1967: il congresso della Società Filosofica Italiana
Cronaca delle quattro giornate pisane
Erano giorni in cui i quotidiani davano in prima pagina notizie sul colpo di stato dei colonnelli greci oppure sull’incidente che al rientro aveva fatto precipitare l’astronauta russo Komarov - una “macchina”, la sua, rivelatasi decisamente imperfetta. A sfogliarne le pagine si scopre che in quello scorcio d’aprile freddo e piovoso il centrosinistra stava litigando al suo interno e che fra mille contrasti prima o poi una riforma universitaria si sarebbe fatta; mentre un nuovo, strano oggetto destava curiosità e preoccupazione, la “rivolta dei giovani”. Fra l’altro, tutti i quotidiani danno notizie e commenti anche su un singolare congresso riunito a Pisa: I robots ci impongono di conoscere meglio noi stessi titolò il “Corriere della Sera” qualche giorno prima dell’inaugurazione, ma precisando in un successivo articolo - nuovamente firmato dal filosofo Evandro Agazzi - che Bisogna usare le virgolette quando si dice: i robots “pensano”. A fatto compiuto il “Giornale d’Italia” rilevò esservi Tra l’uomo e la macchina il baratro del pensiero; la “Nazione” informò che I filosofi hanno visto la macchina che li aiuta, visitando il centro universitario di calcolo elettronico, ma scrisse anche di stupidi automi in un altro articolo del medesimo autore. Sono soltanto pochi esempi di una risonanza che ebbe echi ben oltre la stampa specialistica e raggiunse lo schermo della TV. Il convegno fu dominato da due forti personalità: Augusto Guzzo e Vittorio Somenzi
Per quattro giorni dunque - dal 22 al 25 aprile 1967 - la Società Filosofica Italiana convocò a Pisa oltre quattrocento iscritti, offrendo loro già all’apertura un primo volume con due relazioni introduttive accompagnate da osservazioni di vari autori e un secondo che raccoglieva settantadue comunicazioni. Quando uscirà il terzo (di Discorsi Discussioni Interventi), gli Atti toccheranno complessivamente le settecento pagine.(1)
L’evento era infatti cominciato ben prima che si celebrasse realmente, preparato di lunga mano. Nel maggio-giugno 1965 i soci della Società Filosofica Italiana (SFI) elessero i consiglieri del biennio 1965-67, i quali a loro volta scelsero come presidente Augusto Guzzo, professore fuori ruolo di Filosofia teoretica a Torino, vicepresidenti Guido Calogero e Luigi Pareyson, segretario Vittorio Somenzi. Il nuovo consiglio direttivo si mise subito al lavoro per preparare il XXI Congresso nazionale, e decise di assegnargli come tema “quello dei rapporti tra l’uomo, inventore delle macchine e queste creazioni umane, spesso più potenti ed efficienti del loro inventore”.(2)
Fu inoltre stabilito di affidare a Somenzi la relazione-base, anche se Guzzo chiese di premettervi un’introduzione, pronta già nel gennaio 1966 e fatta circolare tra i consiglieri della SFI, alcuni dei quali replicarono e discussero; dal canto suo Somenzi stese la propria relazione nell’estate del 1966 e la comunicò ai colleghi, i quali nuovamente fecero avere osservazioni. Questo stadio iniziale del congresso produsse il primo volume degli Atti, finito di stampare il 31 dicembre 1966. Ma anche la pubblicazione del secondo precedette l’apertura dei lavori, con una prefazione datata 15 marzo 1967 e firmata da Guzzo e Somenzi.
Senza alcun dubbio le loro due forti personalità dominano tutto lo svolgersi della vicenda e le imprimono, al di là di ogni appello al dialogo amichevole, una dinamica sensibilmente dissociativa.
Due personalità che non avrebbero potuto essere più distanti, sotto molti aspetti. Anzitutto l’età - settantatre anni il presidente, quarantanove il segretario - due successive generazioni. In secondo luogo la formazione e il curriculum: totus philosophus Guzzo, da giovane nutrito di idealismo gentiliano ma trasposto in chiave cattolica, per mezzo secolo professore di filosofia; laureato in fisica teorica Somenzi, ufficiale al Genio aeronautico fino al 1966 quando vinse la cattedra di Filosofia della scienza all’Università di Roma, già nel 1951 passato attraverso l’esperienza, rara a quel tempo, di un semestre a Harvard.
Infine c’erano, per così dire, due temperamenti agli antipodi: quello del napoletano Guzzo, estroverso e facondo, retore ineguagliabile di contro a quello trattenuto e riservato di Somenzi, mantovano di nascita. Forse li univa soltanto il nome di Gentile, ma sdoppiato in due diverse figure, padre e figlio: Giovanni senior, verso cui Guzzo provò sempre una sorta di venerazione, seppure essendosi ad un certo momento emancipato dall’ortodossia attualistica; e Giovanni junior, il fisico che nel 1940 era stato relatore a Milano della tesi di Somenzi sulla superconduttività.
“Quante macchine! Macchine minime e macchine massime” fu l’incipit un po’ attonito del presidente, che registrava come l’uomo avesse ormai conquistato un’enorme potenza tecnica, quasi con l’ebbrezza di un superamento dei limiti entro cui era sempre sembrata chiusa la sua “natura”. Non che si dovesse per forza diffidarne, ma c’era da sorvegliare la “malsana superbia” in cui avrebbe potuto cadere colui che si credeva padrone dell’universo: ecco il cave che attraversa tutta l’introduzione e rimbalza negli interventi successivi di Guzzo.
Si profilava così una battaglia su due fronti: contro “l’iperbole di chi esalta le macchine e la metonimia di chi le condanna”. La terza via indicata da Guzzo era quella delle “filosofie civili”, capaci di salvaguardare la misura umana dell’uomo costruttore, contrastando tanto le “filosofie selvagge” che considerano nulla l’esperienza tecnica quanto le “filosofie serve” che inducono l’uomo ad alienarsi nelle macchine.
Dopodiché Guzzo invitava a recuperare alcuni significati originari, come quello di mechané - la risorsa di un’intelligenza astuta che inventa congegni per far fronte alle difficoltà della vita - e di techne, intesa come costruzione di un sistema a partire dall’abilità che l’intelligenza ha acquisito ed esercita.
Questo consentiva a Guzzo una lunga digressione sul rapporto fra arti belle e arti utili, nonché sulla varia molteplicità delle tecniche umane, buon antidoto ad un’eventuale idolatria. Il presidente della SFI intese così esorcizzare proprio la novità e la specificità di quelle macchine che avevano, con la loro recente irruzione sulla scena, indotto i filosofi a trattarne.
Novità e specificità che furono al contrario illuminate di luce meridiana dalla vera relazione-base del congresso: dopo aver brevemente ripercorsa la storia delle macchine dall’epoca della prima rivoluzione industriale, Somenzi notava “come oggi non sia più lecito al filosofo, che voglia parlare di macchine in rapporto all’uomo, ignorare il fatto che in vari campi della scienza e della tecnica si adopera il termine ‘macchine’ non più solo in riferimento agli orologi, alle locomotive, ai telai o alle pianole, ma anche in riferimento ad automi ideali, quali appunto le calcolatrici universali di Turing, la cui realizzabilità pratica non incontra insormontabili difficoltà di principio; di questi automi è ora frequente l’uso in funzione di modelli matematici per una spiegazione dell’attività mentale dell’uomo, oltre che in funzione di schemi per la progettazione di sempre più efficienti sostituti artificiali del nostro cervello”.(3)
Dieci o quindici anni prima, agli esordi cioè della cibernetica, s’erano lette previsioni forse troppo ottimistiche circa la realizzabilità di macchine capaci di far tutto: scoprire nuovi teoremi o leggi naturali, vincere campionati di scacchi, tradurre da una lingua all’altra, sostenere conversazioni con un interlocutore umano. Somenzi non nascondeva che i risultati effettivi erano più modesti; ciò non impediva, tuttavia, di nutrire fiducia in un progresso di quel genere di esperimenti, tale da ridurre il divario fra il lavoro compiuto dalle macchine e quello mentale proprio dell’uomo. E comunque gli elaboratori elettronici già mostravano così tante e nuove applicazioni, escogitate anno dopo anno, che “la manifestazione di loro capacità intellettuali davvero autonome verrebbe accolta senza eccessivo stupore dal filosofo estraneo all’ambiente”.(4)
Quest’ultima affermazione di Somenzi, a giudicare dal seguito del congresso, sembra oscillare in uno spazio compreso tra il wishful thinking e la captatio benevolentiae. Ed era Guido Calogero il prototipo di filosofo che il segretario della SFI reclutava per comprovare “questa assenza di pregiudiziali contro lo sviluppo di macchine pensanti”. Il cui interesse filosofico, infatti, durante una conferenza ginevrina del settembre 1965, Calogero aveva rinviato al momento in cui fosse sorto un “problema morale”, per la loro capacità di soffrire o godere e di dialogare con l’uomo. Fino quel momento i filosofi avrebbero dovuto smetterla di porsi la vecchia domanda se l’automa ragioni oppure no, se sia o non sia intelligente, “col segreto terrore che egli si manifesti più intelligente di loro stessi, e con un sospiro d’orgoglio soddisfatto quando ritengano di aver provato che non lo è”.(5)
Fu troppo ottimista o speranzoso Somenzi - anche nell’auspicare “una ripresa di rapporti costruttivi” tra scienziati e filosofi; del tutto inascoltato Calogero, visto che proprio quel segreto terrore e quell’orgoglio (e altre passioni ancora) animarono la discussione durante le quattro giornate del congresso pisano.
Guzzo, Somenzi, Calogero: accanto alle loro voci, il primo volume degli Atti ne riporta altre otto, in un susseguirsi di osservazioni e risposte da parte del presidente e del segretario. Uno degli assi principali attorno a cui ruotano in vario modo i loro interventi sta nella percezione e valutazione variabili del grado di peculiarità rappresentato dalle macchine pensanti. E al congresso si sarebbero alternate posizioni intermedie fra quelle dei due principali relatori, con tonalità emotive variabili dall’entusiasmo all’imbarazzo e al timore più o meno sinceramente espresso. Se si esaminano le settantadue comunicazioni pubblicate nel secondo volume degli Atti, si nota anzitutto come ne siano autori figure non propriamente di primo piano, salvo poche eccezioni. Provando a suddividerle sulla base della loro maggiore o minore vicinanza alle tesi sostenute da Somenzi, se ne ottiene una distribuzione di questo tipo: 12 di adesione, 24 con giudizio critico, 27 di rifiuto e 9 non valutabili. Dunque solo una comunicazione su sei mostra di condividere la “meccanofilia” somenziana, mentre due su sei ne prendono in qualche modo distanza oppure sollevano problemi di vario tipo, e qualcosa più di altre due su sei manifestano inquietudine più o meno profonda. Se un campione di settantadue membri della comunità filosofica italiana d’allora può essere statisticamente attendibile, il dato rivela qualcosa d’interessante.
Il rettore Alessandro Faedo
Solo il terzo volume degli Atti contiene la narrazione di quel che fu fatto e detto nelle quattro giornate pisane. Il rettore Faedo aveva concesso per le sedute l’Aula Magna Nuova al primo piano della Sapienza, e l’organizzatore locale fu Francesco Barone, presidente della sezione pisana della SFI, coadiuvato da alcuni colleghi e assistenti.
Finalmente, dopo tanti preliminari, la mattina del 22 aprile il congresso ebbe inizio, davanti a un pubblico che stipava la grande sala e la tribuna e ascoltò i quattro discorsi di Faedo, Guzzo, Barone e del rappresentante del ministro Gui.
Il rettore richiamò la grande attesa sollevata dal tema non solo tra i filosofi ma anche nel mondo degli scienziati, dei tecnici costruttori e utilizzatori di quelle macchine che stavano modificando il modo di vivere e la stessa struttura della società.
Il suo maestro, Federigo Enriques, gli aveva parlato spesso della barriera, opposta dai linguaggi specializzati, al comunicare fra scienziati e filosofi, e tuttavia proprio l’avvento dei calcolatori elettronici mutava i termini del problema e costringeva a intensificare quel dialogo. Non li si rimproverasse - chiese invece Guzzo - d’avere scelto L’uomo e la macchina come tema del congresso. I filosofi vivevano nel proprio tempo non per adularlo ma per offrigli il chiarimento delle idee, e così toccava loro dire che non c’era da aver timore o avversione per le macchine, purché l’uomo evitasse di venerarle.
E anche Barone, accennando alle macchine che ancora assordavano i lungarni per riparare danni provocati qualche mese prima dall’alluvione, sentì il bisogno di difendere la scelta del tema, parso ad alcuni troppo ristretto per attingere ad una “autentica universalità filosofica”.
Il pomeriggio di sabato 22 aprile Guzzo e Somenzi, le cui rispettive relazioni erano note da alcuni mesi, da quelle prendevano le mosse soprattutto per riflettere su ciò che vi avevano aggiunto le successive comunicazioni. E fu allora che il presidente formulò una sintesi semplificatrice della discussione già avvenuta: “Certo tra gli autori delle comunicazioni, gli uni hanno appassionatamente negato la possibilità di automi che in futuro acquistino vita autonoma diventando un’altra popolazione di uomini, di ferro anziché di ossa e di carne. Gli altri hanno invece altrettanto appassionatamente profetato che quel giorno verrà; che l’uomo creerà i nuovi esseri superiori a chi li crea”.(6)
Sintesi in tanto tendenziosa, in quanto polarizzava le opinioni espresse trascurando che gli autori s’erano pronunciati in modo molto più problematicamente sfumato e che, come s’è visto, un terzo di loro aveva occupato l’ampio spazio intermedio fra i due estremi. Dei “sogni e fantasie” fioriti intorno alla profezia di un Adamo II Guzzo delegava ad occuparsi Somenzi, il quale non poté che indicare ancora una volta nel concetto di informazione la grande cesura tra il modello attuale di macchina e quello precedente, sottolineando inoltre che “l’informazione fornitaci da una macchina calcolatrice non differisce in nulla dalla informazione che ci darebbe l’esecutore umano dello stesso calcolo, pur differendo enormemente la composizione materiale dell’uno da quella dell’altro”. (7)
Proprio dall’assimilazione del cervello umano alla macchina ideale di Turing aveva preso avvio il dibattito in corso tra filosofi e scienziati di tutto il mondo, e attraverso l’allargarsi del concetto d’informazione si era giunti a identificarlo con l’antico concetto di forma, qualcosa di inerente ad ogni oggetto materiale.
Si lavorò anche fin oltre la mezzanotte di quel sabato 22 aprile nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale, dove si confrontarono in pubblico dibattito una dozzina di scienziati con alcuni filosofi. Fu subito Beniamino Segre, fisico e vicepresidente dell’Accademia dei Lincei, a scoraggiare eventuali illusioni: quel dialogo non sarebbe stato per nulla agevole, anzitutto a causa del crescente tecnicismo e dei linguaggi oltremodo specializzati, ma anche per “interferenze e malintesi di carattere metafisico”.
Segre tenne ad elencare tutta una serie di differenze forse insuperabili fra uomo e macchina, mentre il fisico Marcello Conversi valutò che i tempi non fossero maturi per dare una risposta sensata al quesito - attorno a cui stava aggirandosi gran parte della discussione - se l’uomo sarebbe riuscito a creare una macchina così perfetta da meritare davvero il nome di Adamo II. Troppo scarse, infatti, erano le conoscenze sul cervello umano e imprevedibile lo sviluppo dei calcolatori elettronici. E sui limiti delle conoscenze attuali si soffermarono anche il biofisico Antonio Borsellino, il neurofisiologo Giuseppe Moruzzi, il fisico tecnico Cesare Codegone, i matematici Faedo e Emilio Gagliardo. Così gli uomini di scienza chiamati dai filosofi a pronunciarsi mostrarono con enfasi forse un po’ tattica di essere molto cauti sul significato da dare alle ricerche cibernetiche, e di avere consapevolezza della loro misura.
La mattina della domenica 23 aprile, prima di riprendere i lavori, i congressisti vennero portati in visita a piazza dei Miracoli, poi ben trentuno furono gli interventi in Aula Magna. Molti di coloro che presero la parola s’interrogarono in vario modo circa la possibilità teorica e pratica di quell’Adamo II il cui fantasma aleggiò su tutto il congresso. Non solo: ripetutamente e ripetitivamente si domandarono se la sua eventuale nascita avesse rilevanza per la filosofia e quale impatto determinasse sulla stessa attività filosofica, anche rispetto ad una scienza che sembrava poterne fare a meno. Alle 18 le centinaia di congressisti mossero dall’Aula Magna della Sapienza verso la più piccola sala della Domus Galilaeana, che non poté contenerli tutti, accolti da Polvani che così ribadì tanto la prudenza quanto l’attitudine “funzionalista” e utilitarista degli scienziati: “Tra i componenti della parte pensante della macchina uomo e quelli delle macchine pensanti costruite dall’uomo vi è tutto un abisso incolmabile di ordini di grandezza, che rende irriducibili questi a quelli, e che probabilmente rende ancora impossibile trovare una base fisica, a loro intrinseca, di confronto. Sussiste invece, sempre, una possibilità di confronto sulla loro base, che non è fisica, ma puramente umana, del vantaggio conseguito. Vi è allora da domandarsi se il vantaggio della macchina pensante fatta dall’uomo possa raggiungere e possa superare quello della macchina-uomo”.(8)
Se la domenica sera, mentre i professori ordinari si appartavano per una riunione della Consulta Filosofica, il resto della compagnia raggiunse il Museo Nazionale di San Matteo - dove, prima della visita guidata, si esibì la Società Corale Pisana - il lunedì mattina l’assemblea generale dei soci della SFI votò gli undici consiglieri per il biennio 1967-1969, che nel successivo autunno avrebbero a loro volta eletto il nuovo presidente e segretario. Terminate le votazioni, la sociabilità dell’evento volle che tutti i congressisti salissero sui “grandi mezzi” dell’Ente pisano per il turismo per una gita a Tirrenia, dove ebbe luogo il pranzo offerto dalla SFI.
Il calcolatore IBM 7090
Solo nel tardo pomeriggio di quel lunedì 24 aprile, ripresi i lavori e dopo sei interventi, i filosofi incontrarono davvero la macchina, dopo tanto discorrerne, sotto forma del calcolatore IBM 7090 che era operativo al CNUCE di via Santa Maria 36. Il cui segretario, Guido Torregiani, presentò l’esperimento di collaborazione fra industria e pubblica amministrazione nel campo della ricerca e della didattica.
La macchina era utilizzabile a costi quasi irrisori (30.000 lire l’ora) e le richieste da parte di utenti rappresentativi delle più svariate discipline stavano crescendo al punto di richiedere un suo impiego senza pause. Non a caso furono scelti due “umanisti” per illustrare il funzionamento di quel calcolatore. Il gesuita Roberto Busa, che lo stava usando per compilare l’Index thomisticum, avrebbe detto “che cosa ne ha capito uno che non ne capisce”, e dopo una descrizione delle tre unità (ingresso, centrale, uscita) non nascondeva il proprio entusiasmo: “Tutte le volte che sento parlare di macchina pensante provo solo un dispiacere: che non la si riesca a fare! E se ci fossero dei santi specializzati a ottenere le grazie impossibili, chiederei a loro di darmi una macchina che mi crei i programmi, già collaudati e che funzionino appena caricati nel calcolatore”.(9)
La preoccupazione, aggiungeva il tecnofilo gesuita, non era di sapere “che cosa essi possano fare, ma cosa noi riusciamo a far fare loro”. Su un altro versante, dal 1964 l’Accademia della Crusca aveva ripreso, grazie al CNR, l’attività lessicografica, proponendosi la realizzazione di un grande vocabolario storico della lingua italiana, un’impresa che solo i nuovi sistemi elettronici avrebbero reso possibile.
La sera del lunedì un ricevimento offerto dal Comune di Pisa dovette essere spostato dalla Sala delle Baleari, insufficiente ad accogliere tutta quella folla, all’Albergo Duomo. Seguì un concerto del Trio di Trieste al Teatro Verdi, organizzato dalla Normale - Haydn, Ravel, Beethoven. Fu festivo l’ultimo giorno del congresso, martedì 25 aprile - “bandiere, animazione per le vie, musiche”. I lavori ripresero la mattina in Sapienza, e alcuni tornarono ad arroccarsi nel fortilizio di una filosofia timorosa e sospettosa o anche soccorrevole e paterna nei confronti di una scienza scapestrata, mentre padre Busa precisò esservi “una forza che è spirito e non materia” e con astutissimo candore paragonò le leggi della natura a programmi caricati da Dio nel grande calcolatore dell’universo, “affinché esso produca bontà”.(10)
La seduta di chiusura vide intervenire per mezz’ora ciascuno Guzzo e Somenzi, oltreché Calogero nella veste di suo presidente. E fu Somenzi a domandarsi se non sarebbe stato meglio organizzare un vero e proprio congresso di cibernetica seguito sì da una discussione filosofica, ma specifica. Non si era purtroppo mostrata ai partecipanti qualche esecuzione di programmi che simulassero tipiche attività mentali, quali i processi di apprendimento e di induzione. Dunque in assenza di dimostrazioni pratiche - fatta eccezione per i lavori lessicografici, brevemente illustrati - s’era corso il rischio di un’“arida presentazione di atti di fede, positiva o negativa, sia da parte di filosofi che da parte di scienziati, effettuata sulla base di discorsi generici e di informazioni di seconda mano”. Impietoso giudizio, da parte di chi il congresso aveva concepito, voluto ed organizzato. Quanto allo spettro del materialismo che aveva turbato molti, Somenzi preferiva vedere piuttosto in azione “una specie di formalismo”, giacché si sottolineava l’aspetto formale delle strutture materiali, “indipendentemente da ogni idea intorno all’essenza ultima della materia”.(11)
Ebbe l’ultima parola Calogero, che presiedeva la seduta conclusiva. Una delle cose più interessanti del congresso, a suo avviso, stava nell’avere mostrato “che certi problemi, i quali agitano noi filosofi e su cui noi filosofi spesso dissentiamo, preoccupano egualmente gli scienziati stessi”. I filosofi avevano portato con sé il timore etico-politico che le nuove macchine potessero diventare così brave da prendere il governo del mondo spodestando l’uomo; poi quello, metafisico, che la realtà meccanica si rivelasse superiore all’umana. Ma non era mancata l’aspettativa opposta, di coloro che avrebbero salutato con gioia quella rivelazione. Calogero riteneva che potessero sentirsi soddisfatti, dopo quelle quattro giornate, tanto i timorosi quando i fiduciosi. A ben vedere si trattava ancora di “bestioni velocissimi”, e non appariva quindi giustificato il timore che prevalessero sull’uomo, mentre i loro servigi sarebbero cresciuti col tempo, gratificando chi vi riponeva molte aspettative. Comunque, il sogno di creare l’homunculus era tutt’altro che vano, e non si aveva motivo di deprecarlo. Tuttavia, Calogero riproponeva una distinzione raccomandata da Somenzi poco prima: “Altra cosa è far macchine sempre più efficienti, altra cosa è creare individui che siano come noi”.(12) E nel secondo caso non li si sarebbe più potuti adoperare come semplici automi: quegli immaginari individui avrebbero avuto i loro diritti e si sarebbe dovuto chieder loro che cosa volessero.
Quanto allo spinoso problema dei rapporti fra filosofi e scienziati, che era stato il basso continuo dell’inteso congresso, Calogero tendeva a porlo in termini relativamente limpidi: guai alla filosofia che volesse conoscere tutte le cose, le quali sono invece di tutti coloro che le studiano. Da questo punto di vista, gli scienziati nella loro totalità ne possiedono infinitamente più dei filosofi, i quali non hanno da creare un’enciclopedia della scienza. Peccava nondimeno d’ingenuità chi avesse pensato ormai trascorsa l’ora della filosofia, poiché erano gli scienziati stessi ad interpellare in questo modo i filosofi: “Noi facciamo le nostre ricerche, ma voi filosofi fate la vostra. Aiutateci a capire, sempre meglio, qual’è la norma generale di tutto questo nostro ricercare, la condizione di compossibilità di tutti questi nostri sforzi, che è poi la stessa condizione di compossibilità delle libertà umane, e quindi la condizione della civiltà in generale”.
Come a dire, Unicuique suum: se a qualcosa era servito quel congresso, che ognuno facesse d’ora in avanti il proprio mestiere, comunicando sì ma anche evitando inopportune usurpazioni di ruolo. Così, alle 12.30 di martedì 25 aprile, Calogero dichiarò chiuso il XXI Congresso Nazionale di Filosofia. Seguì il ricevimento offerto dal rettorato dell’Università di Pisa.
Note
- Cfr. Società filosofica italiana, L’uomo e la macchina. Atti del XXI Congresso Nazionale di Filosofia, Pisa 22-25 aprile 1967, Torino, Edizioni di “Filosofia”, 1967, 3 volumi.
- Ivi, vol. I, p.V.
- V. Somenzi, Uomini e macchine, ivi, pp.55-56.
- Ivi, p.60.
- La conferenza di Calogero, tenuta alle Rencontres internationales di Ginevra sui problemi filosofici della cibernetica, e inclusa nei relativi Actes, era anche uscita su “La Cultura” nel 1966 col titolo L’uomo, la macchina e lo schiavo e veniva inserita con qualche modifica negli Atti, vol. I, pp.96-102. Replicando a Somenzi, Calogero giudicherà “esatto, ma non esattissimo” quel richiamo al suo argomentare, giacché nulla vietava che il filosofo s’interessasse anche alle macchine pensanti per scoprire qualcosa sul proprio pensiero o sapere o essere intelligente (cfr. ivi, p.94).
- Ivi, vol. III, p.31.
- Ivi, p.38.
- Ivi, p.188.
- Ivi, p.244.
- Ivi, p.262.
- Ivi, p.289.
- Ivi, p.298.
Claudio Pogliano
docente di Storia della Scienza
pogliano@imss.fi.it