Controlled drought can increase the yield of rosemary essential oil by up to 30%, making this plant an ideal candidate for the enhancement of marginal agricultural land and land with limited water availability. This is the result of a study carried out by the University of Pisa, the National Institute of Optics INO-CNR Pisa, the Scuola Superiore Sant’Anna and the University of Catania, which has been published in the magazine Industrial Crops and Products. The experiments were conducted in Sicily, on farms in the province of Ragusa, between autumn 2022 and spring 2023.
“Rosemary is a medicinal and aromatic plant native to the Mediterranean that produces essential oils known for their antimicrobial, antioxidant, anti-tumour and anti-inflammatory properties,” explains Professor Celia Duce from the Department of Chemistry and Industrial Chemistry of the University of Pisa. “Under stressful conditions, particularly abiotic stresses such as drought, the production of essential oils increases as a defensive mechanism.”
Researcher of the University of Catania and first author of the paper, Valentina Formica working in the lab
The trials were planned together with the farmers, who selected the fields to be tested and the varieties of rosemary to be used. Two different varieties were tested, “Tuscan blue” and “Barbecue”. Water stress was applied for three weeks before harvesting, i.e. during the autumn and spring balsamic period, a crucial phase when the synthesis and concentration of essential oils reaches its peak.
The result was an increase in yield of up to 30% in plants of the “Tuscan blue” variety grown on a farm in the Scicli area. Water stress also significantly altered the chemical composition of the essential oils, leading to changes that are crucial for the industry as they can improve the aromatic profile and bioactive properties of the oils.
“The study is part of a larger project called InSole – Agronomic and Technological Innovations for the Sustainable Cultivation of Medicinal Plants and the Production of Quality Essential Oils – funded by Sicily RDP 2014-2022, which aims to create a sustainable supply chain for the production of essential oils in Sicily, helping farmers to adopt agricultural practices that optimise the use of resources, especially water,” concludes Federico Leoni, researcher at the Scuola Superiore Sant’Anna. “The main idea is that by applying a moderate water stress close to the balsamic period, the concentration and quality of essential oils in rosemary plants can be increased, without significantly affecting the biomass yield.”
La siccità controllata può aumentare sino al 30 per cento la resa di olio essenziale del rosmarino rendendo questa pianta una candidata ideale per la valorizzazione di terreni agricoli marginali e con limitata disponibilità idrica. Il risultato arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Industrial Crops and Products e realizzato dall’Università di Pisa, dall’Istituto Nazionale di Ottica INO-CNR Pisa, dalla Scuola Superiore Sant’Anna e dall’Università Catania. Le sperimentazioni sono state condotte in Sicilia, in aziende agricole della provincia di Ragusa, tra l’autunno del 2022 e la primavera del 2023.
“Il rosmarino è una pianta medicinale e aromatica autoctona del mediterraneo che produce oli essenziali noti per le loro proprietà antimicrobiche, antiossidanti, antitumorali e antinfiammatorie – spiega la professoressa Celia Duce del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa - Sottoposto a condizioni di stress, in particolare stress abiotici, come la siccità, intensifica la produzione di oli essenziali come meccanismo difensivo".
Valentina Formica dell'Università di Catania, prima autrice del paper, in laboratorio
Le sperimentazioni sono state pianificate insieme agli agricoltori, i quali hanno scelto i campi da destinare alle sperimentazioni e le varietà di rosmarino da utilizzare. Sono state testate due diverse varietà di rosmarino, la ‘Tuscan blue’ e la ‘Barbecue’. Lo stress idrico è stato applicato per tre settimane prima della raccolta ovvero durante il periodo balsamico autunnale e primaverile, una fase cruciale in cui la sintesi e concentrazione degli oli essenziali raggiungono il picco.
Il risultato è stato un aumento della resa sino al 30% nelle piante della varietà ‘Tuscan blue’ coltivate in un’azienda del comune di Scicli. Lo stress idrico ha inoltre modificato significativamente la composizione chimica degli oli essenziali, cambiamenti cruciali per l'industria, poiché possono migliorare il profilo aromatico e le proprietà bioattive.
“Lo studio è parte di un progetto più ampio chiamato InSole - Innovazioni agronomiche e tecnologiche per la coltivazione sostenibile di piante officinali e la produzione di Oli essenziali di qualità, finanziato dal Programma di sviluppo rurale Sicilia 2014-2022, il cui obiettivo è creare una filiera sostenibile per la produzione di oli essenziali, supportando gli agricoltori nell'adozione di pratiche agricole che ottimizzano l'uso delle risorse, in particolare l'acqua - conclude Federico Leoni, assegnista di ricerca della Scuola Superiore Sant’Anna - L'idea principale è che tramite l’applicazione di uno stress idrico moderato in prossimità al periodo balsamico possa aumentare la concentrazione e la qualità degli oli essenziali nel rosmarino, senza compromettere in modo significativo la resa in biomassa”.
193 docenti dell’Università di Pisa sono nel il top 2% di scienziati e scienziate più citati (e quindi influenti) al mondo. La lista viene stilata annualmente dai ricercatori di Stanford, in collaborazione con Elsevier-Scopus, aggiornando una lista di 100mila persone che formano il top 2% in 176 discipline e considerando la loro carriera negli ultimi 15 anni.
“L’elenco può essere usato per avere un colpo d’occhio della situazione attuale in Italia in particolare per le aree Matematica, scienze fisiche, informazione e comunicazione, ingegneria, scienze della terra e dell'universo e Scienze della vita – spiega il professore Giuseppe Iannaccone, prorettore vicario dell’Ateneo pisano - quello che emerge è una buona della qualità del sistema universitario nazionale che presenta differenze relativamente piccole tra gli estremi della lista”.
Entrando più in dettaglio per l’Università di Pisa, ci sono nove dipartimenti con almeno il 10% di docenti nella top2%, in rapporto ai docenti a tempo indeterminato: Ingegneria dell’informazione (27,2%), Informatica (26,4%), Farmacia (21,8%), Ingegneria civile e industriale (18,4%), Fisica (15,9%), Medicina clinica e sperimentale (15,1%), Ingegneria dell'energia, dei sistemi, del territorio e delle costruzioni (14,8%), Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica (11,8%), Chimica e Chimica industriale (11,1%). Sono inoltre presenti 2 docenti nel settore delle Scienze umane e sociali, sebbene nella valutazione della ricerca in Italia queste aree non siano soggette a parametri bibliometrici.
“Analizzando i dati e considerando gli atenei con un corpo docente con più di 400 persone, emerge che l’Università di Pisa è seconda in Italia dopo Padova se guardiamo il rapporto fra docenti presenti nella lista e il totale dei docenti a tempo indeterminato nei settori ERC “Life sciences” e “Physics and Engineering Sciences”, cioè le aree CUN dalla 1 alla 9 – spiega Iannaccone - Per quanto riguarda i numeri assoluti bisogna inoltre sottolineare che la classifica Stanford-Elsevier valuta l’attività degli ultimi 15 anni, ma non distingue lo stato di servizio. Dei 193 ricercatori dell’Ateneo pisano presenti nella lista, 66 non sono più in servizio, mentre 2 vanno aggiunti perché presenti con un’affiliazione diversa, facendo dunque una fotografia in tempo reale ne abbiamo in servizio 129”.
193 docenti dell’Università di Pisa sono nel il top 2% di scienziati e scienziate più citati (e quindi influenti) al mondo. La lista viene stilata annualmente dai ricercatori di Stanford, in collaborazione con Elsevier-Scopus, aggiornando una lista di 100mila persone che formano il top 2% in 176 discipline e considerando la loro carriera negli ultimi 15 anni.
“L’elenco può essere usato per avere un colpo d’occhio della situazione attuale in Italia in particolare per le aree Matematica, scienze fisiche, informazione e comunicazione, ingegneria, scienze della terra e dell'universo e Scienze della vita – spiega il professore Giuseppe Iannaccone, prorettore vicario dell’Ateneo pisano - quello che emerge è una buona della qualità del sistema universitario nazionale che presenta differenze relativamente piccole tra gli estremi della lista”.
Entrando più in dettaglio per l’Università di Pisa, ci sono nove dipartimenti con almeno il 10% di docenti nella top2%, in rapporto ai docenti a tempo indeterminato: Ingegneria dell’informazione (27,2%), Informatica (26,4%), Farmacia (21,8%), Ingegneria civile e industriale (18,4%), Fisica (15,9%), Medicina clinica e sperimentale (15,1%), Ingegneria dell'energia, dei sistemi, del territorio e delle costruzioni (14,8%), Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica (11,8%), Chimica e Chimica industriale (11,1%). Sono inoltre presenti 2 docenti nel settore delle Scienze umane e sociali, sebbene nella valutazione della ricerca in Italia queste aree non siano soggette a parametri bibliometrici.
“Analizzando i dati e considerando gli atenei con un corpo docente con più di 400 persone, emerge che l’Università di Pisa è seconda in Italia dopo Padova se guardiamo il rapporto fra docenti presenti nella lista e il totale dei docenti a tempo indeterminato nei settori ERC “Life sciences” e “Physics and Engineering Sciences”, cioè le aree CUN dalla 1 alla 9 – spiega Iannaccone - Per quanto riguarda i numeri assoluti bisogna inoltre sottolineare che la classifica Stanford-Elsevier valuta l’attività degli ultimi 15 anni, ma non distingue lo stato di servizio. Dei 193 ricercatori dell’Ateneo pisano presenti nella lista, 66 non sono più in servizio, mentre 2 vanno aggiunti perché presenti con un’affiliazione diversa, facendo dunque una fotografia in tempo reale ne abbiamo in servizio 129”.
I delfini sono giocherelloni e si sa, la scoperta è che quando giocano fra loro ridono pure. Una nuova ricerca, appena pubblicata sulla rivista Cell Press iScience e condotta dall’Università di Pisa, ha dimostrato infatti per la prima volta che questi animali (nome scientifico Tursiops truncatus) usano una particolare espressione facciale a “bocca aperta”, analoga alla risata di altre specie di mammiferi, nelle loro interazioni ludiche.
“Nel corso del nostro studio non solo abbiamo osservato questa espressione facciale, ma abbiamo anche dimostrato che i delfini sono in grado replicarla - spiega la professoressa Elisabetta Palagi dell'Ateno pisano che ha coordinato il team di ricerca internazionale - infatti quando vedono la “risata” di un loro simile la ricambiano una volta su tre”.
Il gioco dei delfini può includere acrobazie, surf, giochi con gli oggetti, inseguimenti e combattimenti, ed è importante che queste attività non vengano fraintese con atti di aggressioni.
“Il gesto della bocca aperta si è probabilmente evoluto dall'azione del mordere, interrompendo la sequenza del morso per lasciare solo l'“intenzione di mordere” senza contatto” - continua Palagi - “La bocca aperta rilassata, che si vede nei mammiferi, dai carnivori, ai primati, uomo incluso, è un segno universale di giocosità, che aiuta i giocatori a evitare che un gioco di lotta vada incontro a una escalation conflittuale”.
Nel corso dello studio, ricercatrici e ricercatori hanno registrato i tursiopi in cattività mentre giocavano in coppia e mentre giocavano liberamente con i loro addestratori umani. È risultato che i delfini usano spesso l’espressione a bocca aperta quando giocano con altri delfini, ma meno frequentemente quando giocano con gli umani o da soli, in quest’ultimo caso la risata è stata rilevata un’unica volta. In totale sono stati registrati 1288 casi di “bocca aperta” durante le sessioni di gioco. I delfini erano poi più propensi a “ridere” quando si trovavano nel campo visivo del compagno di gioco - l'89% delle espressioni a bocca aperta registrate sono state emesse in questo contesto - e quando questa espressione è stato percepita è stata ricambiata il 33% delle volte.
“Alcuni potrebbero obiettare che i delfini imitano le espressioni a bocca aperta dei loro simili per puro caso, ma questo non spiegherebbe velocità e frequenza di reazione, il comportamento imitativo arriva infatti entro un secondo e si verifica 13 volte di più quando c’è un contatto visivo”, spiega Veronica Maglieri, assegnista di ricerca dell’Ateneo pisano - “Questo comportamento dei delfini è inoltre molto simile con quanto osservato in altri carnivori, come le manguste e gli orsi malesi”.
“Comunicare con la faccia durante il gioco è importante anche in animali acquatici – conclude Palagi – Questo aspetto è stato finora largamente trascurato nei mammiferi marini. La maggior parte degli studi si concentra su comportamenti più funzionali della comunicazione, come il coordinamento sociale o la caccia, mentre il gioco viene spesso considerato un comportamento secondario. In più, mentre molti studi sui delfini si sono focalizzati sulla comunicazione acustica (ad esempio, i fischi e i suoni emessi sott'acqua) questa ricerca esplora il ruolo della comunicazione visiva, mettendo in luce l'importanza delle espressioni facciali e ampliando così la comprensione delle molteplici modalità comunicative dei delfini che appaiono più integrate di quello che si pensava in precedenza”.
Per l’unità di Etologia del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, ha condotto lo studio la professoressa Elisabetta Palagi insieme a Veronica Maglieri e a Federica Vantaggio, studentessa magistrale. Hanno inoltre collaborato i professori Livio Favaro dell’Università di Torino e Alban Lemasson dell’Università di Rennes (Francia). Infine, il parco Zoomarine Italia, con la dottoressa Cristina Pilenga, e quello di Planete Sauvage (Francia), con il dottor Martin Boye hanno ospitato la parte sperimentale e contribuito alla parte tecnica.
Crediti foto: ZooMarine, Italia
Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa ha identificato un nuovo periodo climatico del nostro pianeta denominato “Ophiuroid Optimum” che va dal 50 al 450 d.C.
Lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports è stato condotto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo. Ricercatori e ricercatrici hanno analizzato una carota di sedimento marino raccolta ad una profondità di 462 m sotto il livello del mare nell’Edisto Inlet, un fiordo nel Mare di Ross occidentale in Antartide. Lo studio della carota ha consentito di ricostruire la storia climatica della Terra negli ultimi 3600 anni evidenziando anche periodi già noti come il caldo medievale, fra il 950 e il 1250 d.C., e la piccola età glaciale, dal 1300 sino al 1850 d.C..
Durante l'intervallo di tempo denominato “Ophiuroid Optimum”, nell’area antartica dell’Edisto Inlet, si sono susseguite estati australi caratterizzate dall’assenza di ghiaccio marino ed importanti fioriture algali. Il persistere nel tempo di questa stabilità ambientale ha permesso di sviluppare un’importante comunità bentonica ricca in stelle serpentine.
“Questa carota di sedimento ci ha consentito di effettuare degli studi paleoecologici e paleoclimatici ad altissima risoluzione – spiega Giacomo Galli, laureato a Pisa e ora dottorando fra gli Atenei di Pisa e Ca’ Foscari Venezia – questo perché è in gran parte fatta di fango costituito principalmente da diatomee, cioè piccole alghe unicellulari con guscio siliceo, a cui si aggiungono foraminiferi che sono organismi unicellulari con guscio che può fossilizzare, e resti di ofiure, cioè animali noti con il nome di stelle serpentine, echinodermi simili alle stelle marine. In particolare, gli abbondanti resti fossili delle stelle serpentine hanno permesso di identificare e caratterizzare il nuovo periodo climatico. Durante questa fase climatica, per circa 400 anni, la baia si è aperta regolarmente durante l’estate australe permettendo la riproduzione delle alghe (diatomee) che hanno fornito il nutrimento per gli organismi viventi sul fondo della baia. Le ofiure hanno tratto giovamento da questa situazione ambientale, riproducendosi in gran numero".
.
“La presenza delle calotte di ghiaccio e del ghiaccio marino sul nostro Pianeta ha una fortissima ricaduta sul clima – aggiunge la professoressa Caterina Morigi dell’Università di Pisa - Dal momento che la nostra comprensione del clima presente, nonché la possibilità di modellare quello futuro, è possibile solo grazie ai dati che derivano dalle informazioni sul clima del passato, ogni tassello che ci aiuta a comprendere meglio la storia climatica del nostro Pianeta ha enormi implicazione nell’aiutarci a capire come questa si evolverà nel prossimo futuro”.
Hanno partecipato alla ricerca per il dipartimento della di Scienze della terra dell’Università di Pisa Giacomo Galli, Caterina Morigi, responsabile di vari progetti per la ricerca in Antartide (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, PNRA) ed in Artide (Programma di Ricerca in Artico, PRA) e Karen Gariboldi, ricercatrice esperta di diatomee. Fra gli altri autori Ben Thuy, ricercatore presso il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo, uno dei maggiori esperti di ofiuroidi fossili al mondo.
Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa ha identificato un nuovo periodo climatico del nostro pianeta denominato “Ophiuroid Optimum” che va dal 50 al 450 d.C.
Lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports è stato condotto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo. Ricercatori e ricercatrici hanno analizzato una carota di sedimento marino raccolta ad una profondità di 462 m sotto il livello del mare nell’Edisto Inlet, un fiordo nel Mare di Ross occidentale in Antartide. Lo studio della carota ha consentito di ricostruire la storia climatica della Terra negli ultimi 3600 anni evidenziando anche periodi già noti come il caldo medievale, fra il 950 e il 1250 d.C., e la piccola età glaciale, dal 1300 sino al 1850 d.C..
Durante l'intervallo di tempo denominato “Ophiuroid Optimum”, nell’area antartica dell’Edisto Inlet, si sono susseguite estati australi caratterizzate dall’assenza di ghiaccio marino ed importanti fioriture algali. Il persistere nel tempo di questa stabilità ambientale ha permesso di sviluppare un’importante comunità bentonica ricca in stelle serpentine.
“Questa carota di sedimento ci ha consentito di effettuare degli studi paleoecologici e paleoclimatici ad altissima risoluzione – spiega Giacomo Galli, laureato a Pisa e ora dottorando fra gli Atenei di Pisa e Ca’ Foscari Venezia – questo perché è in gran parte fatta di fango costituito principalmente da diatomee, cioè piccole alghe unicellulari con guscio siliceo, a cui si aggiungono foraminiferi che sono organismi unicellulari con guscio che può fossilizzare, e resti di ofiure, cioè animali noti con il nome di stelle serpentine, echinodermi simili alle stelle marine. In particolare, gli abbondanti resti fossili delle stelle serpentine hanno permesso di identificare e caratterizzare il nuovo periodo climatico. Durante questa fase climatica, per circa 400 anni, la baia si è aperta regolarmente durante l’estate australe permettendo la riproduzione delle alghe (diatomee) che hanno fornito il nutrimento per gli organismi viventi sul fondo della baia. Le ofiure hanno tratto giovamento da questa situazione ambientale, riproducendosi in gran numero".
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“La presenza delle calotte di ghiaccio e del ghiaccio marino sul nostro Pianeta ha una fortissima ricaduta sul clima – aggiunge la professoressa Caterina Morigi dell’Università di Pisa - Dal momento che la nostra comprensione del clima presente, nonché la possibilità di modellare quello futuro, è possibile solo grazie ai dati che derivano dalle informazioni sul clima del passato, ogni tassello che ci aiuta a comprendere meglio la storia climatica del nostro Pianeta ha enormi implicazione nell’aiutarci a capire come questa si evolverà nel prossimo futuro”.
Hanno partecipato alla ricerca per il dipartimento della di Scienze della terra dell’Università di Pisa Giacomo Galli, Caterina Morigi, responsabile di vari progetti per la ricerca in Antartide (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, PNRA) ed in Artide (Programma di Ricerca in Artico, PRA) e Karen Gariboldi, ricercatrice esperta di diatomee. Fra gli altri autori Ben Thuy, ricercatore presso il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo, uno dei maggiori esperti di ofiuroidi fossili al mondo.
L’Università di Pisa fa parte del partenariato esteso “Space it up” varato nell’ambito del PNRR e finanziato con 80 milioni di euro dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). Costituito da 33 soggetti, tra cui università, centri di ricerca e aziende, Space It Up è coordinato dal Politecnico di Torino con l’obiettivo è di promuovere la collaborazione e l'innovazione nel settore spaziale con centinaia di ricercatori che saranno impiegati su nove linee di ricerca o “spoke”.
In particolare, l’Università di Pisa partecipa a quattro linee di ricerca: lo spoke 1, di cui è anche co-leader, riguarda lo sviluppo di tecnologie trasversali per missioni satellitari per la protezione e lo sviluppo sostenibile del Pianeta e di esplorazione planetaria; lo spoke 4 dedicato alla progettazione e allo sviluppo di nuovi strumenti di misura miniaturizzati e di alta precisione per missioni satellitari che osservano le radiazioni ionizzanti attorno alla Terra e i serbatoi d'acqua sul pianeta; lo spoke 5, che studia la mitigazione dei rischi naturali e geologici della Terra attraverso le osservazioni spaziali; e lo spoke 9 che esplora la possibilità di viaggiare nello spazio e la permanenza sui corpi celesti extraterrestri, in particolare la Luna e Marte.
"Nelle ricerche sono coinvolti i tre dipartimenti di Ingegneria dell’Ateneo insieme a quelli di Fisica, Matematica, Scienze della Terra e i dipartimenti dell’Area Medica – dice la professoressa Maria Vittoria Salvetti direttrice di Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale che ha coordinato le attività per Unipi - gli obiettivi ci siamo posti sono tra i più sfidanti per garantire un futuro alle prossime generazioni, parliamo ad esempio di promuovere un futuro sostenibile grazie alle tecnologie spaziali che consentono di osservare i cambiamenti climatici e di prevedere gli eventi meteorologici estremi o di garantire la permanenza umana a lungo termine nello spazio extraterrestre per andare verso una società “multiplanetaria”.
L’estratto dei germogli di Salicornia europaea è un rimedio per prevenire la steatosi epatica, conosciuta anche come “fegato grasso”, una condizione frequente e spesso asintomatica che però in alcuni casi può arrivare a compromettere l’organo e la sua funzionalità. A rivelare le virtù depurative di questa pianta mediterranea sempre più amata dagli chef è uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Antioxidants e condotto nell’ambito del progetto europeo HaloFarMs. Per la prima volta scienziati e scienziate hanno dimostrato che i germogli più giovani di salicornia hanno livelli significativamente più alti di composti bioattivi, come polifenoli totali, flavonoidi, flavonoli e antociani rispetto a quelli più vecchi.
“Alla luce di questi risultati, la salicornia emerge come un alimento prezioso da inserire nei pasti, soprattutto per coloro che soffrono di malattie cardiovascolari, disturbi epatici e steatosi”, commenta la professoressa Annamaria Ranieri dell’Università di Pisa.
La salicornia è una pianta alofita, capace cioè di vivere in terreni salini e marginali in condizioni proibitive per la maggior parte della vegetazione. Qui la salicornia esercita una importantissima funzione ecologica: la sua capacità di estrarre i sali dal suolo serve infatti a contrastare l’impoverimento idrico dei terreni. Basti pensare che attualmente circa 18 milioni di ettari nel mondo, che corrispondono al 25% del totale delle terre irrigate nell’area Mediterranea e al 7% della superficie totale del pianeta, sono colpite dal fenomeno della salinità.
“Oltre a questo fondamentale ruolo ecosistemico, la salicornia è quindi un alimento che può avere una funzione importante nella dieta – continua Ranieri – come emerge dalla nostra ricerca gli estratti di questa pianta testati su modelli animali evidenziando un recupero completo dalla steatosi epatica”.
Lo studio sulla salicornia si è svolto nell’ambito di HaloFarMs, un progetto finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dal Programma PRIMA, la Partnership per l’innovazione del settore idrico e agro-alimentare nell’area mediterranea promossa dall’Unione Europa con la partecipazione di 19 paesi
Alla base di HaloFarMs c’è l’idea di sviluppare e ottimizzare nuovi sistemi di agricoltura sostenibile basati sull'uso delle piante alofite. Oltre a desalinizzare il suolo, le alofite vengono studiate per impiegarle nell'industria cosmetica, alimentare e veterinaria. L'adozione da parte degli agricoltori dei risultati del progetto ha così l’obiettivo di diminuire la salinizzazione del suolo, aumentare le rese dei terreni senza esaurire le risorse di acqua dolce, e diversificare le fonti di reddito.
Melatonina: studio rivela quando prenderla e in che dose perché funzioni al meglio contro l’insonnia
Quattro mg al giorno tre ore prima di coricarsi: con questi tempi e con questa dose la melatonina è davvero efficace contro l’insonnia. La conclusione arriva da un nuovo studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sul prestigioso Journal of Pineal Research.
“Per la prima volta la nostra ricerca dà indicazioni precise su come usare efficacemente la melatonina per favorire il sonno – dice il professore Ugo Faraguna (foto) dell’Ateneo pisano che ha coordinato il lavoro – gli studi sinora condotti davano infatti risultati incoerenti; la nostra ipotesi è che dipendesse dallo schema di somministrazione, da una combinazione non fisiologica di orario e dosaggio”.
L’analisi condotta ha riguardato 26 studi randomizzati pubblicati tra il 1987 e il 2020, per un totale di 1689 osservazioni su pazienti con insonnia e volontari sani, che hanno valutato l'effetto della somministrazione di melatonina sul sonno.
“Rispetto alle indicazioni più utilizzate nella pratica clinica, ovvero 2 mg 30 minuti prima di coricarsi – continua Faraguna – i nostri risultati suggeriscono che per ottimizzare l’effetto della melatonina sia importante anticipare i tempi di somministrazione a 3 ore prima di coricarsi e aumentare la dose a 4 mg al giorno. Oltre ad esser anticipato, l’orario di somministrazione dovrebbe dunque essere personalizzato sulla base del ritmo sonno/veglia di ogni paziente, in modo da riprodurre la naturale produzione di melatonina nell’essere umano. Infatti, quando la melatonina viene somministrata secondo lo schema di trattamento da noi proposto, ottiene la sua massima efficacia esattamente quando la melatonina normalmente prodotta dal corpo umano viene rilasciata nel sangue”.
Insieme a Ugo Faraguna, professore associato presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, hanno firmato l’articolo come primi coautori Francy Cruz Sanabria e Simone Bruno, entrambi ex dottorandi dell’Ateneo pisano. Francy Cruz Sanabria attualmente lavora come assegnista di ricerca tra Università di Pisa e Fondazione Stella Maris di Pisa, mentre Simone è adesso negli Stati Uniti come Research Associate presso la University of Wisconsin-Madison.
“Oltre ai colleghi del nostro Ateneo, i professori Scarselli e e Frumento, – conclude Faraguna – tra i coautori vorrei sottolineare la presenza della professoressa Debra Skene dell’University of Surrey, la più grande esperta di melatonina a livello mondiale, che ha voluto essere coinvolta dopo che le avevamo inviato la prima bozza dell’articolo per una sua opinione; e del dottor Alessio Crippa, lo statistico del Karolinska Institutet di Stoccolma che per primo ha messo a punto la tecnica di analisi che abbiamo scelto per questo lavoro”.