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Extremely rare fossils reveal the earliest evidence of deep-sea fishes, pushing back the invasion of the abyssal plain by 80 million years. This revolutionary conclusion has been presented in a new study conducted by an international team of scientists led by palaeontologist Andrea Baucon and which includes Prof. Luca Pandolfi of the Department of Earth Sciences of the University of Pisa. The study has been published in the September issue of the Proceedings of the National Academy of Sciences (https://doi.org/10.1073/pnas.2306164120), one of the world's most-cited peer-reviewed multidisciplinary scientific journals.

"When I first found the fossils, I can’t believe what I was seeing,” says Luca Pandolfi. The reason for the astonishment is the remote age of the fossils, which predate any other evidence of deep-sea fish by million years. The newly discovered fossils date back to the Early Cretaceous (130 million years ago). “The new fossils show the activity of fishes on a dinosaur-age seafloor that was thousands of meters deep,” Baucon says.

The newly discovered fossils are rare and unusual. They comprise bowl-shaped excavations produced by ancient feeding fishes, as well as the sinuous trail formed by the tail of a swimming fish, incising the muddy seafloor. These trace fossils do not comprise fish bones, but they record ancient behaviour. As such, the Apennine fossils mark a critical point in space and time. It is the point at which fishes moved out of the continental shelf and colonized a new harsh environment, located far away from their original habitat. “The studied trace fossils are akin to the astronauts' footprints on the Moon,” says Baucon.

Thousands of meters below the surface of the Tethys Ocean, the earliest deep-sea fishes faced extreme environmental conditions. Total darkness, near-freezing temperatures, and colossal pressures challenged the survival of these pioneers of the abyss. “As if that wasn’t enough, turbid currents swept the vast muddy plains patrolled by ancient fishes,” says Luca Pandolfi. Such extreme conditions required adaptations for deep-sea life that are evolutionary innovations as significant as those that allowed the colonization of the land and the air (e.g., wings and limbs).

The newly discovered fossils represent not just the earliest deep-sea fishes but the earliest deep-sea vertebrates. The evolution of vertebrates – backboned animals – has been punctuated by habitat transitions from shallow marine origins to terrestrial, aerial, and deep-sea environments. Invasion of the deep sea is the least-understood habitat transition because of the low fossilization potential associated with the deep sea. “The new fossils shed light on an otherwise obscure chapter of the history of life on Earth,” comments Carlos Neto de Carvalho.

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The Apennine fossils force scientists to reconsider which factors might have triggered the vertebrate colonization of the deep sea. Baucon and colleagues propose that the trigger was the unprecedented input of organic matter that occurred between the Late Jurassic and the Early Cretaceous. “The availability of food in the deep seas favoured bottom-dwelling worms, which, in turn, attracted fishes that used specific behaviours to expose them,” explains Annalisa Ferretti. "Behaviour: that’s what the new fossils are all about,” says Girolamo Lo Russo.

In the new study, researchers used a peculiar approach to understand fossil behaviour. “We turned to present-day seas for understanding the past,” says Fernando Muñiz. Baucon and colleagues studied the behaviour of modern fishes in their habitats. “The coasts of Spain and Italy have provided the key to interpreting the fossil structures,” reveals Zain Belaústegui, supported by the words of Chiara Fioroni: “Observing modern fishes has been illuminating”. Scientists explored the depths of the Pacific Ocean to study chimaeras, also known as ghost sharks, in their living environment. “At 1500 m of depth, we observed a chimaera plunging its mouth into the sediment. It was a glimpse into the past!” says Thomas Linley.

The new fossils are identical to structures produced by modern fishes that feed by either scratching the seafloor or exposing their bottom-dwelling prey by suction. This reminds of Neoteleostei, the group of vertebrates that includes modern jellynose fishes and lizardfishes. “A key feature of Neoteleostei is the highly developed suction feeding apparatus, therefore, the Apennine fossils may represent a very early stage of diversification of Neoteleostei into the deep sea,” explains Imants Priede. “The present is key to the past… and vice-versa!” says Mário Cachão.

The newly discovered fossils may represent the first major step in the origins of modern deep-sea vertebrate biodiversity. “Fishes such as the bathysaur and the tripod spiderfish are an important component of modern deep-sea ecosystems,” reveals Armando Piccinini. The roots of modern deep-sea ecosystems are in the Apennine fossils, witnessing a key habitat transition in the history of the oceans. “Our fossil discoveries reassess the mode and tempo of the vertebrate colonization of the deep sea. The newly discovered fossils contain fundamental clues about the very beginnings of vertebrate evolution in the deep sea, having profound implications for both Earth and Life Sciences”,

 

 

Scoperte sull’Appennino le evidenze dei più antichi pesci abissali al mondo. Il ritrovamento delle tracce fossili retrodata la comparsa di questi vertebrati di 80 milioni di anni, al tempo dei dinosauri. La notizia arriva da una ricerca condotta da un gruppo internazionale di scienziati guidato dal paleontologo italiano Andrea Baucon e di cui fa parte il professore Luca Pandolfi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS - Proceedings of the National Academy of Sciences.

"Quando abbiamo trovato questi strani fossili in tre siti paleontologici nei dintorni di Piacenza, Modena e Livorno (che dal punto di vista geologico fa parte dell’Appennino Settentrionale), non potevamo credere ai nostri occhi", racconta il professore Pandolfi.

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Una chimera che nuota sul fondo dell’Oceano Pacifico (profondità: 1544 m; Fossa delle Kermadec) e che affonda il muso nel sedimento per nutrirsi. (Movie credit: Thomas Linley, Alan Jamieson)

Il motivo dello stupore è la loro età, che precede di milioni di anni ogni altra testimonianza di pesci abissali. I fossili appena scoperti risalgono infatti all'inizio del Cretaceo (circa 130 milioni di anni fa) e rivelano la presenza dei pesci abissali già al tempo dei dinosauri.Ma non basta, si tratta di reperti particolarmente rari ed insoliti. Non sono infatti ossa, ma tracce che registrano il comportamento di animali scomparsi milioni di anni fa, come l’impronta sinuosa della coda di un pesce che nuotava vicino al fondale o le escavazioni prodotte da esemplari in cerca di cibo.

Per capire il comportamento di questi primi vertebrati abissali i ricercatori hanno quindi esplorato le profondità dell'Oceano Pacifico per studiare le chimere, o gli squali fantasma. Le tracce fossili sono risultate identiche a quelle prodotte dai pesci moderni che si nutrono grattando o aspirando i sedimenti, in particolare i Neoteleostei, il gruppo di vertebrati che include i moderni ‘pesci-lucertola’ (Bathysaurus).
"Le tracce fossili appena scoperte sono paragonabili alle impronte degli astronauti sulla Luna", dice Baucon "sono reperti che riscrivono il ‘come’ ed il ‘quando’ della colonizzazione degli abissi da parte dei vertebrati, un evento ancora poco compreso dalla scienza, dato che si tratta di ambienti che spesso precludono la fossilizzazione".

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Tracce fossili prodotte da pesci e ricostruzione del loro meccanismo di produzione. Foto di un campione reale e ricostruzione 3D a falsi colori di un altro campione. Negli sketch un tentativo di ricostruzione del meccanismo di produzione delle tracce fossili di alimentazione a scodella (fp), secondo il quale un pesce espone la sua preda al flusso dell'acqua e ricostruzione del meccanismo di produzione delle piste di movimento(st) e di nutrizione (ft).

Da qui, ancora, l’eccezionalità del ritrovamento che ci racconta come migliaia di metri sotto la superficie dell'Oceano Ligure-Piemontese, i primi pesci abissali affrontassero condizioni ambientali estreme. Oscurità totale, temperature prossime allo zero e pressioni colossali mettevano alla prova la sopravvivenza di questi pionieri. Come se non bastasse, correnti torbide spazzavano le vaste pianure fangose pattugliate dai pesci in cerca di cibo. Queste condizioni estreme hanno richiesto adattamenti specifici, innovazioni evolutive altrettanto significative di zampe e ali che hanno permesso la colonizzazione della terra e dell'aria.

Lo studio, finanziato della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC), ha beneficiato della collaborazione di istituzioni scientifiche di Italia (Università di Genova, Modena e Reggio Emilia, Padova, Pisa, Parma; Museo di Storia Naturale di Piacenza; Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige), Portogallo (Geoparco UNESCO Naturtejo; Università di Lisbona), Inghilterra (Università di Newcastle), Spagna (Università di Siviglia e Barcellona), Australia (Università dell'Australia Occidentale), Scozia (Università di Aberdeen). Lo studio ha beneficiato di un significativo finanziamento da parte della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC)

 

Le colture idroponiche che utilizzano acque reflue derivate da colture ‘donatrici’ sono una risposta sostenibile di fronte alla sempre maggiore scarsità di acqua dolce. A dimostrarlo è una ricerca dell’Università di Pisa pubblicata recentemente sulla rivista “Agricultural Water Management”, che ha riguardato due piante spontanee tipiche del Mediterraneo che crescono anche in Toscana, l’aspraggine (Picris hieracioides) e la piantaggine (Plantago coronopus), specie impiegate nel settore alimentare e fitoterapico.

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La sperimentazione sulla piantaggine

“Secondo i principi dell’economia circolare e dei sistemi produttivi integrati o a cascata – spiega il professore Alberto Pardossi dell’Università di Pisa – abbiamo utilizzato l’acqua reflua proveniente da una coltura ‘donatrice’, il pomodoro coltivato in serra in questo caso, riducendo così l’impatto ambientale della coltura a monte e i costi di produzione della coltura a valle, dato che non è necessario acquistare fertilizzanti”.

Le acque reflue delle colture in serra hanno spesso un elevato contenuto di sali e pertanto individuare le specie adatte è fondamentale. L’aspraggine e la piantaggine sono infatti piante “alofite”, il che significa che tollerano bene i terreni salini e l’irrigazione con acque salmastre.

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Da sinistra, Luca Incrocci, Alberto Pardossi, Giulia Carmassi e Martina Puccinelli

“Le due specie studiate si sono adattate molto bene alla coltura idroponica in serra, oggi sempre più utilizzata per la produzione ortaggi crudi o minimamente trasformati di particolare interesse per la cucina gourmet - conclude Pardossi - Questo metodo di coltivazione suscita infatti un interesse crescente perché consente di migliorare la qualità dei prodotti mediante un'adeguata gestione della soluzione nutritiva e facilita la lavorazione post-raccolta grazie alla pulizia del materiale vegetale”.

Alberto Pardossi, 35 anni di carriera accademica, professore ordinario di Orticoltura e Floricoltura ed esperto di colture in serra e indoor, fa parte del gruppo di ricerca ‘Orticoltura e Floricoltura’ dell’Ateneo pisano come gli altri autori dello studio. Insieme a lui hanno condotto gli esperimenti in serra e le analisi di laboratorio Luca Incrocci, professore associato di Orticoltura e Floricoltura, esperto di colture in serra e di agricoltura di precisione, Martina Puccinelli, assegnista di ricerca, esperta di colture idroponiche e biofortificazione degli ortaggi, e Giulia Carmassi, responsabile del laboratorio chimico ed esperta di colture in serra.



 Thanks to the European TARA project coordinated by the University of Pisa, the first prototype of an implantable neurostimulator to treat migraine without the need of taking painkillers is being developed. The device is like a small cylinder equipped with electrodes, placed under the skin between the neck and the nape. Through an external control unit, the device communicates with an app to manage and control the generation of impulses. Moreover, these devices are implanted without surgery. The patient can use the app to monitor his or her state of health and choose between different impulse sequences, previously agreed with the specialist.

“At the University of Pisa, in addition to coordinating the project,” explains Professor Massimo Piotto of the Department of Information Engineering, “we developed and designed the chip in order to generate electrical impulses for the implanted electrodes and collaborated on the design and characterisation of the chip for acquiring and processing biopotentials (ECG, EMG).”


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 UNIPI Team, from the left: Massimo Piotto, Andrea Ria, Paolo Bruschi, Francesco Gagliardi, Iacopo Nannipieri, Margherita Scognamiglio

TARA (Disrupting the Migraine continuum of care for resource-constrained settings) has been funded to the tune of around EUR 6 million, of which around EUR 358,000 is earmarked for the University of Pisa. The project, begun in 2022, will last for three years involving an international, multidisciplinary consortium made up of academic and corporate experts in the fields of electrical engineering, biomedical engineering, information technology and medicine. In addition to the University of Pisa, there are also nine partners involved such as: Capri Medical (Ireland), Sensichips Srl (Italy), Univerzitetni klinicni centre Maribor (Slovenia), Brai3n (Belgium), Skein-Ukraine (Ukraine), Crowdhelix (Ireland), South Tees Hospitals Nhs Foundation Trust (UK), Centre for Process Innovation (UK), European Society of Regional Anaesthesia and Pain Therapy (Switzerland).

Professor Massimo Piotto, who is coordinating this project, has been involved in research related to the development of integrated sensors, Micro Electro-Mechanical Systems (MEMS) and electronic sensor interfaces for more than 20 years, first as a researcher at the National Research Council (CNR) and later as an associate Professor at the University of Pisa. He has participated in numerous national and international projects and he is part of the UNIPI research group “Integrated Circuits and Sensors (ICS)” of Professor Paolo Bruschi, as head of the “Integrated Sensor Systems (ISS)” laboratory at the Department of Information Engineering.



Grazie al progetto europeo TARA coordinato dall’Università di Pisa è in corso di realizzazione il primo prototipo di un neurostimolatore impiantabile per curare l’emicrania senza farmaci. Il dispositivo è simile a un piccolo cilindro dotato di elettrodi che si inserisce sottopelle fra collo e nuca e che tramite una centralina esterna dialoga con una app per gestire e controllare la generazione degli impulsi. Il tutto impiantato senza bisogno di ricorrere alla chirurgia. Il paziente potrà tramite l’app monitorare il proprio stato di salute e scegliere tra le diverse sequenze di impulsi concordate con lo specialista.

“Come Università di Pisa, oltre a coordinare il progetto – spiega il professore Massimo Piotto del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione – abbiamo sviluppato e progettato il chip per la generazione degli impulsi di corrente per gli elettrodi impiantati e collaboriamo alla progettazione e caratterizzazione del chip per l’acquisizione ed elaborazione dei biopotenziali (ECG, EMG)”


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Il gruppo di ricerca UNIPI, da sinistra: Massimo Piotto, Andrea Ria, Paolo Bruschi, Francesco Gagliardi, Iacopo Nannipieri, Margherita Scognamiglio


TARA (Disrupting the Migraine continuum of care for resource constrained settings) è stato finanziato per un totale di circa 6 milioni di euro dei quali circa 358mila destinati all’Ateneo pisano. Iniziato nel 2022, il progetto dura tre anni e coinvolge un consorzio internazionale e multidisciplinare che comprende esperti sia accademici che aziendali negli ambiti dell’ingegneria elettronica, dell’ingegneria biomedica, dell’informatica e della medicina. Oltre all’Università di Pisa, i partner coinvolti sono nove: Capri Medical (Irlanda), Sensichips srl (Italia), Univerzitetni klinicni center Maribor (Slovenia), Brai3n (Belgio), Skein-Ukraine (Ucraina), Crowdhelix (Irlanda), South Tees Hospitals Nhs Foundation Trust (Regno Unito), Centre for Process Innovation (Regno Unito), European Society of Regional Anaesthesia and Pain Therapy (Svizzera).

Massimo Piotto che coordina il progetto è impegnato da più di 20 anni nella ricerca relativa allo sviluppo di sensori integrati, Micro Electro-Mechanical Systems (MEMS) e interfacce elettroniche per sensori, prima come ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e in seguito come professore associato dell’Università di Pisa. Ha partecipato a numerosi progetti nazionali e internazionali e fa parte del gruppo di ricerca UNIPI “Integrated Circuits and Sensors (ICS)” del professore Paolo Bruschi come responsabile del laboratorio “Integrated Sensor Systems (ISS)” del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione.


Men throwing off their uniforms and running around naked, others talking like children, crying and wailing, while others tremble in total silence, or who are delirious with fear of the devil and of being possessed by demons. These are also the wounds of war, of all wars. A new study carried out by Professor Vinzia Fiorino, a historian at the University of Pisa, published in the journal “Modern Italy” of Cambridge University Press returns to the subject of trauma and psychological disorders in Italian soldiers (but the phenomenon is common to all the countries involved) after the First World War.
It starts with the numbers, which are huge: in Italy alone, soldiers suffering from mental disorders were around 40.000 and according to some estimates even more. An emergency that led in January 1918, after the defeat at Caporetto in 1917, to the establishment of a First Collection Centre in Reggio Emilia to try to manage (and limit) the flow of soldiers arriving from the front to be sent to the various psychiatric hospitals throughout the country.

“Initially, doctors do not consider the war to be the cause of the various disorders but rather a congenital factor such as a predisposition or as heredity, or even just as a figment of their imagination ,” explains Vinzia Fiorino, “ making life in psychiatric hospitals and collection centres very difficult, worse than being at the front, for example sufferers are subjected to electric shock or the application of electricity even to their private parts, adding horror to horror”.
Starting from the vast existing historiography, Fiorino’s essay begins by studying the medical records of patients admitted to different psychiatric hospitals, including Rome, Volterra and Trieste, and highlights a number of hitherto under-examined disorders and behaviours, such as regression to childhood, undressing and running (sometimes after defecating on their discarded uniforms), as well as particular forms of hysterical syndrome, which until then had been considered a predominantly female problem. Professor Fiorino interprets these behaviours in the light of major cultural changes taking place: the rhetoric of the war hero on the one hand, and the massification of the man-soldier inserted into large collective bodies, such as the first conscript armies on the other.


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Alpini during the Great War (source: Wikipedia)

"The discipline to which the soldiers were subjected had in some way already “infantilised” the men by depriving them of autonomy and the possibility of making decisions, the regression to childhood reproduces the hierarchical model of total obedience to military life,” explains Vinzia Fiorino. “The depersonalisation of the man-soldier, which has nothing to do with the idea of the lone hero, also undermines the model of masculinity, and from this enormous crucible emerges a desire to create a new identity, even in contempt for the old one, hence the undressing and fleeing naked.

In this way, trauma and psychological disorders become an indicator to analyse the transition from the figure of the soldier-hero to that of the soldier-mass in a circuit, in which female stereotypes also come into play to describe a masculinity in crisis and the emergence of the mass as a new political subject.

Uomini che gettano l’uniforme e cominciano a correre nudi, altri che iniziano a parlare come bambini, che piangono e si lamentano, altri ancora che sono percorsi da tremiti in un totale mutismo, o che delirano con la paura del diavolo e di essere posseduti da demoni. Le ferite della guerra, di tutte le guerre, sono anche queste. Un nuovo studio della professoressa Vinzia Fiorino, storica dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista Modern Italy della Cambridge University Press ritorna sul tema dei traumi e dei disturbi psichici dei soldati italiani (ma il fenomeno è comune a tutti i Paesi coinvolti) dopo la Prima Guerra Mondiale. Si parte dai numeri, che sono enormi: solo in Italia i militari che accusano disturbi mentali sono circa 40mila, secondo alcune stime anche di più. Una emergenza che porta nel gennaio del 1918, dopo la sconfitta di Caporetto del 1917, all’istituzione di un Centro di Prima Raccolta a Reggio Emilia per cercare di gestire (e limitare) il flusso di soldati che arrivano dal fronte per essere poi smistati nei vari ospedali psichiatrici di tutto il Paese.

“Inizialmente la guerra non è considerata dai medici come la causa dei vari disturbi ma piuttosto si pensa a fattori congeniti come predisposizione ed ereditarietà, se non a vera e propria finzione – spiega Vinzia Fiorino – per questo la vita negli ospedali psichiatrici e nei centri di raccolta è resa durissima, peggio che al fronte, e ad esempio i malati vengono sottoposti ad scariche elettriche o applicazione di elettricità anche nelle parti intime, un orrore che si aggiunge all’orrore”.

A partire dalla vasta storiografia esistente, il saggio di Fiorino parte dallo studio delle cartelle cliniche dei ricoverati in vari ospedali psichiatrici fra cui Roma Volterra e Trieste e mette in evidenza alcuni disturbi e comportamenti sinora poco studiati fra cui appunto la regressione all’infanzia, lo spogliarsi e correre (a volte dopo aver defecato sulla divisa dismessa), accanto a particolari declinazioni della sindrome isterica considerata sino ad allora un problema prevalentemente femminile. Fiorino interpreta questi comportamenti alla luce di grandi mutamenti culturali in atto: la retorica dell’eroe di guerra da un lato e la massificazione dell’uomo soldato inserito in grandi corpi collettivi quali sono i primi eserciti di leva dall’altro.


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Alpini durante la Grande Guerra (fonte Wikipedia)

“La disciplina cui erano sottoposti i soldati aveva in qualche modo già ‘bambinizzato’ gli uomini togliendo loro autonomia e possibilità di decidere, da questo punto la regressione all’infanzia riproduce il modello gerarchico di totale obbedienza della vita militare – spiega Vinzia Fiorino – la spersonalizzazione dell’uomo soldato che nulla ha a che fare con l’idea dell’eroe solitario mette in crisi anche il modello di mascolinità e tuttavia da questo enorme crogiolo emerge un desiderio di crearsi una nuova identità, anche in spregio a quella vecchia, da qui lo spogliarsi e il fuggire nudi”.

I traumi e i disturbi psichici diventano in questo modo una spia per analizzare la transizione dalla figura del soldato-eroe a quella del soldato massa in un circuito in cui entrano anche in causa gli stereotipi femminili per descrivere una mascolinità in crisi e l’emergere della massa come nuovo soggetto politico.

Un team internazionale di astrofisici, utilizzando i dati del telescopio spaziale X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), ha pubblicato nuove scoperte sul blazar denominato Markarian 421, un nucleo galattico attivo e una potente sorgente di raggi gamma che si trova nella costellazione dell'Orsa Maggiore, all'incirca a una distanza di 400 milioni di anni luce dalla Terra. Lo studio, che dettaglia le scoperte del team IXPE su Markarian 421, è uscito sull’ultimo numero di Nature Astronomy, fra gli autori anche il professore Luca Baldini dell’Università di Pisa.

“Nonostante decenni di studio, gli scienziati non hanno ancora compreso appieno i processi fisici che determinano la dinamica e l'emissione dei getti relativistici espulsi dai blazar – dice Luca Baldini - Ma la rivoluzionaria capacità di IXPE di "misurare la polarizzazione dei raggi X, ovvero la direzione di oscillazione del loro campo elettrico, offre agli astronomi una visione senza precedenti di questi oggetti, della loro geometria e dell'origine delle loro emissioni.

Frutto di una collaborazione tra la NASA e l'Agenzia Spaziale Italiana con partner e collaboratori scientifici in 12 paesi fra cui anche l’Università di Pisa in sinergia con la Sezione di Pisa dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il satellite IXPE su cui si trovano tre telescopi spaziali è in orbita dal 2021. A bordo ci sono tre detector unit progettate, integrate e qualificate a Pisa da un gruppo di lavoro guidato dal professore Luca Baldini, che ha coinvolto studenti del Dipartimento di Fisica e della Scuola di Ingegneria dell’Università di Pisa.

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Credits: NASA/Pablo Garcia

La struttura di un getto di buco nero come dedotta dalle recenti osservazioni del blazar Markarian 421 con l'Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE).

 

 

prin murSono 259 i Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN) finanziati all’Università di Pisa dal Ministero dell’Università e della Ricerca a seguito della conclusione della procedura PRIN 2022. Nello specifico, sono stati ammessi al finanziamento 98 progetti di ricerca in cui l’Ateneo è coordinatore (di cui 31 presentati da ricercatori under 40) e altri 161 che vedono Unipi come responsabile di unità locale (di cui 56 di ricercatori under 40). Dei 98 progetti coordinati da Unipi, 34 appartengono al settore Life Sciences, 21 al settore Social Sciences and Humanities, 43 a Physical Sciences and Engineering.

A livello nazionale, sono stati finanziati quasi 3.700 progetti su circa 7.800 proposte presentate, con un tasso di successo del 47,19%. L’Università di Pisa ha presentato 506 proposte, di cui 203 in qualità di coordinatore nazionale: alla luce dei risultati raggiunti, il tasso di successo di Unipi supera la media nazionale, attestandosi al 51,18%. Significativo anche il tasso di successo del 48,77% ottenuto per le proposte presentate in qualità di coordinatore nazionale.

“I risultati della procedura PRIN 2022 confermano l’alto livello di progettualità che caratterizza la ricerca del nostro Ateneo – commenta il rettore Riccardo Zucchi – Il dato sicuramente positivo è che sono stati finanziati molti ricercatori under 40, un elemento che rispecchia le politiche di grande attenzione ai giovani che stiamo perseguendo con tutta la governance: abbiamo appena lanciato l’iniziativa MSCA-SoE@UNIPI, con nuovi incentivi messi a disposizione dall’Università di Pisa per i ricercatori e le ricercatrici che abbiano presentato una proposta di progetto nell’ambito della call MSCA-PF e abbiano superato una certa soglia di valutazione; solo pochi mesi fa abbiamo promosso il bando Starting@UNIPI per dare supporto alle giovani ricercatrici e ai giovani ricercatori interessati a presentare proposte nel bando Starting Grant dell’European Research Council (ERC). Ma la nostra attenzione non si ferma ai giovani, nei prossimi giorni annunceremo infatti il bando Consolidator@UNIPI, riservato a chi ha già più anni di esperienza nel mondo della ricerca”.

I PRIN finanziati in tutta Italia accedono allo stanziamento di 741milioni di euro previsti dal MUR. Almeno un terzo degli stanziamenti totali, circa 223 milioni di euro, andrà a progetti di professori o ricercatori con meno di 40 anni. Un risultato che porterà l’Italia a raggiungere in anticipo il target di almeno 3.150 progetti al 31 dicembre 2023 fissato a livello comunitario per l’accesso alle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’importo massimo previsto dal bando per ciascun progetto di ricerca è di 250 mila euro. La valutazione è stata affidata ai Comitati di Valutazione – uno ciascuno per gli specifici settori di ricerca – nominati dal Ministero e composti da un minimo di cinque a un massimo di quindici esperti scientifici scelti dal Comitato nazionale per la valutazione della ricerca (CNVR). Nelle prossime settimane si conosceranno gli importi assegnati ai singoli progetti dell’Università di Pisa.

Il programma PRIN finanzia progetti biennali che, per complessità e natura, richiedono la collaborazione di più unità di ricerca. Il PRIN vuole promuovere e sostenere il sistema nazionale della ricerca, rafforzare le interazioni tra università ed enti di ricerca e favorire la partecipazione italiana alle iniziative nell’ambito del Programma Quadro di ricerca e innovazione dell'Unione Europea.

With a budget of around 3.5 million euros and 50% co-funded under the Digital Europe programme, the project ‘Digital agriculture for sustainable development’ (AGRITECH EU) is about to start.
Coordinated by Prof. Gianluca Brunori of the Department of Agricultural, Food and Agro-Environmental Sciences with the collaboration of the Computer Engineering and Computer Science Departments, the project involves the QUINN university consortium, CNR-ISTI, the University of Macerata, the Universities of Ghent, Athens, Almería and Montpellier, and several AgriTech companies

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The aim of the project is to devise teaching modules aimed at developing high-level skills in the area of digitalization for sustainable agriculture, with an emphasis on the principles of agroecology and responsible innovation. Among others, the topics of precision agriculture, the use of drones for monitoring purposes, farm data management, the application of artificial intelligence, the automation of agricultural operations, and the digitalization of supply chain traceability will be addressed. Socio-economic (including risks and unintended consequences) and legal implications will also be dealt with for each of these themes. The courses will be based on interdisciplinary programmes that combine technological, agronomic, and socio-economic skills.

The modules will be aimed mainly at graduates with a bachelor’s degree in agricultural sciences, computer science, or computer engineering. The project aims to build a European catalogue of blended learning activities, focussing on innovative experience-based teaching and on the use of online tools. The project will also involve student and lecturer mobility as well as the award of joint degrees.

From an educational point of view, the project aims to make the most of the experience gained in various European projects and in the postgraduate course activated by DISAAA in collaboration with DI, DII, CNR, QUINN, and to create synergies with the initiatives launched within the Contamination Lab. For the University of Pisa, which will oversee the scientific and administrative coordination, the project represents a valuable opportunity to present itself as one of the universities of excellence in Europe in the field of digital agriculture.

 

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