Numero 24 – Editoriale
Luglio 2008
A maggio si sono svolti a Pisa i Campionati Nazionali Universitari, una importante manifestazione che mancava da quarant’anni dalla nostra città, e che quest’anno, finalmente, dopo un grandioso ammodernamento di tutti gli impianti sportivi di proprietà dell’ateneo è stato possibile ospitare di nuovo. Roberto Boldrini e Antonio D’Agnelli ci offrono un dettagliato resoconto delle gare e di tutte le altre manifestazioni collaterali. In questo numero prevalentemente “sportivo”, Fulvia Donati ci parla poi del restauro e della ricollocazione dei calchi della Gipsoteca. Tra le copie delle diverse opere classiche abbandonate per anni nei magazzini, e adesso tornate al loro splendore nella cornice della chiesa di San Paolo all’Orto, c’è anche – guarda la coincidenza – il celebre discobolo di Mirone, un’icona dell’agonismo greco, passata poi in eredità allo sport moderno.
Il nostro discobolo, in realtà, non è semplicemente una copia; è una copia fedele, di un’altra copia di epoca romana, perché l’originale, in bronzo, che lo scultore realizzò presumibilmente per un santuario dedicato ad Apollo verso la metà del V secolo a. C. è andato perduto, forse fuso per ricavarne un cannone. La sua caratteristica, un po’ sconcertante per una statua che rappresenta il movimento di un atleta, è la sua assoluta fissità. Il discobolo è colto in un istante congelato nel tempo, immobile e eterno, senza alcuna introspezione psicologica: è pura fisicità, senza tensione, né vita. Il volto del discobolo – l’eroe Giacinto amato da Apollo – non tradisce sforzo, nessuna sofferenza. Luciano di Samosata – una delle fonti letterarie che autorizzano l’attribuzione dell’opera a Mirone – accenna al famoso discobolo in un dialogo contro la credulità e la superstizione, per contrapporlo appunto a un’altra statua, questa sì veramente straordinaria: aveva la terrificante facoltà di animarsi durante la notte. “Di quale statua parli?” chiede un personaggio del dialogo, “vuoi dire il discobolo, quello chinato nella posizione del lancio…”. “No, no: tu parli di una delle sculture di Mirone…” risponde l’altro. La statua prodigiosa rappresenta invece “un uomo panciuto, pelato… con qualche pelo della barba come scompigliato dal vento, con le vene in rilievo, che sembra proprio una persona viva!”
Tutt’altro che il discobolo. Una statua viva, come la Venere d’Ille del racconto di Prosper Mérimée. Anche qui ritorna, ma in versione perturbante, il rapporto tra archeologia e sport. Il letterato e sovrintendente ai beni archeologici racconta la sua visita a una famiglia del Rossiglione. Il padre, antiquario di provincia e visionario entusiasta, ha trovato una venere di bronzo tra le radici di un ulivo secolare. Il figlio, campione di pallacorda, sta per sposare la più bella e più gentile fanciulla del mondo, senza rendersi conto della fortuna che gli è capitata. È proprio il contrario del Don Giovanni mozartiano – altro personaggio che ha il suo bel daffare con una statua “viva”: nessuna arditezza intellettuale, nessuna passione per l’altro sesso, nessuna passione in generale, tranne quella per la pallacorda. Il campione si sposa solo per interesse, per la cospicua dote della bella. Finalmente arriva il giorno delle nozze; è tutto pronto, ma via… c’è ancora il tempo per una partita. Prima di scendere in campo lo sposo si toglie la fede che dovrà suggellare l’unione all’altare. Deve impugnare la racchetta, e quell’anello lo impaccia, così lo infila nel dito della Venere di bronzo che il padre ha collocato accanto alla siepe che delimita il campo di gioco. Sul basamento della statua un’iscrizione inquietante: CAVE AMANTEM. Il campione esce dal campo col lauro del vincitore, e naturalmente si dimentica l’anello, che sarà alla bell’e meglio sostituito da un altro anellino di poco prezzo, il pegno d’amore di una crestaia di Parigi, ricordo di un’avventura galante. Dopo le nozze, i festeggiamenti, con il rossore della sposa e le pesanti allusioni dei convitati a quel che di lì a poco dovrà succedere tra le lenzuola della camera nuziale. Passa la notte, e il sole si leva su un’alba tragica: il cameriere trova lo sposo nel letto privo di vita, soffocato da un abbraccio mortale, e la sposa in preda al delirio. Il medico non può credere al suo racconto: “dice di aver riconosciuto… indovinatelo un poco… la Venere di bronzo… da quando è qui tutti ne vanno fantasticando… Ma torno al racconto della povera demente. A quella vista smarrì la conoscenza, e forse che da qualche momento aveva anche smarrito la ragione. Non c’è modo che sappia dire quanto sia durato il suo svenimento. Tornata in sé, vide ancora il fantasma, o la statua, come si ostina a dire, ferma, con le gambe e la parte inferiore del corpo nel letto, il busto e le braccia protesi, e tra le braccia il marito esanime”. Qual è la morale di questo vagabondare tra sport e archeologia, atleti e statue? Beh, trovatevela un po’ da voi!
La Redazione