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stefano-brugnolo-bw-458x458-1.jpgL’Italia come una specie di grande Gattopardo delle rivoluzioni mancate, dall’epoca della Riforma protestante fino al ’68 e oltre. È questo il tema del nuovo volume del professore Stefano Brugnolo (foto) dell’Università di Pisa Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo (Quodlibet, 2023).

Il libro è stato presentato a Pisa lunedì 13 novembre, alle 17.30 a Palazzo Boilleau, con i professori dell’ateneo pisano Roberto Bizzocchi e Sergio Zatti per il ciclo dei Seminari di Interpretazione testuale.

Brugnolo parte da una constatazione: “Per noi occidentali oggi è più facile rappresentare la fine del mondo piuttosto che un rivoluzione che modifichi l’attuale sistema vigente” Come si spiega questo? “Perché tutti noi almeno in Occidente siamo coinvolti in questo grande sistema che è il capitalismo, siamo cioè poco o tanto cointeressati al mantenimento di questo sistema, mentre la rivoluzione secondo Marx la fa chi non ha proprio niente da perdere”.
Se questa ipotesi è attendibile ecco che allora il caso italiano, al centro dello studio di Brugnolo, così segnato dalle rivoluzioni mancate, racconterebbe la rivoluzione mancata a livello più generale; esemplificherebbe cioè le attese, le speranze e le paure che quella prospettiva di cambiamento radicale ha suscitato durante tutta la Modernità.

La tesi di Brugnolo si sviluppa lungo trenta capitoli per oltre 400 pagine, un viaggio che attraversa i secoli cominciando da Machiavelli, passando attraverso Milton, Büchner, Hugo, Manzoni, Zola, Nievo, Verga, fino ad arrivare a Malaparte, Pasolini, Calvino e tanti altri, anche saggisti: da Galileo a Gramsci. Al centro ci sono soprattutto gli autori italiani che hanno raccontato le non-rivoluzioni nostrane in dialogo con alcuni grandi scrittori e pensatori europei.


Si tratta di un percorso in cui emergono degli spartiacque decisivi, come la Riforma protestante ma soprattutto la Rivoluzione francese, un evento che ha avuto grande risonanza in Italia, come dimostra il caso di Alessandro Manzoni che nei Promessi sposi sia pur parlando di un caso seicentesco in realtà si sta interrogando su come operare un cambiamento reale senza passare attraverso uno sconvolgimento simile.

Sempre secondo Brugnolo ci sarebbero “Rivoluzioni mancate in terra e rivoluzioni mancate in cielo”, e a quest’ultima specie appartiene quella tentata da Galileo. “Galileo tentò vanamente di rassicurare i vertici della Chiesa che le sue scoperte erano di tipo astratto e non potevano e dovevano coinvolgere il popolo, a cui il linguaggio matematico caratterizzante l’astronomia copernicana sarebbe comunque risultato incomprensibile”. A sentire quello scienziato si sarebbe insomma trattato di questioni che avrebbero interessato pochi e non avrebbero comportato più ampi sconvolgimenti culturali. “La Chiesa non si fidò delle rassicurazioni di Galileo – prosegue Brugnolo -, ma esse testimoniano una delle caratteristiche peculiari delle mancate rivoluzioni italiane: il distacco fra élite politiche e intellettuali e popolo”.

Una cesura che arriva sino al ’68 dove la mancata (o presunta) rivoluzione, promossa dal movimento studentesco, secondo Pasolini, avrebbe preso la forma di una trasformazione interna al sistema non certo di una sua messa in causa. Si sarebbe cioè passati da un capitalismo fondato su idee di disciplina e sacrificio ad un capitalismo consumistico ed edonistico. Anche in questo caso, insomma, si sarebbe trattato della riproposizione del paradigma cosiddetto gattopardesco, secondo cui bisogna cambiare tutto ma per far sì che poi tutto resti uguale.

L’ultimo libro esaminato da Brugnolo è “Il formaggio e i vermi” di Carlo Ginzburg del 1976. “Qui si narra del grande cambiamento che sogna un mugnaio del Cinquecento che sul formaggio e i vermi aveva costruito una cosmogonia di matrice popolare. È una vicenda – conclude Brugnolo - che richiama il principio della storia da me esaminata, quel sogno di cambiare il mondo che fu promosso dalla Riforma protestante e che il nostro paese rigettò allora e anche dopo”.

copertina volumeIl lessico della modernità. Continuità e mutamenti dal XVI al XVIII secolo (Carocci, 2023) è il nuovo libro curato di Simonetta Bassi, professoressa di Storia della Filosofia del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Primo volume di un’opera in due tomi, il libro offre materiali per studiare la trasformazione delle idee che costituiscono la tradizione moderna facendo emergere la dimensione plurale del moderno, punto di convergenza di tradizioni e temi eterogenei.

Pubblichiamo di seguito alcuni estratti dalla prefazione di Simonetta Bassi.

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Questa pubblicazione si inserisce nel quadro delle iniziative del progetto di Eccellenza 2018-22 del Dipartimento di Civiltà e forme del sapere, volto a indagare i fenomeni di cambiamento e persistenza nello spazio euromediterraneo, con particolare attenzione a quei momenti in cui i due aspetti sono compresenti in relazione dinamica. […]

I contributi, autonomi e presentati in ordine alfabetico e affidati ad autori diversi e di diverse generazioni, analizzano da un punto di vista multidisciplinare le trasformazioni concettuali e lessicali che descrivono l’età moderna, delineando la complessità di un mondo in continuo movimento tra confronto con il passato e consapevole progettazione del futuro.[…]

Ha preso così forma un lavoro che lungi dal presentare, come può pure apparire a una prima occhiata, “medaglioni” autonomi e irrelati, ha l’ambizione di consentire, al contrario, l’individuazione di assonanze e prospettive di lettura a volte sorprendentemente convergenti, in una impostazione multidisciplinare assicurata dal solido contributo scientifico di studiosi di filosofia, storia, letteratura, storia dell’arte, diritto: l’indagine sulle “parole dei moderni” contribuisce a delineare la complessità di un mondo costantemente “in movimento” che si richiama agli elementi di continuità per renderli matrici di mutamenti ed evoluzioni, di svolte e rivoluzioni.

“Il piede umano è uno dei più complessi capolavori dell'evoluzione, un'opera d'arte della biomeccanica: non è solo una struttura che ci permette di camminare, correre e saltare, ma è un vero e proprio testimone del nostro passato e del nostro presente”. A parlare è Rita Sorrentino, ricercatrice al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e prima autrice di un ampio studio, pubblicato su Communication Biology, che getta nuova luce sulla complessa evoluzione dei nostri piedi.

L’attività di ricerca – che ha coinvolto anche studiosi dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e dell’Università di Pisa – si è concentrata sull’arco longitudinale mediale del piede: una caratteristica unica che differenzia la nostra specie, l’Homo sapiens, dai primati non umani.

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L’arco longitudinale e il problema dei piedi piatti
L'arco longitudinale è un adattamento funzionale che permette al piede di passare da ammortizzatore a leva durante le fasi di contatto e distacco con il terreno: un meccanismo che ci permette di avere una camminata bipede efficiente. Nonostante la sua rilevanza, non è però ancora chiaro quando questa caratteristica sia comparsa nel corso della nostra storia evolutiva. E a complicare ulteriormente il quadro c’è il tema dei “piedi piatti”: una condizione diffusa, caratterizzata da un appiattimento più o meno accentuato dell’arco longitudinale mediale.

“Non tutti i piedi piatti sono uguali e le definizioni cliniche di piedi piatti negli esseri umani viventi non hanno raggiunto un consenso”, spiegano infatti Alberto Leardini e Claudio Belvedere, studiosi del Laboratorio di Analisi del movimento e valutazione funzionale protesi dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, tra gli autori dello studio.

Per cercare di trovare risposte, gli studiosi si sono concentrati in particolare sul ruolo dell’osso navicolare, la chiave di volta dell'arco longitudinale mediale del piede.

“I risultati di questo studio mettono in luce che la morfologia del navicolare varia in modo significativo tra gli individui con piedi piatti e quelli con arco longitudinale ben sviluppato”, spiega Maria Giovanna Belcastro, professoressa al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e coordinatrice del lavoro. “In particolare, gli individui con piedi piatti acquisiti in età adulta mostrano differenze nella forma del navicolare rispetto a quelli con archi normali o piedi piatti congeniti, cioè presenti dalla nascita”.

Uno sviluppo, questo, che solleva interrogativi sulla natura dei piedi piatti congeniti, suggerendo che possano rappresentare una variante normale della morfologia del piede, ed evidenziando quindi l'importanza della morfologia ossea nella struttura dell'arco del piede.

Piedi e stili di vita
Un altro aspetto affascinante su cui si sono concentrati gli studiosi riguarda le differenze tra gruppi di popolazioni moderne di Homo sapiens. I risultati suggeriscono infatti che lo sviluppo dell’arco longitudinale possa essere influenzato da variabili come il tipo di calzature, lo stile di vita e le strategie di locomozione prevalenti.

"Abbiamo visto che gli individui appartenenti a gruppi di cacciatori-raccoglitori, che vivono senza calzature, mostrano piedi più flessibili nella mobilità e relativamente più piatti rispetto a quelli delle popolazioni che utilizzano calzature moderne", dice Damiano Marchi, professore all’Università di Pisa, tra gli scopritori di Homo naledi e tra i coordinatori dello studio. "Queste differenze possono essere attribuite a stili di vita e pratiche culturali: i piedi delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori potrebbero quindi rappresentare una forma più vicina a quella dei nostri antenati preistorici".

Fossili a confronto
L'indagine ha anche messo a confronto la struttura dei nostri piedi con i fossili di Homo sapiens antichi e di altre specie umane del passato.

"Alcuni dei fossili analizzati, come quelli di Homo floresiensis, Australopithecus afarensis e Homo naledi, mostrano caratteristiche nel navicolare più simili a quelle dei grandi primati non umani, suggerendo un adattamento a uno stile di vita sia arboreo che bipede", spiega Stefano Benazzi, professore al Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, tra i coordinatori dello studio. "Allo stesso tempo, i fossili di Homo habilis sembrano avere una configurazione più simile ai piedi degli esseri umani moderni, indicando una possibile presenza dell'arco longitudinale; questo non esclude però la possibile presenza di un piede piatto simile agli attuali piedi piatti congeniti, vista la somiglianza e vicinanza morfologica del navicolare con quella degli individui che presentano un arco longitudinale sviluppato del piede ".

Lo studio offre in definitiva un nuovo punto di vista sull'evoluzione del piede umano e sulla sua variabilità, contribuendo alla nostra comprensione di come questa parte del corpo si sia adattata alla locomozione bipede.

“Il nostro piede è un vero e proprio testimone del nostro passato e del nostro presente, un capitolo affascinante nella grande storia dell'evoluzione umana”, commenta in conclusione Rita Sorrentino, prima autrice dello studio. “Gli esiti di questa indagine permettono di ricostruire una panoramica completa della variabilità morfologica del piede umano nel corso dell'evoluzione e sollevano importanti questioni riguardo ai piedi piatti congeniti, suggerendo che possano rappresentare una variante normale della morfologia del piede umano”.

I protagonisti dello studio
Lo studio è stato pubblicato su Communications Biology con il titolo “Morphological and evolutionary insights into the keystone element of the human foot’s medial longitudinal arch”. Le indagini sono state condotte da un team internazionale e multidisciplinare composto da paleoantropologi, bioarcheologi, ingegneri biomeccanici e ortopedici e guidato da ricercatori dell’Università di Bologna di diversi dipartimenti: Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali (Maria Giovanna Belcastro, Annalisa Pietrobelli, e Rita Sorrentino), Ingegneria Industriale (Michele Conconi e Nicola Sancisi), Beni Culturali (Stefano Benazzi e Carla Figus).

Allo studio hanno preso parte anche ricercatori e professionisti di: Università di Pisa, IRCCS Istituto Ortopedico Rizzoli, University of Southern California, University of the Witwatersrand, University of Colorado, Monash University, Collège de France - Paris, Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, Georgian National Museum, Institute for Anthropological Research – Zagreb, University of Southern California, Washington University in St. Louis, New York University, Naturalis Biodiversity Center - Leiden, Western University, The Pennsylvania State University, Dartmouth College.

The eco-packaging can be found as spray, liquid, film, or tray made from chitosan derived from the exoskeleton of insects such as the black soldier fly. The innovation to reduce the use of plastic in packaging comes from the PRIMA Fedkito project that has just been concluded, which is coordinated by Professor Barbara Conti of the Department of Agricultural, Food and Agro-Environmental Sciences at the University of Pisa.

 

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Kumquat treated with chitosan

Chitosan is a completely natural and biodegradable substance that has many uses in organic farming and in cosmetic, pharmacological, medical, veterinary and textile industries,” explains Barbara Conti. “It is generally obtained from the exoskeleton of crustaceans or the cell walls of mushrooms, but also from insects. Following a circular economy criterion, to produce it we used pupae of Hermetia illucens (Diptera Stratiomyidae), also known as the black soldier fly, bred on organic waste coming from the food chain”.

 

Black soldier fly.

In general, the packaging has been designed based on various food characteristics. It can be found as film, trays, or sprays to protect fruit, vegetables, meat, cheese, and cured hams.

To enhance the protective effects of chitosan, the researchers also experimented with the addition of essential oils, which alone have insecticidal and fungicidal properties. The result is a differently flavoured packaging with added sensory value, e.g., a chitosan and black pepper spray to enhance the organoleptic characteristics and the bright, fresh appearance of small hamburgers.

A further step forward in experimentation has been able to produce packaging that is not only sustainable but also intelligent. In fact, the research unit of the University of Bologna directed by Professor Elisa Michelini has developed new-generation biosensors, which are simple to use and inexpensive, to be applied to chitosan packaging, which are used to indicate the presence and quantity of contaminants, bacteria, mycotoxins, but also the quality of packaged food.

 

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Tray made from chitosan and on the right with the addition of essential oils

The entire Fedkito project consortium includes, together with the University of Pisa, the Universities of Bologna, Hassan II of Casablanca in Morocco, Thessaly in Greece, the Sorbonne and the Centre Technique Industriel de la Plasturgie et des Composites for France, the Biotechnology Centre of Borj Cedria in Tunisia, and as corporate partners two Italian companies, Gusto parmigiano and Azienda Agricola Salvadori Furio.


In spray, liquido, pellicola o in vaschette ecco gli eco-imballaggi a base di chitosano ricavato dall’esoscheletro di insetti come la mosca soldato nera. L’innovazione per ridurre l’uso della plastica nel packaging arriva dal progetto europeo PRIMA Fedkito appena giunto a conclusione e coordinato dalla professoressa Barbara Conti del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa.

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Mandarino cinese rivestito con chitosano

 

Il chitosano è una sostanza del tutto naturale e biodegradabile che ha molteplici usi in agricoltura biologica e nell’industria cosmetica, farmacologica, medica, veterinaria e tessile – spiega Barbara Conti – Generalmente si ricava dall’esoscheletro di crostacei o dalle pareti cellulari dei funghi, ma anche da insetti. Seguendo un criterio di economia circolare noi per produrlo abbiamo utilizzato le pupe di Hermetia illucens (Diptera Stratiomyidae), conosciuta anche come mosca soldato nera, allevata su scarti organici della filiera alimentare”.

In generale, gli imballaggi messi a punto sono stati pensati a seconda delle caratteristiche dei cibi. Si va dalla pellicola alle vaschette sino allo spray per proteggere frutta, verdura, carne formaggi e prosciutti in stagionatura.

Mosca soldato nera

 

Per potenziare gli effetti protettivi del chitosano, i ricercatori hanno inoltre sperimentato l’aggiunta di oli essenziali che già da soli hanno proprietà insetticide e fungicide. Il risultato sono stati imballaggi aromatizzati in modo diverso, con un valore aggiunto dal punto di vista sensoriale, come ad esempio uno spray al chitosano e pepe nero per esaltare le caratteristiche organolettiche e l’aspetto brillante e fresco di piccoli hamburger.

Un ulteriore passo avanti della sperimentazione è stata la produzione di imballaggi non solo sostenibili ma intelligenti. L’unità di ricerca dell’Università di Bologna diretta dalla professoressa Elisa Michelini ha infatti messo a punto dei biosensori di nuova generazione, economici e molto semplici da usare, da applicare sulle confezioni in chitosano per monitorare la presenza e la quantità di contaminanti, batteri, micotossine, ma anche la qualità del cibo confezionato.

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Due vaschette prodotte con chitosano, a destra con l’aggiunta oli essenziali

 

Oltre all’Università di Pisa, il consorzio del progetto Fedkito comprende le Università di Bologna, Hassan II di Casablanca in Marocco, Tessaglia in Grecia, la Sorbona e il Centre Technique Industriel de la Plasturgie et des Composites per la Francia, il Centro di Biotecnologia di Borj Cedria in Tunisia e, come partner aziendali due italiane, Gusto parmigiano e Azienda Agricola Salvadori Furio.


cristian_scatena.jpgA volte per vedere meglio qualcosa è necessario cambiare prospettiva, allontanarsi e guardare il contesto. Vale anche nel caso dei tumori: studiare l’ambiente in cui crescono e si sviluppano aiuta a comprenderne meglio la natura. E a dare informazioni cruciali per poterli diagnosticare in maniera tempestiva o curare in modo più efficace.

L’idea di studiare il tumore della mammella in questo modo innovativo è venuta a un team del Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Pisa. L’idea ha poi preso forma in uno studio che verrà realizzato grazie al finanziamento aggiudicato dall’edizione 2023 del Fellowship Program, Bando di concorso promosso in Italia dalla società biofarmaceutica Gilead Sciences per selezionare e premiare i migliori progetti presentati da Enti di ricerca e cura italiani nell’area delle malattie infettive, delle patologie oncologiche e oncoematologiche.

L’attenzione dei ricercatori sarà puntata sul tumore al seno, la neoplasia più comune nelle donne italiane, in cui circa un tumore maligno ogni tre (30%) è un tumore mammario. Sebbene lo screening e le sempre più efficaci terapie abbiano fatto diminuire la mortalità, il tumore del seno rimane ancora la seconda causa di morte per cancro nella popolazione femminile.

Da qui l’esigenza di identificare nuovi approcci che possano aiutare a migliorare la sfida posta da questa forma tumorale. Un’esigenza a cui il team di ricerca pisano ha risposto allargando lo sguardo e “andando a caccia” di nuovi segnali – i cosiddetti biomarcatori - che possano guidare la diagnosi e la cura osservando appunto cosa succede intorno al tumore. Nello specifico valutando il microambiente tumorale, ovvero l’ambiente in cui si sviluppano e crescono le cellule neoplastiche, insieme allo stroma, ovvero il tessuto di sostegno dell’organo colpito dal tumore.

“Con il nostro progetto - spiega Cristian Scatena (foto), coordinatore del progetto e Ricercatore in Anatomia Patologica/ RTD-b presso il Dipartimento dell’Università - puntiamo a far luce sulla composizione cellulare e sulle caratteristiche molecolari del microambiente tumorale nel caso specifico di cancro al seno, ponendo particolare attenzione alle possibili interazioni tra il tumore stesso, lo stroma (l’impalcatura biologica che non è solamente una struttura inerte, ma potrebbe giocare un ruolo nello sviluppo stesso del tumore e nella risposta dell’organismo) e all’interazione tra queste entità e il sistema immunitario del soggetto”.

Il progetto, articolato in diverse fasi, approfondirà la conoscenza dei componenti cellulari dello stroma del tumore al seno e ne studierà l’interazione con l'ambiente attivo circostante. Uno dei principali risultati attesi è l'identificazione di nuovi biomarcatori affidabili - i “nuovi segnali” - che potrebbero migliorare la prognosi e far prevedere la risposta alla terapia, migliorando la gestione complessiva del tumore al seno.

“L’integrazione interdisciplinare di competenze e tecnologie previste dal nostro studio ci consentirà non solo di individuare nuovi biomarcatori ma anche di identificare possibili nuovi bersagli terapeutici nell’ambito del microambiente tumorale con prospettive davvero interessanti sia per la scienza di base e clinica sia soprattutto per le donne che oggi sono colpite da questa forma di neoplasia – conclude Scatena”.

 

alessandro lenci.jpgArtificial intelligence systems e.g., ChatGPT learn, as we humans do, the meaning of words by observing the linguistic contexts in which they are used. The science that studies all this (and more) is called distributional semantics, a discipline that has found its first comprehensive discussion in the book Distributional Semantics from Cambridge University Press written by Alessandro Lenci (photo) of the University of Pisa and Magnus Sahlgren of Artificial Intelligence Sweden.

“Like computers, we also learn many concepts by observing how words are used in different linguistic contexts, and this is one of the fundamental factors in the creative power of the human mind,” says Alessandro Lenci, Professor of Computational Linguistics at the Department of Philology, Literature and Linguistics.” This aspect makes distributional semantics a fascinating area of research that combines theoretical, computational, and cognitive perspectives for the study of language and its application, in order to develop intelligent artificial systems.”

But to understand how the context mechanism works, let us take the hypothetical word “blimp”. From the sentence: “I just drank some frozen blimp”, we can easily understand that it refers to some kind of liquid. If, on the other hand, the same word was in a difference sentence such as: “A blimp has been barking all night”, it is clear that “blimp” would have referred to an animal, most likely a dog. These simple examples illustrate the principle by which computational models of distributional semantics work. They basically learn the meaning of words and other linguistic expressions, analysing by statistical and mathematical methods the contexts in which they are used and other words that often recur with them.

“This kind of distributional method,” Lenci concludes, “is also part of the way children and adults learn the meanings of many words, thus enriching their vocabulary, and it is the same principle on which systems such as ChatGPT are based to acquire their knowledge, which they use to answer our questions accordingly.”

 

alessandro lenci.jpgI sistemi di intelligenza artificiale, ad esempio ChatGPT, imparano come noi umani il significato delle parole osservando i contesti linguistici in cui sono usate. La scienza che studia tutto questo (e non solo) si chiama semantica distribuzionale, disciplina che ha trovato la sua prima trattazione completa nel volume Distributional Semantics della Cambridge University Press scritto da Alessandro Lenci (foto) dell’Università di Pisa e da Magnus Sahlgren di Artificial Intelligence Sweden.

“Come i computer anche noi impariamo molti concetti osservando come le parole sono usate nei contesti linguistici, e questo è uno dei fattori fondamentali del potere creativo della mente umana - spiega Alessandro Lenci - Questo rende la semantica distribuzionale un’affascinante area di ricerca che combina prospettive teoretiche, computazionali e cognitive per lo studio del linguaggio e la sua applicazione per sviluppare sistemi artificiali intelligenti”.

Ma per capire come funziona il meccanismo del contesto prendiamo l’ipotetica parola “blimp”. Dalla frase “Ho appena bevuto del blimp ghiacciato”, si può capire facilmente che si deve trattare di un qualche tipo di liquido. Se invece la stessa parola si trovasse nella frase “Un blimp ha abbaiato tutta la notte”, è chiaro che “blimp" si riferisce a un animale, molto probabilmente ad un tipo di cane. Questi semplici casi illustrano il principio in base al quale funzionano i modelli computazionali di semantica distribuzionale: imparano il significato delle parole e di altre espressioni linguistiche andando ad analizzare con metodi statistici e matematici i contesti in cui sono usati e le altre parole che ricorrono con esse.

“Questo tipo di metodo distribuzionale – conclude Lenci - fa parte anche del modo con cui bambini e adulti imparano i significati di molte parole arricchendo così il loro lessico, ed è lo stesso principio su cui si basano sistemi come ChatGPT per acquisire le loro conoscenze, che poi usano per rispondere alle nostre domande”.

Alessandro Lenci è professore ordinario di Linguistica computazionale al Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Ateneo pisano e direttore del Laboratorio di Linguistica Computazionale (CoLing Lab). I suoi principali interessi di ricerca riguardano la linguistica computazionale, l'elaborazione del linguaggio naturale, la semantica e le scienze cognitive.

I suoi insegnamenti sono Linguistica Computazionale nel Corso di Laurea in Informatica Umanistica e Linguistica Applicata nel Corso di Laurea Magistrale in Linguistica. E’ inoltre membro del Dottorato in Studi Linguistici e Letterature Straniere (Curriculum in Linguistica).

mattero_vacchi.jpgIf greenhouse gas emissions continue at the current rate, by 2100 the sea level on Earth could have risen by up to one metre, with increasing damage from storm surges and extreme weather events. The prospect comes from a study published in the journal “Earth System Science Data”, in which Professors Matteo Vacchi (Photo) of the University of Pisa and Alessio Rovere of the Ca’ Foscari University of Venice were the first authors. The research put together all existing data on sea levels during the last interglacial period, 125,000 years ago, the last one in which the Earth was slightly warmer than today, about 1-1.5 degrees on a global scale and 3-5 at the poles. According to the online atlas created by the researchers, sea levels at that time were between 3 and 9 metres higher than now.

“During the interglacial period, climatic conditions were due to a change in the Earth’s orbital configuration,” explains Matteo Vacchi. “Today's climate warming, on the other hand, derives mainly from the increase of carbon dioxide emissions in the atmosphere due to the anthropogenic effect.

Globally, the most vulnerable areas to the sea level rise are the atolls in the Pacific and the large coastal plains of south-east Asia. As for the Mediterranean, the Venice lagoon, the upper Adriatic, and in general the large coastal plains, e.g., the Volturno in Naples, but also the Pisa plain in Tuscany, are particularly vulnerable, and for North Africa the flat coastal areas of Tunisia, Morocco and the Nile Delta.

Primarily responsible for rising seas would be the melting of the planet’s two large polar ice sheets, Greenland, and Antarctica. From this point of view, the data put together by the study are fundamental for outlining future climate scenarios. If the entire ice sheet currently covering Greenland were to melt, the global sea level would rise by about 7 metres. If, on the other hand, the entire Antarctic ice sheet were to melt, the sea would rise by an additional 58 metres.

"There have been periods on Earth, when the sea level was above the current one," Vacchi concludes, "but what is worrying today is the increasing rate, i.e., the acceleration that has taken place over the last 150 years, coinciding with the start of the industrial revolution that has greatly increased greenhouse gases into the atmosphere.

The work published in the journal “Earth System Science Data” is the result of the WARMCOASTS project funded by the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme (Grant agreement No. ERC-StG-802414), won by Professor Alessio Rovere.

mattero_vacchi.jpgSe le emissioni di gas serra continueranno al ritmo attuale, nel 2100 il livello del mare sulla Terra potrebbe aumentare anche fino a un metro, con danni sempre maggiori per mareggiate e fenomeni estremi. La prospettiva arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Earth System Science Data a cui hanno partecipato i professori Matteo Vacchi (foto) dell’Università di Pisa e Alessio Rovere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia come primo autore.

La ricerca ha messo insieme tutti i dati esistenti relativi al livello del mare durante l’ultimo periodo interglaciale, 125mila anni fa, l’ultimo in cui la Terra è stata lievemente più calda rispetto ad oggi, circa 1-1,5 gradi su scala globale e 3-5 ai poli. Secondo l’atlante on line creato dai ricercatori, il livello dei mari all’epoca era tra i 3 e i 9 metri più alto di adesso.“Nel periodo interglaciale le condizioni climatiche erano dovute a un cambiamento nella configurazione orbitale della Terra – spiega Matteo Vacchi – il riscaldamento climatico odierno deriva invece, in larga parte, dall’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera dovuto all’effetto antropico”.

A livello globale le zone più vulnerabili all’innalzamento del livello del mare sono gli atolli nel Pacifico e le gradi piane costiere del sud-est asiatico. Per quanto riguarda il Mediterraneo sono particolarmente vulnerabili la laguna di Venezia, l'alto Adriatico, e in generale le grandi piane costiere, per esempio il Volturno di Napoli, ma anche la piana pisana in Toscana, e per il nord Africa le zone costiere pianeggianti della Tunisia, del Marocco e il Delta del Nilo.
Prima responsabile dell’innalzamento dei mari sarebbe la fusione delle due grandi calotte polari del Pianeta, Groenlandia e Antartide. Da questo punto di vista i dati messi assieme dallo studio sono fondamentali per delineare dei modelli climatici futuri. Se infatti si dovesse fondere tutta la calotta glaciale che copre attualmente la Groenlandia, il livello globale del mare salirebbe di circa 7 metri. Se invece si dovesse fondere tutta la calotta antartica l’aumento sarebbe di ulteriori 58 metri.
“Nella Terra ci sono stati dei periodi in cui il livello del mare è salito al di sopra dell'attuale – conclude Vacchi – ma quello che preoccupa oggi sono i tassi di risalita, ovvero l'accelerazione avvenuta negli ultimi 150 anni, in concomitanza con l’inizio della rivoluzione industriale che ha aumentato enormemente le emissioni di gas serra nell’atmosfera”.

Il lavoro pubblicato Earth System Science Data è frutto del progetto WARMCOASTS finanziato dall’Unione Europea, programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 (Grant agreement No. ERC-StG-802414), vinto dal professore Alessio Rovere.

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