Contenuto principale della pagina Menu di navigazione Modulo di ricerca su uniPi Modulo di ricerca su uniPi

L’estratto dei germogli di Salicornia europaea è un rimedio per prevenire la steatosi epatica, conosciuta anche come “fegato grasso”, una condizione frequente e spesso asintomatica che però in alcuni casi può arrivare a compromettere l’organo e la sua funzionalità. A rivelare le virtù depurative di questa pianta mediterranea sempre più amata dagli chef è uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Antioxidants e condotto nell’ambito del progetto europeo HaloFarMs. Per la prima volta scienziati e scienziate hanno dimostrato che i germogli più giovani di salicornia hanno livelli significativamente più alti di composti bioattivi, come polifenoli totali, flavonoidi, flavonoli e antociani rispetto a quelli più vecchi.

“Alla luce di questi risultati, la salicornia emerge come un alimento prezioso da inserire nei pasti, soprattutto per coloro che soffrono di malattie cardiovascolari, disturbi epatici e steatosi”, commenta la professoressa Annamaria Ranieri dell’Università di Pisa.

samphire-4001104_1280.jpg

La salicornia è una pianta alofita, capace cioè di vivere in terreni salini e marginali in condizioni proibitive per la maggior parte della vegetazione. Qui la salicornia esercita una importantissima funzione ecologica: la sua capacità di estrarre i sali dal suolo serve infatti a contrastare l’impoverimento idrico dei terreni. Basti pensare che attualmente circa 18 milioni di ettari nel mondo, che corrispondono al 25% del totale delle terre irrigate nell’area Mediterranea e al 7% della superficie totale del pianeta, sono colpite dal fenomeno della salinità.

Oltre a questo fondamentale ruolo ecosistemico, la salicornia è quindi un alimento che può avere una funzione importante nella dieta – continua Ranieri – come emerge dalla nostra ricerca gli estratti di questa pianta testati su modelli animali evidenziando un recupero completo dalla steatosi epatica”.

Lo studio sulla salicornia si è svolto nell’ambito di HaloFarMs, un progetto finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dal Programma PRIMA, la Partnership per l’innovazione del settore idrico e agro-alimentare nell’area mediterranea promossa dall’Unione Europa con la partecipazione di 19 paesi

Alla base di HaloFarMs c’è l’idea di sviluppare e ottimizzare nuovi sistemi di agricoltura sostenibile basati sull'uso delle piante alofite. Oltre a desalinizzare il suolo, le alofite vengono studiate per impiegarle nell'industria cosmetica, alimentare e veterinaria. L'adozione da parte degli agricoltori dei risultati del progetto ha così l’obiettivo di diminuire la salinizzazione del suolo, aumentare le rese dei terreni senza esaurire le risorse di acqua dolce, e diversificare le fonti di reddito.

 

ugo faraguna copy copyQuattro mg al giorno tre ore prima di coricarsi: con questi tempi e con questa dose la melatonina è davvero efficace contro l’insonnia. La conclusione arriva da un nuovo studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sul prestigioso Journal of Pineal Research.

“Per la prima volta la nostra ricerca dà indicazioni precise su come usare efficacemente la melatonina per favorire il sonno – dice il professore Ugo Faraguna (foto) dell’Ateneo pisano che ha coordinato il lavoro – gli studi sinora condotti davano infatti risultati incoerenti; la nostra ipotesi è che dipendesse dallo schema di somministrazione, da una combinazione non fisiologica di orario e dosaggio”.

L’analisi condotta ha riguardato 26 studi randomizzati pubblicati tra il 1987 e il 2020, per un totale di 1689 osservazioni su pazienti con insonnia e volontari sani, che hanno valutato l'effetto della somministrazione di melatonina sul sonno.
“Rispetto alle indicazioni più utilizzate nella pratica clinica, ovvero 2 mg 30 minuti prima di coricarsi – continua Faraguna – i nostri risultati suggeriscono che per ottimizzare l’effetto della melatonina sia importante anticipare i tempi di somministrazione a 3 ore prima di coricarsi e aumentare la dose a 4 mg al giorno. Oltre ad esser anticipato, l’orario di somministrazione dovrebbe dunque essere personalizzato sulla base del ritmo sonno/veglia di ogni paziente, in modo da riprodurre la naturale produzione di melatonina nell’essere umano. Infatti, quando la melatonina viene somministrata secondo lo schema di trattamento da noi proposto, ottiene la sua massima efficacia esattamente quando la melatonina normalmente prodotta dal corpo umano viene rilasciata nel sangue”.

Insieme a Ugo Faraguna, professore associato presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, hanno firmato l’articolo come primi coautori Francy Cruz Sanabria e Simone Bruno, entrambi ex dottorandi dell’Ateneo pisano. Francy Cruz Sanabria attualmente lavora come assegnista di ricerca tra Università di Pisa e Fondazione Stella Maris di Pisa, mentre Simone è adesso negli Stati Uniti come Research Associate presso la University of Wisconsin-Madison.

“Oltre ai colleghi del nostro Ateneo, i professori Scarselli e e Frumento, – conclude Faraguna – tra i coautori vorrei sottolineare la presenza della professoressa Debra Skene dell’University of Surrey, la più grande esperta di melatonina a livello mondiale, che ha voluto essere coinvolta dopo che le avevamo inviato la prima bozza dell’articolo per una sua opinione; e del dottor Alessio Crippa, lo statistico del Karolinska Institutet di Stoccolma che per primo ha messo a punto la tecnica di analisi che abbiamo scelto per questo lavoro”.

 

 

Per difendere i terreni dalle erbe infestanti e ridurre l’uso di erbicidi c'è una tecnica che consiste nell'inoculare i funghi simbiotici sui semi delle cover crops, cioè le colture usate per proteggere i terreni dall’erosione e aumentare la sostanza organica. Al fine di promuovere questa pratica, ricercatori e ricercatrici dei laboratori di Microbiologia dell’Università di Pisa hanno riprodotto nelle serre del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali i funghi autoctoni di vari paesi europei da distribuire agli agricoltori. L’attività rientra nel progetto europeo GOOD (AGrOecOlogy for weeDs) che proprio a Pisa il 28 al 29 maggio scorsi ha riunito i vari partner per il primo meeting ufficiale.

“Gli scienziati arrivati a Pisa da undici paesi europei (Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Serbia, Spagna) hanno potuto visitare la nostra serra sperimentale dove si trovano oltre settanta vasi contenenti le piante “trappola” che utilizziamo per riprodurre i funghi simbiotici che poi vengono inoculati per incrementare l’abilità competitiva delle cover crops verso le erbe infestanti”, spiega la professoressa Alessandra Turrini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano.

I funghi simbiotici autoctoni riprodotti a Pisa saranno utilizzati per la concia del seme nei diversi living lab del progetto, dei veri e propri laboratori interattivi dove scienziati e scienziate portano avanti le ricerche insieme agli agricoltori.

L’obiettivo di GOOD è infatti trovare soluzioni innovative per gestire le erbe infestanti in Europa, aumentare la sostenibilità e resilienza degli agroecosistemi, promuovere la transizione agroecologica e ridurre la dipendenza dagli erbicidi, che rappresentano la seconda categoria di pesticidi più venduta in Europa.

Il meeting pisano è stato organizzato da docenti e staff del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Alessandra Turrini responsabile della Unità Operativa, Monica Agnolucci, Luciano Avio e Manuela Giovannetti, coadiuvati dai giovani collaboratori Matteo Bellanca, Eleonora Granata, Arianna Grassi e Irene Pagliarani.

 

 

 

Per difendere i terreni dalle erbe infestanti e ridurre l’uso di erbicidi c'è una tecnica che consiste nell'inoculare i funghi simbiotici sui semi delle cover crops, cioè le colture usate per proteggere i terreni dall’erosione e aumentare la sostanza organica. Al fine di promuovere questa pratica, ricercatori e ricercatrici dei laboratori di Microbiologia dell’Università di Pisa hanno riprodotto nelle serre del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali i funghi autoctoni di vari paesi europei da distribuire agli agricoltori. L’attività rientra nel progetto europeo GOOD (AGrOecOlogy for weeDs) che proprio a Pisa il 28 al 29 maggio scorsi ha riunito i vari partner per il primo meeting ufficiale.

foto_2 copia.jpg

I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds nella serra adibita alla riproduzione dei funghi simbionti autoctoni dei 16 Living Labs

“Gli scienziati arrivati a Pisa da undici paesi europei (Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Serbia, Spagna) hanno potuto visitare la nostra serra sperimentale dove si trovano oltre settanta vasi contenenti le piante “trappola” che utilizziamo per riprodurre i funghi simbiotici che poi vengono inoculati per incrementare l’abilità competitiva delle cover crops verso le erbe infestanti”, spiega la professoressa Alessandra Turrini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano.

I funghi simbiotici autoctoni riprodotti a Pisa saranno utilizzati per la concia del seme nei diversi living lab del progetto, dei veri e propri laboratori interattivi dove scienziati e scienziate portano avanti le ricerche insieme agli agricoltori.

L’obiettivo di GOOD è infatti trovare soluzioni innovative per gestire le erbe infestanti in Europa, aumentare la sostenibilità e resilienza degli agroecosistemi, promuovere la transizione agroecologica e ridurre la dipendenza dagli erbicidi, che rappresentano la seconda categoria di pesticidi più venduta in Europa.

I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds

Il meeting pisano è stato organizzato da docenti e staff del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Alessandra Turrini responsabile della Unità Operativa, Monica Agnolucci, Luciano Avio e Manuela Giovannetti, coadiuvati dai giovani collaboratori Matteo Bellanca, Eleonora Granata, Arianna Grassi e Irene Pagliarani.

 

 

 

TeamPic-.jpegPisa, 12 giugno 2024 - La sostenibilità può arrivare anche nello spazio grazie ad uno studio su nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”. La notizia arriva da uno studio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica e realizzato nell’ambito di ASCenSIon, un progetto europeo che ha visto la partecipazione di molti partner nazionali e internazionali, tra cui il Politecnico di Milano e Università La Sapienza di Roma in Italia, e numerose altre realtà in Germania, Francia, Belgio e Spagna. La ricerca pubblicata nell’articolo è stata svolta da Alberto Sarritzu sotto la supervisione del professore Angelo Pasini; il team del progetto all’Università di Pisa include anche la dottoranda Lily Blondel-Canepari.

“I nuovi propellenti “verdi” potranno certamente sostituire i propellenti tossici oggi prevalentemente usati – spiega Alberto Sarritzu – Questo permetterà da un lato di migliorare l’efficienza della propulsione e rendere possibili missioni che al momento non lo sono, dall’altro di semplificare le operazioni a terra in preparazione dei veicoli orbitali, che oggi sono lunghe, complicate e costose”.

Lo studio di propellenti verdi è uno sforzo internazionale che va avanti da decenni, con l’Università Pisa che negli anni ha ricoperto un ruolo chiave. I propellenti verdi sono generalmente composti chimici a basso impatto ambientale e tossicità, come acqua ossigenata ad alte concentrazioni o protossido d’azoto, comunemente conosciuto come anestetico. Rientrano tra questi anche il comune cherosene e altri idrocarburi, che rappresentano comunque un enorme passo avanti rispetto ai tradizionali composti utilizzati che invece contengono idrazina o tetrossido di azoto, sostanze estremamente tossiche e dannose per l’ambiente e la salute umana. La gestione di questi componenti è non solo potenzialmente dannosa per il personale coinvolto, ma anche estremamente costosa, per cui il settore da anni cerca di trovare delle valide alternative.

L’Ateneo, nell’ambito del progetto ASCenSIon, si è occupato di studiare sistemi propulsivi compatibili con i propellenti “verdi”. I sistemi propulsivi sono uno degli elementi più cruciali per il corretto funzionamento dei veicoli orbitali ed hanno un ruolo chiave per il successo delle missioni, regolando sia il movimento dei veicoli in orbita che il controllo d’assetto.

“La nuova classe di veicoli spaziali che abbiamo studiato promette di portare innovazioni che possono avere ricadute per tutti noi – sottolinea Angelo Pasini– come ad esempio un accesso più facile e sostenibile allo spazio, la rimozione attiva dei detriti spaziali causati da decenni di utilizzo incontrollato delle nostre orbite e lo sviluppo di nuove missioni per l’esplorazione spaziale”.

Alberto Sarritzu sta terminando il suo dottorato all’Università di Pisa. Ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo diversi anni di lavoro in multinazionali all’estero. Ha deciso di intraprendere la ricerca per avere un impatto sull’industria, in particolare per provare a rendere più sostenibile e attraente un ambito in forte crescita come quello dello spazio. Lily Blondel-Canepari è una studentessa di dottorato all’Università di Pisa. È laureata in fisica alla EPFL di Losanna in Svizzera e ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo aver lavorato presso il CERN e precedentemente l’Agenzia Spaziale Europea. Il suo lavoro è improntato sulla ricerca di una nuova definizione all’aggettivo “verde” per quanto riguarda i propellenti spaziali in modo da valutare il reale impatto delle scelte future. Angelo Pasini è ricercatore di propulsione aerospaziale al dipartimento di ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa dal 2016. Prima di intraprendere la carriera accademica, ha lavorato per oltre dieci anni nel settore della propulsione verde, inizialmente presso l’azienda ALTA, spin-off dell’università, e successivamente presso l’azienda Sitael.

Nella foto, da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini

TeamPic-.jpegPisa, 12 giugno 2024 - La sostenibilità può arrivare anche nello spazio grazie ad uno studio su nuova classe di veicoli orbitali che per muoversi nello spazio utilizzano propellenti “verdi”. La notizia arriva da uno studio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Acta Astronautica e realizzato nell’ambito di ASCenSIon, un progetto europeo che ha visto la partecipazione di molti partner nazionali e internazionali, tra cui il Politecnico di Milano e Università La Sapienza di Roma in Italia, e numerose altre realtà in Germania, Francia, Belgio e Spagna. La ricerca pubblicata nell’articolo è stata svolta da Alberto Sarritzu sotto la supervisione del professore Angelo Pasini; il team del progetto all’Università di Pisa include anche la dottoranda Lily Blondel-Canepari.

“I nuovi propellenti “verdi” potranno certamente sostituire i propellenti tossici oggi prevalentemente usati – spiega Alberto Sarritzu – Questo permetterà da un lato di migliorare l’efficienza della propulsione e rendere possibili missioni che al momento non lo sono, dall’altro di semplificare le operazioni a terra in preparazione dei veicoli orbitali, che oggi sono lunghe, complicate e costose”.

Lo studio di propellenti verdi è uno sforzo internazionale che va avanti da decenni, con l’Università Pisa che negli anni ha ricoperto un ruolo chiave. I propellenti verdi sono generalmente composti chimici a basso impatto ambientale e tossicità, come acqua ossigenata ad alte concentrazioni o protossido d’azoto, comunemente conosciuto come anestetico. Rientrano tra questi anche il comune cherosene e altri idrocarburi, che rappresentano comunque un enorme passo avanti rispetto ai tradizionali composti utilizzati che invece contengono idrazina o tetrossido di azoto, sostanze estremamente tossiche e dannose per l’ambiente e la salute umana. La gestione di questi componenti è non solo potenzialmente dannosa per il personale coinvolto, ma anche estremamente costosa, per cui il settore da anni cerca di trovare delle valide alternative.

L’Ateneo, nell’ambito del progetto ASCenSIon, si è occupato di studiare sistemi propulsivi compatibili con i propellenti “verdi”. I sistemi propulsivi sono uno degli elementi più cruciali per il corretto funzionamento dei veicoli orbitali ed hanno un ruolo chiave per il successo delle missioni, regolando sia il movimento dei veicoli in orbita che il controllo d’assetto.

“La nuova classe di veicoli spaziali che abbiamo studiato promette di portare innovazioni che possono avere ricadute per tutti noi – sottolinea Angelo Pasini– come ad esempio un accesso più facile e sostenibile allo spazio, la rimozione attiva dei detriti spaziali causati da decenni di utilizzo incontrollato delle nostre orbite e lo sviluppo di nuove missioni per l’esplorazione spaziale”.

Alberto Sarritzu sta terminando il suo dottorato all’Università di Pisa. Ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo diversi anni di lavoro in multinazionali all’estero. Ha deciso di intraprendere la ricerca per avere un impatto sull’industria, in particolare per provare a rendere più sostenibile e attraente un ambito in forte crescita come quello dello spazio. Lily Blondel-Canepari è una studentessa di dottorato all’Università di Pisa. È laureata in fisica alla EPFL di Losanna in Svizzera e ha preso parte al progetto ASCenSIon dopo aver lavorato presso il CERN e precedentemente l’Agenzia Spaziale Europea. Il suo lavoro è improntato sulla ricerca di una nuova definizione all’aggettivo “verde” per quanto riguarda i propellenti spaziali in modo da valutare il reale impatto delle scelte future. Angelo Pasini è ricercatore di propulsione aerospaziale al dipartimento di ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa dal 2016. Prima di intraprendere la carriera accademica, ha lavorato per oltre dieci anni nel settore della propulsione verde, inizialmente presso l’azienda ALTA, spin-off dell’università, e successivamente presso l’azienda Sitael.

Nella foto, da sinistra verso destra Lily Blondel-Canepari, Alberto Sarritzu, Angelo Pasini

Lunedì 10 giugno alle 11 una task force coordinata dalla professoressa Francesca Modugno del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa eseguirà un intervento diagnostico sul murale “Tuttomondo” di Keith Haring a Pisa. L'inizitativa è in collaborazione con l’Ufficio Cultura del Comune di Pisa e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno.

L’obiettivo è quello di valutare lo stato di conservazione dell’opera e del film protettivo applicato in superficie nell’ultimo intervento di restauro del 2015. Le analisi testeranno inoltre il grado di impermeabilità del murale e lo stato di conservazione. Il team eseguirà esami spettroscopici non invasivi e preleverà alcuni microcampioni superficiali per analisi di laboratorio mirate.

“Le indagini sono necessarie per monitorare la stabilità e lo stato dell’opera nel tempo e per contribuire a pianificare strategie efficaci e sostenibili di conservazione attiva e preventiva - spiega Francesca Modugno - I risultati saranno messi a disposizione del Comune di Pisa e della Soprintendenza, Tuttomondo è un'opera unica, storicizzata e tutelata, che merita cura e monitoraggio, al fine di evitare costosi interventi futuri”.

Al lavoro sul murale insieme a Francesca Modugno ci saranno Jacopo La Nasa, Ilaria Degano e Tommaso Nacci del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Ateneo pisano, Stefano Legnaioli e Beatrice Campanella, ricercatori dell’Istituto di Chimica dei Composti Organometallici di Pisa, il restauratore che hanno eseguito l’intervento nel 2015 Antonio Rava, e un gruppo di esperti dal Politecnico di Milano che include le professoresse Lucia Toniolo e Sara Goidanich, oltre alle restauratrici della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno Ilaria Barbetti, Elena Salotti ed Eva Pianini.

L’intervento su Tuttomondo si svolge nell’ambito del progetto PRIN2020 SuPerStAr dell’Università di Pisa coordinato dalla stessa Professoressa Modugno e finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. SuPerStAr (Sustainable Preservation strategies for Street Art) punta a sviluppare una serie di buone pratiche e linee guida per preservare le opere di street art nell’originario contesto urbano in cui si trovano.

Keith Haring, uno dei più famosi artisti del Neo Pop, realizzò Tuttomondo nel giugno del 1989. Si tratta dell'ultima opera pubblica dell'artista statunitense prima della sua morte, nonché l'unica pensata per essere permanente. Ecco qui una breve storia della genesi del murale.
Il soggiorno a Pisa di Haring si deve all’interesse dell’allora diciannovenne Piergiorgio Castellani, uno studente pisano capitato a New York per una vacanza in compagnia del padre. Piergiorgio, appassionato di Pop Art, s’imbatté fortunosamente in Keith Haring. I due fecero amicizia e il giovane studente convinse l’artista a recarsi in Italia per la realizzazione di un’opera che fosse per tutti. La prima opzione che venne loro presentata per l’esecuzione del grande affresco fu la facciata di un edificio periferico della città di Firenze, opzione che i due rifiutarono in quanto, secondo loro, l’opera doveva collocarsi al centro della vita delle persone. Si accordarono quindi con il sindaco e la giunta comunale della città di Pisa. La parete individuata fu quella posteriore del Convento dei Frati Servi di Maria, dietro alla chiesa di Sant’Antonio Abate: 180 metri quadrati, 10 in lunghezza e 18 d’altezza. Dopo aver ricevuto un l’assenso del parroco della chiesa, Haring, con l’aiuto di Piergiorgio ed altri studenti pisani, cominciò i lavori che portano alla realizzazione di Tuttomondo.

 

Lunedì 10 giugno alle 11 una task force coordinata dalla professoressa Francesca Modugno del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa eseguirà un intervento diagnostico sul murale “Tuttomondo” di Keith Haring a Pisa. L'inizitiva è in collaborazione con l’Ufficio Cultura del Comune di Pisa e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno.

L’obiettivo è quello di valutare lo stato di conservazione dell’opera e del film protettivo applicato in superficie nell’ultimo intervento di restauro del 2015. Le analisi testeranno inoltre il grado di impermeabilità del murale e lo stato di conservazione. Il team eseguirà esami spettroscopici non invasivi e preleverà alcuni microcampioni superficiali per analisi di laboratorio mirate.

 

Tuttomondo ,_Pisa_(26405323320).jpg

 

“Le indagini sono necessarie per monitorare la stabilità e lo stato dell’opera nel tempo e per contribuire a pianificare strategie efficaci e sostenibili di conservazione attiva e preventiva - spiega Francesca Modugno - I risultati saranno messi a disposizione del Comune di Pisa e della Soprintendenza, Tuttomondo è un'opera unica, storicizzata e tutelata, che merita cura e monitoraggio, al fine di evitare costosi interventi futuri”.

Al lavoro sul murale insieme a Francesca Modugno ci saranno Jacopo La Nasa, Ilaria Degano e Tommaso Nacci del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Ateneo pisano, Stefano Legnaioli e Beatrice Campanella, ricercatori dell’Istituto di Chimica dei Composti Organometallici di Pisa, il restauratore che hanno eseguito l’intervento nel 2015 Antonio Rava, e un gruppo di esperti dal Politecnico di Milano che include le professoresse Lucia Toniolo e Sara Goidanich, oltre alle restauratrici della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno Ilaria Barbetti, Elena Salotti ed Eva Pianini.

L’intervento su Tuttomondo si svolge nell’ambito del progetto PRIN2020 SuPerStAr dell’Università di Pisa coordinato dalla stessa Professoressa Modugno e finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. SuPerStAr (Sustainable Preservation strategies for Street Art) punta a sviluppare una serie di buone pratiche e linee guida per preservare le opere di street art nell’originario contesto urbano in cui si trovano.

Keith Haring, uno dei più famosi artisti del Neo Pop, realizzò Tuttomondo nel giugno del 1989. Si tratta dell'ultima opera pubblica dell'artista statunitense prima della sua morte, nonché l'unica pensata per essere permanente. Ecco qui una breve storia della genesi del murale.
Il soggiorno a Pisa di Haring si deve all’interesse dell’allora diciannovenne Piergiorgio Castellani, uno studente pisano capitato a New York per una vacanza in compagnia del padre. Piergiorgio, appassionato di Pop Art, s’imbatté fortunosamente in Keith Haring. I due fecero amicizia e il giovane studente convinse l’artista a recarsi in Italia per la realizzazione di un’opera che fosse per tutti. La prima opzione che venne loro presentata per l’esecuzione del grande affresco fu la facciata di un edificio periferico della città di Firenze, opzione che i due rifiutarono in quanto, secondo loro, l’opera doveva collocarsi al centro della vita delle persone. Si accordarono quindi con il sindaco e la giunta comunale della città di Pisa. La parete individuata fu quella posteriore del Convento dei Frati Servi di Maria, dietro alla chiesa di Sant’Antonio Abate: 180 metri quadrati, 10 in lunghezza e 18 d’altezza. Dopo aver ricevuto un l’assenso del parroco della chiesa, Haring, con l’aiuto di Piergiorgio ed altri studenti pisani, cominciò i lavori che portano alla realizzazione di Tuttomondo.

------------

(Crediti immagine: This image was originally posted to Flickr by Dimitris Kamaras. It was reviewed on 19 May 2022 by FlickreviewR 2 and was confirmed to be licensed under the terms of the cc-by-2.0).

 

Il magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson della University of Iceland e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.

La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.

Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.

“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa - nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.

Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD alla University of Iceland dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso la University of Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.
Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).

Foto: Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar

IPagli_Larosa.jpgl magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson della University of Iceland e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.

La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.

Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.

“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa - nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.

Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD alla University of Iceland dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso la University of Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.
Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).

Foto: Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar

Pagina 1 di 29

Questo sito utilizza solo cookie tecnici, propri e di terze parti, per il corretto funzionamento delle pagine web e per il miglioramento dei servizi. Se vuoi saperne di più, consulta l'informativa