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Letture e lettori di Dante nella Pisa del Trecento

In quella che, sul piano giornalistico, si definisce cultura della pisanità hanno avuto fortuna due idee o meglio due miti negativi: quello per cui Pisa, dopo la Meloria, avrebbe conosciuto una fase di ineluttabile decadenza e l’altro per cui l’invettiva di Dante contro Pisa vituperio delle genti e la condanna del conte Ugolino non solo per tradimento ma anche per tecnofagia (cioè per aver mangiato i figli) segnerebbero in modo irrevocabilmente negativo i rapporti tra Pisa e Dante.

Silvano Burgalassi, in un volume collettivo sulla battaglia della Meloria, raccolse e commentò con intelligente ironia proverbi, detti e luoghi comuni sulla crisi e decadenza diPisa, mentre tutti o quasi gli autori, passati e presenti, di composizioni in vernacolo pisano si sono sentiti in dovere di fare i conti con l’Alighieri per difendere l’onore offeso della città. Un grande e ancora carissimo studioso come Marco Tangheroni ha invece dedicato pagine magistrali a far capire l’importanza di Pisa nel Trecento e non ha mai mancato, nelle lezioni e nelle conversazioni, di citare Dante e di invitare ad amarlo, rispondendo agli amici pisani di diversa opinione che quel sommo poeta, nella «sua grandezza, era al di sopra del tritocampanilismo».

In realtà Pisa, crocevia di uomini, lingue e culture, è anche un crocevia importantissimo per la diffusione della Commedia e per quel culto di Dante che tanti pisaniignorano e che anche certi studiosi, in un modo o nell’altro, tendono a negare o a ridimensionare.

Ritratto del profilo di Dante Alighieri

Ritratto di Dante Alighieri

Dante muore a Ravenna nel settembre 1321, il suo poema al quale ha posto mano e cielo e terra viene divulgato nella sua interezza in area padana e nell’ambiente ravennate Iacopo, figlio del poeta, scrive la prima illustrazione in versi o Divisione della Commedia, dedicata a Guido Novello da Polenta, ed il primo commento volgare all’Inferno. D’altra parte le prime attestazioni di versi della Commedia si trovano nei registri dei notai bolognesi, il primo importante commento latino all’Inferno, risalente al 1324, si deve a Graziolo Bambaglioli cancelliere del comune di Bologna e il primo commento volgare alle tre cantiche, steso tra il 1324 e il 1328, è del bolognese Iacopo della Lana; nella seconda metà del Trecento poi grandeggia il commento latino di Benvenuto da Imola, basato sulle lezioni da lui svolte a Bologna e a Ferrara. Se c’è una città che in qualche modo può contendere a Bologna il primato nel culto di Dante, questa è Pisa, e la cosa è tanto più importante per il fatto che testi e commenti della Commedia prodotti da pisani o in ambito pisano hanno un rapporto molto stretto con passaggi cruciali nella storia della città.

A Pisa va probabilmente localizzato il più antico manoscritto della Commedia oggi disponibile, datato d’ogosto mcccxxxv e conservato alla Bibl. MediceaLaurenziana di Firenze (Ashburnham 828). Un altro codice assai antico del poema, oggi alla Staatsbibliothek zu Berlin (Hamilton 203), è stato steso nel 1347 da un giovane lucchese, Tommaso di Piero Benetti, a Pisa e precisamente in contrata dicta Carraia di San Gilio, cioè nell’attuale Corso Italia (non si dimentichi che all’epoca la città di Lucca era sotto il dominio pisano). Questo stesso codice reca ai canti I e II dell’Inferno una serie d’importanti chiose, la cui ispirazionespiritualistica e pauperistica richiama i testi contro la corruzione della corte pontificia stesi a Pisa del 1328, allorché presso il Duomo risiedeva l’imperatore eletto Ludovico il Bavaro, mentre nel convento di S. Francesco erano ospitati l’antipapa Niccolò V, ossia fra Pietro da Corvara, e l’élite di intellettuali filoimperiali comprendente Michele da Cesena, Buonagrazia da Bergamo e Guglielmo d’Ockham.

Ancora nella prima metà del Trecento uno dei più importanti commenti all’Inferno si deve al frate carmelitano Guido da Pisa. Le sue Expositiones et glose in latino, precedute dal testo dell’Inferno e seguite da una Declaratio ossia illustrazione della Commedia in terzine volgari dello stesso Guido, sono tramandate da uno dei più bei codici danteschi del Trecento, illustrato dal pittore pisano Francesco di Traino; questi testi di Guido ed il sontuoso codice che li contiene, oggi aChantilly presso Parigi, Musée Condé n. 597, sono dedicati al nobiluomo Lucano Spinola di Genova, la cui famiglia dominava, insieme ai Doria, quella città. Potrebbe meravigliare che un dotto di Pisa abbia dedicato la sua opera ad un esponente di spicco della città marinara nemica: il fatto è che Lucano Spinola da un lato era stato allievo di Guido e dall’altro ricopriva, nel 1335, la carica di Consul Pisanorum Ianue, svolgendo un ruolo di primo piano nelle trattative col comune e col signore di Pisa Fazio di Donoratico che portarono, nell’agosto di quell’anno, a una tregua tra Pisa e Genova, poi rinnovata e rafforzata nel 1336 e nel 1337 (anno nel quale, non a caso, il conte Fazio sposava, in una sfarzosa cerimonia in piazza del Duomo, Contelda figlia di Corradino Spinola).

Il commento dantesco di Guido, databile fra il 1335 e il 1340 (e piuttosto attorno al 1335), è dunque associato ad un momento alto della storia e della cultura pisana; sotto il governo del conte Fazio viene infatti fondata l’Universitą di Pisa, mentre il Camposanto si arricchisce degli affreschi con Trionfo della Morte, Inferno, Giudizio Universale, Storie degli Anacoreti, ispirati dal domenicano Domenico Cavalca e rinvianti, sul piano sia figurativo che testuale, anche al codice guidiano e trainiano di Chantilly.

L’altro grande commento dantesco pisano, quello del grammatico Francesco da Buti, scritto in volgare ed esteso a tutta la Commedia, si lega pure a una fase di rinascimento della cultura e delle arti a Pisa; anzi le vicende dell’autore e le stesse fasi di elaborazione del commento sono legate a doppio filo con la storia politico–istituzionale della città. Nell’agosto 1364 sale al potere Giovanni dell’Agnello, in veste di Doge, e il 10 novembre di quell’anno papa Urbano V conferma lo Studio pisano, mettendo a disposizione proventi di benefici ecclesiastici per il ripristino delle attività didattiche precedentemente interrotte; in questo quadro il Buti, che era andato ad insegnare altrove,riprende l’insegnamento in città ed è nominato nell’agosto 1365 notaio degli Anziani. Terminato nel settembre 1368 il dominio del Dell’Agnello, il Buti partecipa come membro del partito detto compagnia di S. Michele ai più importanti eventi politici e riceve, nel marzo 1369, la carica di cancelliere degli Anziani; nel settembre 1369 subentra nel cancellierato Iacopo di Vanni d’Appiano e poco dopo, nel settembre 1370, Pietro Gambacorta viene acclamato «chapitano di guerra et difenzore del popolo» ossia signore di Pisa come lo era stato il conte Fazio. Una delle sue prime preoccupazioni è il rilancio dell’Università, sicchè nel dicembre 1370 vi sono chiamati i prestigiosi giuristi Pietro del Lante e Piero degli Albizi, il medico Andrea Gittalebraccia e appunto Francesco da Buti. Questi nel 1385 o poco prima riceve un forte aumento di stipendio collegabile all’assunzione, accanto all’insegnamento grammaticale, della pubblica lettura di Dante, che rafforzava l’immagine dello Studio pisano e conferiva prestigio alla città e al suo signore Pietro Gambacorta, tanto più in assenza di simili iniziative nella Firenze di quegli anni. La lettura del Buti era destinata ad esser edita sotto l’egida del signore di Pisa; il cappellano di Pietro Gambacorta Iohannes quondam Wilhelmi de Berlandia trascrisse infatti il commento butiano all’Inferno e a parte del Purgatorio in un prezioso codice, miniato per questa parte da artisti bolognesi (ms. Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze, Conventi Soppressi 204). Ilcolpo di stato guidato da Iacopo d’Appiano, che nell’ottobre del 1392 portò allo sterminio dei Gambacorti, interrompe il lavoro del commentatore e l’allestimento del codice (che dopo la caduta di Pisa sarà portato a Firenze e ivi completato). Il nuovo signore Iacopo d’Appiano, anche per dare prestigio al suo governo, chiama di nuovo a cancelliere degli Anziani, dal novembre 1393 al novembre 1394, il Buti, che completa l’elaborazione del commento attorno alla metà del cancellierato, l’11 giugno 1394 (1395 nello stile pisano). Tornato pienamente agli studi dopo il cancellierato e non ancora soddisfatto delle sue chiose, Francesco vi rimette mano e ne completa la revisione il 22 dicembre 1396 (1397 nello stile pisano), come attesta, con qualche errore di copia, il colofone dello splendido codice oggi alla Bibl. Nazionale di Firenze, Banco Rari 39, decorato da artisti di scuola lombarda e probabilmente destinato in origine a Filippo Maria Visconti. Si ricordi che i signori di Milano, all’epoca, miravano al controllo di Pisa e della Toscana, e proprio a Gian Galeazzo Visconti Gherardo d’Appiano, riservandosi un dominio su Piombino e dintorni, vendette il 19 febbraio 1399 la città, dopo di che il Buti stesso partecipò alla delegazione che a Pavia giurò fedeltà al nuovo signore (31 marzo 1399).

Senza insistere in questa analisi, su cui tornerò pił ampiamente in prossime pubblicazioni, mi importa sottolineare che tutti i testi e commenti danteschi citati, stesi in volgare ma anche in latino, mettono fortemente in mostra la loro pisanità linguistica e culturale. Certo ciò avviene anche, nella prima metà del Trecento, nei testi volgari di Giordano da Pisa e di Domenico Cavalca, e ai tempi di Buti nel Colloquio spirituale di fra Simone da Cascina e nella stessa Lectura delle lettere si Seneca di fra Domenico da Peccioli. L’ uso del latino pisano nel commento alla Commedia e l’insistita traduzione con voci pisane dei termini prettamente fiorentini usati da Dante, specie in rapporto ad aspetti della cultura materiale, indicano un’appropriazione forte del poema e anzi un’incorporazione del culto di Dante nell’identità pisana come si presenta nei momenti più alti del Trecento. D’altra parte la lettura e l’esegesi dantesca sia di Guido da Pisa che di Francesco da Buti manifestano legami significativi con i centri più avanzati della cultura italiana, dislocati nelle città e nelle corti dell’Italia settentrionale. La conquista fiorentina di Pisa (venduta a Firenze dai Visconti il 27 agosto 1405 e definitivamente conquistata nell’ottobre 1406) comporta non solo il crollo demografico della città, l’esodo delle più importanti famiglie, l’incorporamento delle sue torri e sedi istituzionali nei nuovi palazzi del potere fiorentino, ma anche un gravissimo declino culturale non recuperato, sotto il profilo che qui interessa, dalla scelta medicea di confermare Pisa come sede dello Studio. Non si tratta infatti solo di oppressione dei nuovi dominatori, madell’impossibilità di partecipare pienamente al nuovo movimento umanistico che si dispiega a Firenze e nel nord Italia, potenziato per di più dalla nuova tecnologia della stampa. Quando escono in Italia settentrionale le prime edizioni a stampa della Commedia col commento del Lana (Vindeliniana, Venezia 1477, e Nidobeatina, Milano 1478), larisposta della Toscana di Lorenzo de’ Medici è affidata, nel 1481, al Comento di Christophoro Landino fiorentino sopra la Comedia di Danthe Alighieri poeta fiorentino, che attinge largamente dal Buti ponendosi però all’altezza delle nuove esigenze culturali e chiudendo la via della stampa al commento butiano; allo stesso modo l’onore della stampa non sarebbe toccato nemmeno ad un’altra importante opera del Buti come le Regule grammaticales, diffusissime in tutta Italia per via manoscritta, tra la seconda metà del Trecento e la prima metà del Quattrocento, ma soppiantate da opere quali le Regule di Guarino Veronese, che ne ripetono molti elementi ma li collocano decisamente nel nuovo clima umanistico del secolo XV.

Fabrizio Franceschini
docente di Linguistica italiana
franceschini@humnet.unipi.it