La giornata conclusiva
L’ultima giornata del convegno “Pisa crocevia di uomini, lingue, culture. L’età medievale” è stata dedicata alle testimonianze artistiche, sulle quali esiste una vastissima tradizione critica: i contributi presentati si sono focalizzati sugli incroci, nella Pisa medievale, di culturedifferenti. Ha aperto la giornata di sabato la relazione di Antonino Caleca: punto di partenza obbligato, vero e proprio simbolo della città, il duomo, insieme agli altri edifici che compongono la Piazza dei Miracoli, può a buon diritto essere assunto a paradigma del ruolo di Pisa quale «crocevia di uomini, lingue e culture». Caleca ha analizzato innanzitutto i modelli impliciti nell’edificio, dagli immediati antecedenti presenti in città (San Piero a Grado, San Zeno) alle basiliche ravennati, a quella colonnata di Arezzo (frutto di un recente ritrovamento), fino alle basiliche costantinopolitane e al San Simeone Stilita in Siria.
Pavimento del Battistero di Pisa, particolare
Il duomo pisano rappresenta dunque una sapiente summa di selezionati elementi dell’antichità cristiana e pagana, ineludibile punto di riferimento per tutti gli edifici ecclesiastici successivamente costruiti in città. Vi sono d’altra parte numerosi manufatti che testimoniano a Pisa la presenza di artisti provenienti sia dall’area mediterranea che da quella transalpina. Quest’ultimo caso in particolare è attestato da una commenda del 1156 riguardante scultori provenzali giunti a Pisa per perfezionarela propria arte. Ben si giustificano quindi gli elementi provenzali riscontrabili nel pulpito di Guglielmo per il duomo (1159–1162) e la celebre statua del David citaredo ritenuta opera di uno scultore d’oltralpe. Le testimonianze pittoriche monumentali più antiche sono purtroppo frammentarie, ma danno la misura del livello qualitativo raggiuntodalle maestranze presenti in città, come mostrano in particolare i lacerti di San Zeno e di San Pietro in vinculis. A tali lacune sopperisce fortunatamente la produzione miniatoria – oggetto di una trattazione specifica da parte di Gigetta Dalli Regoli – dove è possibile individuare personalità, come quella di Alberto, responsabili sia di importanti codici miniati come la Bibbia di Calci, sia di affreschi in edifici civili e religiosi come il Palazzo da Scorno e la chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno. L’opera cheperaltro meglio di tutte restituisce la stratificazione di linguaggi provenienti da aree geografiche e culturali diverse è il pavimento del Battistero pisano, in cui Caleca bene evidenzia la giustapposizione di lastre di maestranze arabe a quelle realizzate da un lapicida romano.
Re Assuero, miniatura della Bibbia S. Caterina
Con una sintesi pregnante e ricca di riferimenti Gigetta Dalli Regoli illustra l’alternarsi e il sovrapporsi, nelle testimonianze codicologiche prodotte o pervenute a Pisa tra XII e XVI secolo, di componenti culturali di segno opposto, ora provenienti dall’area mediterranea, ora da quella transalpina. Una proiezione verso Oriente si registra nel gruppo di codici miniati riuniti attorno alla già menzionata Bibbia di Calci (1169), dove le figure dipinte “a corpo” inserite all’interno dei capilettera dimostrano chiare radici tardoromane e costantinopolitane. È composta viceversa da elementi fito–zoomorfi, riconducibili ai repertori animalistici della scultura e della miniatura transalpina, la decorazione grafica delle Institutiones di Cassiano: il codice, forse proveniente dal monastero di San Gorgonio nell’isola della Gorgona, rappresenta un documento prezioso di unvasto circuito di area occidentale dove si collocano celebri abbazie e scriptoria collegati dalla circolazione di monaci e di modelli figurativi illustri (manoscritti e oggetti di uso liturgico). Il manoscritto della Gorgona non è un caso isolato: trova riscontro infatti in alcuni manoscritti miniati lucchesi, uno dei quali reca nel Calendario una esplicitatraccia di pertinenza anglo–normanna. Il ruolo significativo di Pisa come «crocevia» è ben testimoniato da due codici, un Florilegio dei Vangeli e un Salterio, entrambi di provenienza sud–orientale (San Giovanni d’Acri, Gerusalemme o l’Italia meridionale), la cui presenza è documentata a Pisa tra Quattro eCinquecento. Il secondo manoscritto rappresenta un caso particolarmente illustre ed esemplificativo: esso fu realizzato infatti per Isabella d’Inghilterra, terza moglie di Federico II, probabilmente nello scriptorium multiculturale di San Giovanni d’Acri. Una scritta quattrocentesca ne attesta la proprietà da parte di suor Margherita Da Scorno, famiglia che già nel XII secolo aveva rapporti con l’Oriente. Forme che verso la metà del Duecento indicano un sovrapporsi di influssi diversi si colgono infine indue Bibbie, una originariamente nella chiesa pisana di San Torpè (oggi nella Biblioteca Riccardiana), l’altra ancora a Pisa nella Biblioteca di Santa Caterina. Se in alcune iniziali miniate i personaggi inseriti nel corpo delle lettere indicano l’osservanza di tipologie della cultura “greca”, la comparsa di vivaci drôleries nei margini rivelano la diffusione di formulazioni occidentali e specificamente francesi, nella scia di una produzione libraria legata alle università.
Graziella Berti ha esaminato la tipologia di manufatti artistici che risente in maniera più diretta e concreta delle importazioni dall’area mediterranea. L’arrivo in città di quantitativi ingenti di maioliche, fabbricate con una tecnica completamente differente da quella delle ceramiche cosiddette “nude” (cioè in nuda terracotta) prodotte a Pisa, avvenne tra la fine del X e la metą del XIII secolo. La Berti evidenzia come non si trattasse di acquisti speciali destinati alla decorazione delle chiese o all’uso esclusivo da parte dei ceti dirigenti: l’impiego dei cosiddetti bacini ceramici costituiva anzi un modo molto economico per decorare i paramenti murari delle chiese pisane. è interessante constatare che l’inizio della produzione a Pisa di smalti stanniferi, ovvero di maioliche, coincise con la fine nella Penisola iberica della dominazione islamica e quindi dell’uso in quest’area della tecnica delle maioliche. Pisa iniziò ben presto ad esportare questo tipo di ceramiche, come prova la loro presenza nelle volte del Sant’Antimo di Piombino. Le proporzioni di tale attività produttiva sono testimoniate dai documenti, che attestano, nel XIII secolo, la presenza in città di più di 20 artigiani “barattolai” in un luogo detto “Baractularia” coincidente con l’attuale Giardino Scotto.
Anche le testimonianze epigrafiche sono eloquenti riguardo alle presenze “straniere” a Pisa. Ottavio Banti si è soffermato in particolare sulle attestazioni trecentescherelative a personaggi del mondo germanico. È ben noto, infatti, il ruolo di Pisa come «camera dellImpero» ovvero città preferita dall’autorità imperiale, che frequentemente la scelse per più o meno lunghi soggiorni durante i suoi viaggi in Italia. Nel corso del XIV secolo ben quattro furono i passaggi dell’imperatore a Pisa, e in ognuna di queste occasioni egli fu accompagnato da una corte di principi e cavalieri che si trattennero a lungo in città e qualche volta vi morirono. È il caso del fuggiasco Giovanni di Asburgo, colpito dal Bando di Spira essendo colpevole di parricidio, ospitato dagli Agostiniani di San Nicola, dove morì nel 1313. La sua tomba, a destra dell’altare maggiore, reca un singolare epitaffio in versi, in cui non si fa alcuna menzione al parricidio e alle circostanze per cui Giovanni si trovava a Pisa. Come Banti ha dimostrato, tale epitaffio totalmente elogiativo, riscritto con un’aggiunta, dopo i danni subiti nel tempo, si spiega con il retroscena politico dei rapporti tra il papa Clemente VII, Carlo V e Ferdinando d’Asburgo. Sono ancora motivazioni politiche che spiegano il contenuto dell’epigrafe funebre di un altro importante personaggio presente a Pisa al seguito di Carlo IV: si tratta di Ladislao, duca di Slesia, morto a Pisa nel 1355. Della tomba, eretta nella cattedrale e distrutta nell’incendio del 1595, resta un’epigrafe in cui si omette deliberatamente la responsabilità delle autorità fiorentine nel restauro, effettuato nel 1452 per ingraziarsi il potere imperiale dopo la recente crisi politico–diplomatica.
Vincenzo Farinella, infine, ha portato l’ttenzione su un momento poco noto della “fortuna” del Medioevo pisano, quello che vede artisti come Viani e Magri reagire polemicamente alla “modernità” richiamando una forma di arcaismo toscano neomedievale. Se è ben nota l’ispirazione giottesca di Carrà, lo èmeno – se non ai conoscitori di un acuto saggio di Carlo Ludovico Ragghianti del 1969 è il riferimento al “romanico” da parte di questa ristretta cerchia apuana.È dunque nel secondo decennio del Novecento che il Camposanto pisano, dopo l’incredibile celebrità riscossa nell’Ottocento, conosce una nuova fortuna presso gli artisti contemporanei. Farinella si è concentrato in particolare sull’opera di Alberto Magri, artista barghigiano che, di ritorno da Parigi, realizza polemicamente una serie di dipinti ispirati alle più celebri opere medievali di Barga, come la gigantesca statua del San Cristoforo e il pulpito, di cui riproduce il motivo a stelle stilizzate presente nel fondo degli specchi. Risalgono al 1912–13 i fregi con la Vendemmia che riprendono puntualmente, nella struttura impaginativa e nei particolari, le storie di Benozzo Gozzoli nel Camposanto pisano. Negli stessi anni, Viani proietta in un mondo arcaico e senza tempo le vicende di umili pescatori nella serie di dodici xilografie intitolate Martirio, nelle quali risulta assai suggestivo il riferimento alle scene dei compianti sacri medievali.
Chiara Balbarini
assegnista al dipartimento
di Storia dellarte
c.balbarini@arte.unipi.it