione la nascita di Tour4Eu sia proprio quello di creare un sistema delle università toscane: presentarsi uniti aiuta e rende più forti, aiuta lo sviluppo della Toscana, soprattutto se si accompagna a una internazionalizzazione delle comunità scientifica, e facilita anche le sinergie. E a proposito di sinergie, in questo caso tra fondi strutturali e fondi diretti, la vice presidente si sofferma durante al termine del suo intervento sul programma Cofund Marie Curie. "Potrebbe essere - dice - un momento di sperimentazione di questa sinergia tra fondi strutturali e fondi diretti, al momento rimasta solo a parole". (Comunicato Regione Toscana).

 

Mercoledì 6 marzo un gruppo di allievi della Scuola Superiore Sant’Anna che segue il corso di Sistemi di programmazione e di miglioramento della performance in sanità e la laurea magistrale in Innovation management, ha fatto visita al Centro multidisciplinare di chirurgia robotica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana.

 

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Gli studenti durante la visita

L’incontro aveva come obiettivo la presentazione del Centro come polo di riferimento di pratiche innovative di organizzazione multidisciplinare, oltreché piattaforma di sviluppo di innovativi sistemi di management. Oltre alla sua naturale vocazione clinica, infatti, il Centro è da tempo punto di riferimento nazionale e internazionale di formazione attraverso le numerose professionalità dell’Ateneo pisano che quotidianamente svolgono attività di tutoring e proctoring in ambito chirurgico. È inoltre sede di master universitari di II livello e di corsi per tutte le scuole di specializzazione dell’Università di Pisa e per il corso di laurea in Medicina e chirurgia, oltre ad avere accolto in questi anni più di 300 ospiti stranieri in formazione da tutta Europa. Verso il Centro, inoltre, nel corso degli ultimi anni si è registrato un interesse sempre crescente di istituzioni nazionali e internazionali con riferimento al relativo modello gestionale e di funzionamento.

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Da sinistra, Grazia Luchini, Silvia Briani, Sabina Nuti e Carlo Milli


Gli allievi, accompagnati da Sabina Nuti, docente di Economia e gestione delle imprese alla Scuola Superiore Sant’Anna, sono stati accolti dalla Franca Melfi, direttore del Centro multidisciplinare di chirurgia robotica, nonché docente di Chirurgia toracica all’Università di Pisa, e per l’Aoup dal direttore generale Silvia Briani, dal direttore sanitario Grazia Luchini e dal direttore amministrativo Carlo Milli.

“Questi anni sono stati proficui – ha dichiarato la professoressa Melfi – perché il Centro è cresciuto, grazie alla partnership con omologhe strutture in tutta Europa, spiccando per il modello innovativo che integra la multidisciplinarietà con la standardizzazione delle procedure e soprattutto per un elevato livello di formazione, didattica e ricerca, che ne fa un polo di riferimento su scala internazionale”.

 

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Da sinistra, Sabina Nuti, Franca Melfi


“Quando dico, e lo dico spesso, che l’Università di Pisa è culla dell’eccellenza mi riferisco proprio ad esempi come questo – ha dichiarato il rettore Paolo Mancarella –. E mi fa particolarmente piacere sottolineare, in questo caso, il fatto che il Centro è nato grazie alla identità di vedute tra Università e AOUP, che hanno messo in campo risorse e competenze di altissimo livello proprio perché convinti della bontà del progetto. Il fatto che la Scuola S. Anna lo abbia scelto come modello da cui prendere spunto è conferma di tutto ciò”.

Il presidente del Cgc Viareggio, Alessandro Palagi ha presentato - alla presenza del sindaco di Viareggio, Giorgio Del Ghingaro, del consigliere regionale della Figc, Giorgio Merlini, del prorettore dell’Università di Pisa con delega allo sport, Marco Gesi, e del presidente della Fondazione Carnevale, Marialina Marcucci - la settantunesima edizione della Viareggio Cup e la prima edizione della Viareggio Women's Cup.

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Nel corso della presentazione - avvenuta nella sala Belvedere del Gran Teatro Puccini di Torre del Lago - il presidente Alessandro Palagi ha anche ufficializzato i vincitori dei premi "Roghi", "Bresciani", Scirea", "Cgc Viareggio" e "Gianneschi", rispettivamente il giornalista Riccardo Cucchi; il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina; l'ex portiere della Nazionale, Giovanni Galli; il responsabile del settore giovanile dell'Inter, Roberto Samaden; l'imprenditore Riccardo Fabbri.

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La Viareggio Cup si arricchisce di altri due premi: il trofeo "Ondina" (che andrà al reponsabile del settore giovanile della Juventus Women's, Stefano Braghin) e il "Gianluca Signorini"; quest'ultimo, voluto dalla famiglia del compianto capitano del Genoa, sarà destinato al migliore difensore della manifestazione.

La collaborazione che l’Università di Pisa ha con il torneo di Viareggio è giunta al terzo anno consecutivo. Gli studenti dell’ateneo pisano che stanno frequentando i master di Sport and Anatomy (Fisioterapia Sportiva e in Teoria e Tecniche della Preparazione Atletica nel Calcio) e i laureandi in Scienze Motorie saranno assegnati dall’organizzazione alle squadre in gara e con esse faranno il percorso del torneo vivendo in prima persona tutto quello che concerne una manifestazione calcistica tra le più importanti al mondo.

Inoltre, durante il torneo saranno organizzati molti appuntamenti formativi aperti agli studenti dell’ateneo pisano che si concluderanno con il congresso del 23 marzo dal titolo "La preparazione atletica del giovane calciatore e della giovane calciatrice" che si terrà presso l’hotel Esplanade di Viareggio.

cug 17 gennaioUn impegno concreto per garantire, in ambito universitario, ambienti inclusivi e rispettosi delle differenze anche in tema di orientamento sessuale, con particolare attenzione alla questione delle carriere alias. È questo il punto centrale del documento che la Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università italiane ha prodotto e inviato a tutti gli atenei italiani e alle istituzioni di riferimento, tra cui MIUR, Presidenza del Consiglio dei Ministri, CRUI, ANVUR e Consiglio nazionale degli studenti universitari. La mozione è nata nell’ambito del convegno “Le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” svoltosi a Pisa alcune settimane fa, organizzato dalla Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università italiane, congiuntamente al Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Pisa e in collaborazione con Universitrans, il progetto di ricerca nazionale sulle carriere alias.

”Nel nostro documento chiediamo un impegno fattivo di tutti i soggetti coinvolti per far sì che gli atenei diventino luoghi in cui le diversità trovino inclusione e rispetto – commenta la professoressa Elettra Stradella, presidente del CUG dell’Università di Pisa - Promuovere il benessere fisico, psicologico e relazionale delle persone che studiano e lavorano nel nostro ambito è la missione principale dei Comitati Unici di Garanzia universitari. Le iniziative da mettere in campo sono molteplici, vanno dalla dimensione della didattica e della ricerca – con l’integrazione di contenuti che facciano riferimento alle questioni relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale – fino ad arrivare al piano della formazione del personale docente e a quello della valorizzazione del contributo della componente studentesca per una progettazione partecipata di questi percorsi».

Nella mozione è riservata un’attenzione particolare alla questione delle carriere alias, per la quale è stato prodotto un documento di sintesi elaborato da un apposito Tavolo costituitosi al convegno pisano. Il testo comprende alcune raccomandazioni e una proposta di accordo di riservatezza per l’attivazione della carriera alias, senza l’obbligatorietà di presentare ulteriore documentazione in merito all’inizio della transizione di genere. Tra i punti in evidenza, c’è la raccomandazione a tutti gli atenei di introdurre il tesserino magnetico di riconoscimento provvisto di fotografia in modo che, in sede di identificazione (esame, segreteria, biblioteca, mensa, etc.), non sia necessario presentare anche il documento d’identità. In più a questo si raccomanda di estendere tali tutele anche al personale docente, ricercatore, amministrativo e tecnico, dottorandi, titolari di assegno di ricerca e ospiti che ne facciano richiesta.

Si invita inoltre il Consorzio interuniversitario CINECA e gli Enti per il diritto allo studio ad adeguare rapidamente i sistemi informativi e le proprie procedure amministrative per rendere effettivi e facilmente esercitabili i diritti delle persone transgender che studiano e lavorano negli atenei, con l’utilizzo della carriera alias. In particolare, si invita il CINECA ad intervenire nel più breve tempo possibile sul software di gestione della carriera della popolazione studentesca e del personale al fine di rendere più agevole e immediata la gestione amministrativa delle carriere alias, e si invitano gli Enti per il Diritto allo Studio a modificare prassi e procedure per rendere effettivo l’accesso alla carriera alias con riferimento ai servizi erogati.

Alcuni giorni fa ha preso avvio BotS - Botanic School, la scuola di formazione rivolta a docenti della scuola primaria e secondaria organizzata dall’Orto e Museo Botanico dell’Università di Pisa. L’iniziativa, che coinvolge 17 docenti, ha lo scopo di approfondire e migliorare le conoscenze di base nel campo della botanica, ma soprattutto di costruire nuovi approcci didattici, il più possibile interdisciplinari.

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La scuola si articola in sei incontri pomeridiani, sino al prossimo aprile: “Gli argomenti trattati spaziano dalle caratteristiche principali delle piante a quelle più specifiche di Gimnosperme e Angiosperme, con una finestra di approfondimento sulla palinologia e gli insetti impollinatori – spiega Lorenzo Peruzzi, direttore dell’Orto e Museo Botanico - Per l’occasione la nostra struttura diviene spazio di apprendimento all’aperto, dove risulta chiara l’efficacia didattica di luoghi diversi dalle aule scolastiche”.

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Durante gli incontri saranno perfezionate e approfondite conoscenze disciplinari e interdisciplinari, unendo alla teoria attività pratiche, visite interattive e discussioni di gruppo, che valorizzano così anche l’elemento esperienziale. Per informazioni scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

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agricoltura sostenibile copyL'Accademia dei Georgofili ha organizzato insieme al Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientalialimentari dell'Università di Pisa la giornata di studio "Le Scienze agrarie di fronte alla sostenibilità. Paradigmi a confronto". L'incontro ha avuto un grande successo di partecipazione sia da parte degli studenti che dei docenti. Le relazioni sono state seguite con particolare attenzione e hanno alimentato una viva discussione al termine delle presentazioni dei relatori. Di seguito offriamo una sintesi dei contenuti trattati alla giornata di studi, a firma del professor Amedeo Alpi, docente dell'Università di Pisa e presidente della Sezione Centro-Ovest dell'Accademia dei Georgofili.

Le premesse

L'evoluzione che l'agricoltura ha subito durante la seconda metà del secolo ventesimo è stata riassunta mettendo in risalto anche il parallelo cambiamento delle scienze agrarie, considerate come scienze applicate ai bisogni primari dell'uomo. Pertanto, se l'attività di Norman Borlaug - il padre della Rivoluzione Verde - è stata guidata, per vari lustri, dall'obiettivo di incrementare le produzioni per un mondo carente in alimenti, così, in anni più vicini a noi, si è seguito, quanto meno in Italia e in Europa, il cammino fatto dal vino, caratterizzato da un eccezionale salto qualitativo, ma con un contemporaneo calo produttivo se riportato all'ettaro di vigna coltivata. Seguendo questo percorso si osserva che nel 1990 si afferma, nell'Unione Europea, il concetto di agricoltura multifunzionale che sancisce, in modo più generale, che le rese per ettaro non sono più il dato fondamentale, ma diviene prioritaria la qualità del prodotto e il mantenimento in buone condizioni dell'ambiente in cui si opera. Il rispetto dell'ambiente, globalmente inteso, guadagna molti consensi anche nel mondo scientifico; tanto è vero che la prestigiosa rivista Nature pubblica, nel 2009, l'articolo di Johan Rockström et al. "A safe operating space for humanity", nel quale vengono fissate quelle soglie che non devono essere superate e concernenti una serie di parametri, quali biodiversità, qualità dell'acqua, ecc. che sono entrati in un progressivo degrado anche a seguito dell'agricoltura indirizzata esclusivamente agli incrementi produttivi. Analogamente nel 2015 la Conferenza Internazionale sul Clima di Parigi, partecipata da 175 Nazioni, ha stabilito, per contenere l'incremento termico medio mondiale entro 1,5°C, una serie di comportamenti utili a ridurre l'accumulo di gas serra, ai quali viene chiamata ad adeguarsi anche l'agricoltura, considerata anch'essa produttrice di tali gas.

Le agricolture

Pertanto, attualmente la sfida per l'agricoltura sta nell'esser capace di generare reddito per l'agricoltore, ma nell'ambito della compatibilità ambientale e sociale. Per far questo si riducono i classici input della rivoluzione verde (fertilizzanti, fitofarmaci, ecc.) cercando, nel contempo di aumentare gli input "interni" (evitare l'erosione del suolo, ridurre la perdita di sostanza organica, ridurre la salinità, contenere la perdita di biodiversità, cioè tutte quelle ricadute negative di una agricoltura che ha avuto per obiettivo solo l'incremento delle produzioni). E' quanto prevede l'Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile con i suoi 17 obiettivi (e 169 sotto-obiettivi), sottolineando quanto complessa e impegnativa sia questa via. A fronte di una razionalizzazione delle tecniche e dei mezzi tecnici già abbastanza realizzata, ci sono altri obiettivi più complicati da raggiungere: ridisegnare gli agroecosistemi, basandosi sui processi e non sui prodotti e definire, su basi nuove, l'intesa produttori-consumatori. In conclusione, si concorda che l'orientamento riduzionistico, perseguito per molti anni dalle scienze agrarie, ha evitato di considerare le ricadute negative di tipo socio-ambientale.

Ritenendo fondamentali i rapporti tra forma di agricoltura e sostenibilità, ci si è posti alcune domande alle quali appare arduo rispondere considerando l'enorme variabilità globale esistente sia in termini di dimensioni delle aziende agrarie (grandi dimensioni, sino a toccare centinaia di migliaia di ettari, in certe aree del mondo, o piccole dimensioni sino a scendere sotto un ettaro, tipico di molte aree asiatiche) che in termini di competitività (es.: sul prezzo o sulla qualità?). E ancora: la qualità deve essere per pochi o per tutti? Il convenzionale e il biologico devono o non devono coesistere? L'agricoltura convenzionale è ormai limitata alle zone non evolute del mondo, mentre l'agricoltura integrata ha ridotto notevolmente l'uso dei prodotti chimici di sintesi e ha rivalutato antiche pratiche agronomiche molto efficaci (es. rotazioni). L'agricoltura biologica può condurre a produzioni più basse, ma certamente a minor impatto ambientale ed esenti dalla maggior parte dei residui chimici, mentre la biodinamica si presenta con fondamenti discutibili anche perché poco studiata. L’agricoltura conservativa appare più convincente anche in virtù della sua ampia diffusione a livello globale. Tenendo conto della sola sostenibilità economica, si potrebbe dire che la forma di agricoltura integrata sembrerebbe più sostenibile della biologica, ma la situazione si ribalta se si considera la sostenibilità ambientale. La conclusione è stata razionale anche se abbastanza salomonica: la migliore forma di agricoltura è quella suggerita dalle specifiche condizioni socio-ambientali. Quindi nessuna è migliore delle altre, ma le varie forme devono coesistere.

Focalizzando la ricerca sui rapporti tra sistemi di produzione e qualità degli alimenti si è discusso il metodo metanalitico con riferimento particolare al lavoro di Barañsky et al. (British Journal of Nutrition, 2014) che ha analizzato oltre 17.000 lavori scientifici. Questo accurato confronto ha fatto rilevare poche differenze tra i prodotti derivati da agricoltura convenzionale e quelli derivati da agricoltura biologica. Più che alla forma di agricoltura, le differenze tra prodotti sono più imputabili al genotipo e al clima. Pertanto, anche la meta-analisi porta alla conclusione che per capirne di più del complesso rapporto tra salute, ambiente e economia occorre approfondire e ampliare la ricerca.

Il futuro

Il futuro dell'agricoltura è stato delineato tenendo presente la nascita e sviluppo dell'Agroecologia. Nonostante il termine “Agroecologia” sia nato intorno al 1930, negli anni recenti ha conosciuto una rinnovata fortuna. Attualmente il termine comprende sia la produzione di alimenti che la gestione degli agroecosistemi e, come tale, può essere considerata una scienza, ma è anche un movimento sociale che comporta una pratica applicazione. Nel 2014 in Francia si è implementato il metodo agroecologico; all'EXPO nel 2015 si è discussa l'importanza dell'agroecologia e nel 2018 è nata AIDA, l'Associazione Italiana di Agroecologia, associazione di promozione sociale che comporta una visione sistemica e trans-disciplinare dell'agroecologia, segnando una inclusione e un superamento dell'agricoltura di precisione, come di quelle integrata e biologica, introducendo la dimensione sociale. Si ritiene indispensabile trasformare i sistemi agroalimentari, così come anticipato dalla "Lancet Commission on global mental health and sustainable development" nell'Ottobre 2018. L'agroecologia promuove una agricoltura per la biodiversità; il caso di studio è rappresentato dalle "cover crops", cioè le colture di copertura per una agricoltura che non richieda lavorazioni (no till). L'agroecologia, così intesa, non può basarsi su una sola disciplina, ma supera, di fatto, anche l'interpretazione multidisciplinare e interdisciplinare per proporre la dimensione trans-disciplinare nel senso dato a questo termine da Jean Piaget nel 1970, che si manifesta non nelle interazioni tra ricerche specializzate, ma mettendo in evidenza i collegamenti all'interno di un sistema totale che supera i confini disciplinari. Pertanto la frammentazione delle conoscenze, così come si è venuta a determinare nel tempo, nonostante abbia svolto un ruolo utile, è ora da superare se si vuole realizzare una transizione ecologica delle attività umane.

Il ruolo delle scienze agrarie per la sostenibilità è stato infine posto in termini di paradigmi, cioè dei sistemi di valori che orientano le decisioni sia individuali che istituzionali e politiche; in tal senso la valutazione diviene globale passando dalla scienza alle religioni attraversando tutti i settori intermedi, ma rispettando gli specifici ambiti dei fatti (scienza), dei valori (filosofia) e dei doveri (etica). Questo tipo di atteggiamento conferma quanto detto in precedenza circa il limite della cultura disciplinare e sottolinea la necessità di andare verso un carattere trans-disciplinare delle ricerche. Occorre una sorta di nuovo atteggiamento che integri l'agricoltura con l'umanità; muovendosi in questa ottica divengono intollerabili le enormi differenze di qualità di vita che si riscontrano sul pianeta. A questa profonda ingiustizia va sommato il ripristino del predominio della natura, che va assecondata anziché contrastata. Il percorso compiuto sino ad ora è stato invece nel senso contrario: tutto è stato industrializzato, trascurando la natura e la sua proprietà sistemica che trova nell'insieme delle parti il vero successo e che costituisce il fondamentale esempio di sostenibilità.

Amedeo Alpi

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