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La siccità controllata può aumentare sino al 30 per cento la resa di olio essenziale del rosmarino rendendo questa pianta una candidata ideale per la valorizzazione di terreni agricoli marginali e con limitata disponibilità idrica. Il risultato arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Industrial Crops and Products e realizzato dall’Università di Pisa, dall’Istituto Nazionale di Ottica INO-CNR Pisa, dalla Scuola Superiore Sant’Anna e dall’Università Catania. Le sperimentazioni sono state condotte in Sicilia, in aziende agricole della provincia di Ragusa, tra l’autunno del 2022 e la primavera del 2023.

“Il rosmarino è una pianta medicinale e aromatica autoctona del mediterraneo che produce oli essenziali noti per le loro proprietà antimicrobiche, antiossidanti, antitumorali e antinfiammatorie – spiega la professoressa Celia Duce del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa - Sottoposto a condizioni di stress, in particolare stress abiotici, come la siccità, intensifica la produzione di oli essenziali come meccanismo difensivo".

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Valentina Formica dell'Università di Catania, prima autrice del paper, in laboratorio

Le sperimentazioni sono state pianificate insieme agli agricoltori, i quali hanno scelto i campi da destinare alle sperimentazioni e le varietà di rosmarino da utilizzare. Sono state testate due diverse varietà di rosmarino, la ‘Tuscan blue’ e la ‘Barbecue’. Lo stress idrico è stato applicato per tre settimane prima della raccolta ovvero durante il periodo balsamico autunnale e primaverile, una fase cruciale in cui la sintesi e concentrazione degli oli essenziali raggiungono il picco.

Il risultato è stato un aumento della resa sino al 30% nelle piante della varietà ‘Tuscan blue’ coltivate in un’azienda del comune di Scicli. Lo stress idrico ha inoltre modificato significativamente la composizione chimica degli oli essenziali, cambiamenti cruciali per l'industria, poiché possono migliorare il profilo aromatico e le proprietà bioattive.

“Lo studio è parte di un progetto più ampio chiamato InSole - Innovazioni agronomiche e tecnologiche per la coltivazione sostenibile di piante officinali e la produzione di Oli essenziali di qualità, finanziato dal Programma di sviluppo rurale Sicilia 2014-2022, il cui obiettivo è creare una filiera sostenibile per la produzione di oli essenziali, supportando gli agricoltori nell'adozione di pratiche agricole che ottimizzano l'uso delle risorse, in particolare l'acqua - conclude Federico Leoni, assegnista di ricerca della Scuola Superiore Sant’Anna - L'idea principale è che tramite l’applicazione di uno stress idrico moderato in prossimità al periodo balsamico possa aumentare la concentrazione e la qualità degli oli essenziali nel rosmarino, senza compromettere in modo significativo la resa in biomassa”.

 

 

Giant_red_brittlestar.jpgUn gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa ha identificato un nuovo periodo climatico del nostro pianeta denominato “Ophiuroid Optimum” che va dal 50 al 450 d.C.
Lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports è stato condotto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo. Ricercatori e ricercatrici hanno analizzato una carota di sedimento marino raccolta ad una profondità di 462 m sotto il livello del mare nell’Edisto Inlet, un fiordo nel Mare di Ross occidentale in Antartide. Lo studio della carota ha consentito di ricostruire la storia climatica della Terra negli ultimi 3600 anni evidenziando anche periodi già noti come il caldo medievale, fra il 950 e il 1250 d.C., e la piccola età glaciale, dal 1300 sino al 1850 d.C..

Durante l'intervallo di tempo denominato “Ophiuroid Optimum”, nell’area antartica dell’Edisto Inlet, si sono susseguite estati australi caratterizzate dall’assenza di ghiaccio marino ed importanti fioriture algali. Il persistere nel tempo di questa stabilità ambientale ha permesso di sviluppare un’importante comunità bentonica ricca in stelle serpentine.

“Questa carota di sedimento ci ha consentito di effettuare degli studi paleoecologici e paleoclimatici ad altissima risoluzione – spiega Giacomo Galli, laureato a Pisa e ora dottorando fra gli Atenei di Pisa e Ca’ Foscari Venezia – questo perché è in gran parte fatta di fango costituito principalmente da diatomee, cioè piccole alghe unicellulari con guscio siliceo, a cui si aggiungono foraminiferi che sono organismi unicellulari con guscio che può fossilizzare, e resti di ofiure, cioè animali noti con il nome di stelle serpentine, echinodermi simili alle stelle marine. In particolare, gli abbondanti resti fossili delle stelle serpentine hanno permesso di identificare e caratterizzare il nuovo periodo climatico. Durante questa fase climatica, per circa 400 anni, la baia si è aperta regolarmente durante l’estate australe permettendo la riproduzione delle alghe (diatomee) che hanno fornito il nutrimento per gli organismi viventi sul fondo della baia. Le ofiure hanno tratto giovamento da questa situazione ambientale, riproducendosi in gran numero".
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“La presenza delle calotte di ghiaccio e del ghiaccio marino sul nostro Pianeta ha una fortissima ricaduta sul clima – aggiunge la professoressa Caterina Morigi dell’Università di Pisa - Dal momento che la nostra comprensione del clima presente, nonché la possibilità di modellare quello futuro, è possibile solo grazie ai dati che derivano dalle informazioni sul clima del passato, ogni tassello che ci aiuta a comprendere meglio la storia climatica del nostro Pianeta ha enormi implicazione nell’aiutarci a capire come questa si evolverà nel prossimo futuro”.

Hanno partecipato alla ricerca per il dipartimento della di Scienze della terra dell’Università di Pisa Giacomo Galli, Caterina Morigi, responsabile di vari progetti per la ricerca in Antartide (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, PNRA) ed in Artide (Programma di Ricerca in Artico, PRA) e Karen Gariboldi, ricercatrice esperta di diatomee. Fra gli altri autori Ben Thuy, ricercatore presso il Museo Nazionale di Storia Naturale del Lussemburgo, uno dei maggiori esperti di ofiuroidi fossili al mondo.

 

Crediti foto

 

 

 

In occasione della settimana europea della mobilità dal 16 al 22 settembre, la Commissione per lo Sviluppo Sostenibile di Ateneo (CoSA) dell'Università di Pisa insieme a Federazione italiana ambiente e bicicletta (FIAB) organizzano per venerdì 20 settembre due iniziative speciali per promuovere una mobilità cittadina più sostenibile e consapevole.

Dalle 8.30 alle 10.00 e dalle 14.00 alle 15.30 si svolge “Bike2Work”: studentesse, studenti, personale e docenti sono invitati a recarsi in Ateneo con la biciletta e a passare dal cortile del Palazzo la Sapienza (via Curtatone e Montanara) dove potranno compilare un breve questionario e contribuire a migliorare le politiche di mobilità sostenibile dell’Ateneo. In cambio riceveranno le istruzioni su come ritirare un gadget gratuito per la propria bicicletta.
Il pomeriggio dalle 17.30 al Centro Congressi Le Benedettine (Piazza S. Paolo a Ripa D'Arno, 16), si terrà un evento aperto a tutti dedicato alla mobilità urbana dal titolo "Chiacchierata informale sul tema del mobility management". Sono previsti gli interventi di Eleonora Perotto, Mobility manager Politecnico di Milano, di Barbara Melotti, Mobility Manager Aeroporto Bologna e di Paolo Ferri, Ceo Wecity.

 

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Per partecipare alle due iniziative è raccomandata la registrazione. Ma intanto parliamo della giornata con il professor Marco Avvenuti, referente mobilità della Commissione per la Sostenibilità di Ateneo e con la sua presidente professoressa Elisa Giuliani, pro-rettrice per la Sostenibilità e l’Agenda 2030.

Professore Avvenuti, quali sono le sfide e opportunità per rendere le nostre città più accessibili, sicure e rispettose dell’ambiente?
Partiamo prima di tutto dalla sicurezza. Purtroppo, fatti tragici e recenti, e penso al ciclista travolto e rimasto ucciso in uno scontro con un’auto sui lungarni a Pisa a inizio settembre, ci ricordano, con grande rammarico, che anche nella nostra città la sicurezza stradale è motivo di allarme, come del resto lo è a livello nazionale. Secondo i dati ISTAT, nel 2023 in Italia gli incidenti sono avvenuti per il 73,3% in strade urbane, le vittime sono aumentate per i conducenti di biciclette (212; 205 nel 2022) e sono 485 fra i pedoni. Gli utenti più vulnerabili rappresentano il 50% dei morti sulle strade (49,3% nel 2022). E una nota particolarmente negativa è la quota di bambini da 0 a 14 anni deceduti in incidente stradale: 41 nel 2023, in aumento rispetto agli anni precedenti. Proprio in ambito urbano, dove le infrastrutture e le regolamentazioni dovrebbero garantire sicurezza e vivibilità, assistiamo sempre più spesso a comportamenti che mettono a rischio la vita, quali velocità eccessiva, utilizzo dei cellulari alla guida, mancato rispetto delle norme elementari della circolazione. Ed è triste constatare che, come società, ci siamo abituati a tollerare tutto questo per un sistema di mobilità che privilegia la velocità, quando poi sappiamo che nei centri urbani gli spostamenti avvengono a velocità medie sempre più basse a causa dell’abuso delle auto private e della congestione che ne consegue. E che la maggior parte delle distanze percorse è inferiore ai 4 km, quindi percorribili con biciclette.

Che si può fare per migliorare la situazione?
È urgente recuperare il ritardo nell'attuazione di interventi concreti per ridurre, se non azzerare, il numero delle vittime. Sappiamo che è possibile, come dimostrano le esperienze di molte città europee e ora anche italiane, come ad esempio a Bologna, dove dopo l’introduzione della “Città 30” si è registrato un calo degli incidenti più gravi (-37,8%), insieme ad un aumento dell’uso della bicicletta (+12%), del bike sharing (+92%) e del trasporto pubblico (+11%). Esistono quindi strumenti efficaci per salvare vite umane e migliorare la vivibilità nelle città senza comprometterne la mobilità. Tra questi, la moderazione della velocità, con l'istituzione di zone a 30 km/h sempre più ampie, il potenziamento dei servizi di trasporto pubblico, l’uso di dispositivi previsti dal codice della strada come il restringimento dello spazio dedicato alle auto private, la condivisione della carreggiata, le piste ciclabili. Inoltre, è fondamentale un’azione di repressione dei comportamenti scorretti con una presenza più capillare delle forze dell'ordine e l’uso appropriato di strumenti tecnologici di controllo (autovelox) e i sistemi di sicurezza attiva a bordo dei veicoli.

Professoressa Giuliani, cosa sta facendo la Commissione per la Sostenibilità di Ateneo?
Come Commissione per la Sostenibilità di Ateneo abbiamo il compito di guidare l'Università verso un suo sviluppo sostenibile, anche sotto il profilo della mobilità urbana. Soprattutto non vogliamo che la percezione di una scarsa sicurezza scoraggi le migliaia di persone che popolano la nostra comunità universitaria a utilizzare la bicicletta per gli spostamenti. Il tema della sicurezza si aggiunge peraltro al già grave problema dell’esposizione dei cittadini e delle cittadine (a piedi o meno) all’inquinamento da particolati fini legato al traffico urbano, che la ricerca scientifica dimostra essere responsabile di migliaia di morti premature all’anno. Auspichiamo pertanto un cambiamento culturale nella concezione dell’uso della strada e che questo sia ampiamente condiviso anche nelle altre realtà cittadine. Anche alla luce dell’accordo sui temi della sostenibilità siglato tra la nostra università e il Comune di Pisa il 7 maggio scorso, siamo disponibili a collaborare con l’amministrazione comunale per trovare soluzioni che rendano la mobilità sostenibile e, soprattutto, sicura.

La qualità dell’aria è migliore se le donne comandano le istituzioni. La notizia arriva da uno studio condotto all’Università di Pisa e pubblicato sull’European Journal of Political Economy. L’analisi ha riguardato 230 regioni di 27 Paesi dell’Unione europea.

“I nostri risultati evidenziano una relazione positiva tra l'empowerment politico delle donne e la qualità dell'aria – spiega una delle autrici dello studio, la professoressa Lisa Gianmoena del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano - Questo suggerisce che le donne, quando occupano posizioni di potere, tendono ad adottare politiche ambientali più rigide e orientate verso la sostenibilità rispetto alle regioni governate da uomini e questo fenomeno può essere attribuito alla loro maggiore sensibilità e al loro impegno sociale”.

In particolare, questa correlazione positiva risulta evidente in numerose regioni del Nord Europa, tra cui Finlandia, Irlanda, Estonia, Svezia e Danimarca, mentre la maglia nera va alla Polonia, Ungheria e Romania. In Italia, la Valle d’Aosta si distingue per la qualità dell’aria migliore, mentre la Lombardia registra i livelli peggiori.

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A sinistra la distribuzione geografica della qualità dell'aria, a destra distribuzione geografica del potere politico femminile

Per realizzare lo studio ricercatori e ricercatrici hanno lavorato alla costruzione di un dataset a livello regionale che integrasse empowerment politico femminile e dati ambientali. Questa impostazione è stata fondamentale anche perché nel contesto europeo le condizioni ambientali e sociali possono variare notevolmente tra le diverse zone e sono poi le autorità sub-nazionali ad essere maggiormente responsabili dell’applicazione di direttive e standard ambientali nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda le donne, è stato utilizzato l’Indice di Empowerment Politico delle Donne (WPEI), considerando la loro presenza a vari livelli di governo (nazionale, regionale e locale).

“Per assicurarci che il rapporto tra empowerment politico femminile e qualità aria non fosse una "correlazione spuria", cioè puramente casuale – conclude Gianmoena - abbiamo testato altre variabili economiche e non economiche come lo sviluppo economico, il livello di istruzione, le innovazioni in tecnologie verdi, l'ideologia politica e la densità di popolazione. Tuttavia la relazione positiva tra empowerment politico femminile e qualità dell’aria è rimasta significativa, confermando la robustezza del risultato”.

Lisa Gianmoena è autrice dell’articolo insieme al collega Vicente Rios, docente del dipartimento di Economia e Management dell’Ateneo pisano. Entrambi collaborano con il centro di ricerca REMARC (Responsible Management Research Center) dell’Università di Pisa. Gli altri autori sono la dottoranda Izaskun Barba e il professore Pedro Pascual entrambi del dipartimento di Economia della Università Pública de Navarra, Spagna.

 

L’estratto dei germogli di Salicornia europaea è un rimedio per prevenire la steatosi epatica, conosciuta anche come “fegato grasso”, una condizione frequente e spesso asintomatica che però in alcuni casi può arrivare a compromettere l’organo e la sua funzionalità. A rivelare le virtù depurative di questa pianta mediterranea sempre più amata dagli chef è uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Antioxidants e condotto nell’ambito del progetto europeo HaloFarMs. Per la prima volta scienziati e scienziate hanno dimostrato che i germogli più giovani di salicornia hanno livelli significativamente più alti di composti bioattivi, come polifenoli totali, flavonoidi, flavonoli e antociani rispetto a quelli più vecchi.

“Alla luce di questi risultati, la salicornia emerge come un alimento prezioso da inserire nei pasti, soprattutto per coloro che soffrono di malattie cardiovascolari, disturbi epatici e steatosi”, commenta la professoressa Annamaria Ranieri dell’Università di Pisa.

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La salicornia è una pianta alofita, capace cioè di vivere in terreni salini e marginali in condizioni proibitive per la maggior parte della vegetazione. Qui la salicornia esercita una importantissima funzione ecologica: la sua capacità di estrarre i sali dal suolo serve infatti a contrastare l’impoverimento idrico dei terreni. Basti pensare che attualmente circa 18 milioni di ettari nel mondo, che corrispondono al 25% del totale delle terre irrigate nell’area Mediterranea e al 7% della superficie totale del pianeta, sono colpite dal fenomeno della salinità.

Oltre a questo fondamentale ruolo ecosistemico, la salicornia è quindi un alimento che può avere una funzione importante nella dieta – continua Ranieri – come emerge dalla nostra ricerca gli estratti di questa pianta testati su modelli animali evidenziando un recupero completo dalla steatosi epatica”.

Lo studio sulla salicornia si è svolto nell’ambito di HaloFarMs, un progetto finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dal Programma PRIMA, la Partnership per l’innovazione del settore idrico e agro-alimentare nell’area mediterranea promossa dall’Unione Europa con la partecipazione di 19 paesi

Alla base di HaloFarMs c’è l’idea di sviluppare e ottimizzare nuovi sistemi di agricoltura sostenibile basati sull'uso delle piante alofite. Oltre a desalinizzare il suolo, le alofite vengono studiate per impiegarle nell'industria cosmetica, alimentare e veterinaria. L'adozione da parte degli agricoltori dei risultati del progetto ha così l’obiettivo di diminuire la salinizzazione del suolo, aumentare le rese dei terreni senza esaurire le risorse di acqua dolce, e diversificare le fonti di reddito.

 

Per difendere i terreni dalle erbe infestanti e ridurre l’uso di erbicidi c'è una tecnica che consiste nell'inoculare i funghi simbiotici sui semi delle cover crops, cioè le colture usate per proteggere i terreni dall’erosione e aumentare la sostanza organica. Al fine di promuovere questa pratica, ricercatori e ricercatrici dei laboratori di Microbiologia dell’Università di Pisa hanno riprodotto nelle serre del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali i funghi autoctoni di vari paesi europei da distribuire agli agricoltori. L’attività rientra nel progetto europeo GOOD (AGrOecOlogy for weeDs) che proprio a Pisa il 28 al 29 maggio scorsi ha riunito i vari partner per il primo meeting ufficiale.

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I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds nella serra adibita alla riproduzione dei funghi simbionti autoctoni dei 16 Living Labs

“Gli scienziati arrivati a Pisa da undici paesi europei (Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Serbia, Spagna) hanno potuto visitare la nostra serra sperimentale dove si trovano oltre settanta vasi contenenti le piante “trappola” che utilizziamo per riprodurre i funghi simbiotici che poi vengono inoculati per incrementare l’abilità competitiva delle cover crops verso le erbe infestanti”, spiega la professoressa Alessandra Turrini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano.

I funghi simbiotici autoctoni riprodotti a Pisa saranno utilizzati per la concia del seme nei diversi living lab del progetto, dei veri e propri laboratori interattivi dove scienziati e scienziate portano avanti le ricerche insieme agli agricoltori.

L’obiettivo di GOOD è infatti trovare soluzioni innovative per gestire le erbe infestanti in Europa, aumentare la sostenibilità e resilienza degli agroecosistemi, promuovere la transizione agroecologica e ridurre la dipendenza dagli erbicidi, che rappresentano la seconda categoria di pesticidi più venduta in Europa.

I partecipanti al First Annual Meeting del Progetto Europeo GOOD - Agroecology for weeds

Il meeting pisano è stato organizzato da docenti e staff del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Alessandra Turrini responsabile della Unità Operativa, Monica Agnolucci, Luciano Avio e Manuela Giovannetti, coadiuvati dai giovani collaboratori Matteo Bellanca, Eleonora Granata, Arianna Grassi e Irene Pagliarani.

 

 

 

IPagli_Larosa.jpgl magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson della University of Iceland e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.

La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.

Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.

“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa - nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.

Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD alla University of Iceland dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso la University of Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.
Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).

Foto: Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar

Per la prima volta sarà possibile rendere potabile l’acqua contaminata da arsenico grazie ad una innovativa membrana. La notizia arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Water (della collana Nature Portfolio) e realizzata dall’ateneo pisano in collaborazione con l’Università della Calabria e l’Istituto per la Tecnologia delle Membrane del CNR.

La chiave di tutto è in un “monomero”, cioè una molecola che può essere incorporata in un polimero, che è stato sintetizzato nel gruppo “Liquidi Ionici” del Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano formato dai professori Christian Silvio Pomelli e Lorenzo Guazzelli. In particolare, la struttura del monomero è stata ispirata dal modo in cui l’arsenico interagisce con le proteine negli esseri viventi.

“Abbiamo incorporato il monomero all’interno di una membrana polimerica con cui sono stati realizzati i filtri che, a livello di laboratorio, si presentano come dei dischetti porosi attraverso i quali viene filtrata l’acqua – dice Lorenzo Guazzelli - Rispetto ad ogni altro sistema esistente, questa particolare membrana è in grado di rimuovere selettivamente l’arsenico senza privare l’acqua di altri sali fondamentali. L’acqua così filtrata non viene demineralizzata e diventa quindi potabile e direttamente adatta per il consumo umano”.

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Da sinistra, Christian Silvio Pomelli e Lorenzo Guazzelli



L’arsenico è uno degli elementi più tossici presenti in natura ed è stato classificato cancerogeno di classe 1 dall’OMS, che ne ha anche stabilito il limite massimo accettabile nelle acque potabili in 10 microgrammi per litro (μg/L). La contaminazione di fiumi e laghi può dipendere dall’inquinamento o avere cause naturali, specie nelle aree vulcaniche dove le acque passano su rocce che rilasciano questo elemento chimico. I bacini del Gange e del Brahmaputra in India sono fra le regioni più vaste del pianeta interessate da questo problema. Ma l’acqua contaminata da arsenico è un problema anche in Italia e, per esempio, riguarda quasi un milione di persone fra Toscana e Lazio.

“Dal punto di vista chimico l’arsenico si presenta in diverse forme – dice Christian Silvio Pomelli - la membrana sviluppata nell’ambito del nostro studio si è dimostrata particolarmente efficace anche nei confronti dell’arsenico III o arsenito, che in generale è anche la forma più difficile da rimuovere e la più tossica”.

L’arsenico è uno dei dieci contaminanti con il maggior impatto ambientale secondo la World Health Organization. La disponibilità di acqua potabile di buona qualità è sempre di più un tema all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. La ricerca che ha portato alla realizzazione della membrana è iniziata nel 2017 ed è andata estendendosi negli anni anche per la necessità di coordinare i tanti ricercatori sparsi in diversi continenti. Per affrontare la questione a livello globale, la collaborazione è stata infatti estesa in campo internazionale arrivando ad assemblare un gruppo di lavoro di dimensione planetaria. Per l’Italia, oltre all’Università di Pisa, hanno collaborato il professore Bartolo Gabriele e la professoressa Raffaella Mancuso del Dipartimento di Chimica e Tecnologie Chimiche dell’Università della Calabria, e il gruppo di ricerca di Alberto Figoli e Francesco Galiano dell’Istituto per la Tecnologia delle Membrane del CNR di Rende (CS).

L’articolo pubblicato su Nature Water è dedicato alla memoria della professoressa Cinzia Chiappe (1960-2019), fondatrice del gruppo “Liquidi Ionici” e figura importante nel campo della Green Chemistry in campo italiano ed internazionale.

 

“Smart Pebbles” o “Ciottoli smart” dotati di trasmittente per contrastare l’erosione delle spiagge e programmare efficaci interventi di salvaguardia. L’innovativo sistema è stato messo a punto dai professori Duccio Bertoni e Giovanni Sarti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa in collaborazione con Alessandro Pozzebon del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova. Negli ultimi 15 anni gli “smart pebbles” sono stati sperimentati in diverse località europee da Marina di Pisa sino alla Proménade des Anglais a Nizza.
“Si tratta di ciottoli al cui interno è inserita una trasmittente in modo da renderli rintracciabili a distanza di tempo grazie all’utilizzo di un’apposita antenna - spiega Bertoni - questo ci consente di mappare gli spostamenti della massa di ghiaia e di intervenire nel modo migliore”.

Il gruppo di lavoro pisano è stato chiamato a Nizza da Rémi Dumasdelage e Julien Larraun, gli ingegneri costieri responsabili della gestione del litorale della Municipalità di Nizza (Francia). A causa della ripida pendenza dei fondali, la spiaggia ghiaiosa della Proménade des Anglais ha infatti da sempre sofferto di un’intensa perdita di sedimenti, ma fin tanto che gli apporti del Fiume Var riusciva a bilanciarla, la spiaggia riusciva a mantenere l’equilibrio. Tuttavia, a seguito di interventi invasivi sul territorio da parte dell’uomo (ad esempio la costruzione dell’aeroporto di Nizza), il bilancio sedimentario è gradualmente diventato negativo. I ripascimenti artificiali sono stati l’unica misura realmente efficace per mitigare la perdita: tra il 1969 e il 2015 sono stati riversati circa 600.000 m3 di sedimento, con costi enormi sostenuti dalla Municipalità, senza contare l’impatto ambientale.

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Gli esperti del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano sono stati chiamati proprio per ottimizzare questi interventi. L’esperimento nella zona della Plage Fabron è durato complessivamente 48 ore e ha permesso di individuare alcune tendenze per quanto riguarda il trasporto di ciottoli in condizioni di lieve moto ondoso.

“Il movimento non è esclusivamente diretto verso il largo ma i sedimenti vengono trasportati lungo la riva definendo cicli di distruzione e ricostruzione – racconta Bertoni – indipendentemente dalla massa, che non ha influenza è poi fondamentale la forma dei ciottoli, quelli sferici escono infatti più rapidamente dal sistema spiaggia rispetto a quelli discoidali, semplicemente perché la gravità, unita ai moti delle onde, ne favorisce il rotolamento in profondità”.

Sulla base dei risultati evidenziati, pubblicati in aprile sulla rivista Ocean & Coastal Management, i manager costieri della Municipalità di Nizza hanno quindi pianificato i futuri ripascimenti favorendo l’utilizzo di ciottoli discoidali rispetto a quelli sferici. A fronte di un lieve aumento dei costi legati alla selezione del materiale corretto, il risparmio in termini di manutenzione ed integrazioni future è stato comunque valutato vantaggioso.
“Ma il contatto con la Municipalità di Nizza non finisce qui – conclude Sarti - e sono già allo studio ulteriori esperimenti volti a definire le caratteristiche di trasporto sedimentario su periodi più lunghi e su fasce più ampie del litorale”.

E’ nato MedGermDB, la prima banca dati che raccoglie le informazioni sulle condizioni sperimentali per far germinare i semi di oltre 300 piante native del Mediterraneo. Il lavoro coordinato dall’Università di Pisa ha come obiettivo la conservazione di questo fragile hotspot di biodiversità.

“Questo strumento ci consente di predire la germinazione di piante nel bacino Mediterraneo - racconta Angelino Carta, professore di Botanica sistematica nel dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – la sua creazione è un passo fondamentale per comprendere il rischio di estinzione delle specie native e per prevenire gli inconvenienti che possono derivare dalla perdita di questo capitale naturale”.
 
 
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Le informazioni raccolte nella banca dati riguardano oltre 4500 esperimenti di germinazione, in parte ricavati da un’analisi sistematica della letteratura esistente, in parte frutto di esperimenti ad hoc condotti dal gruppo di Pisa. A livello generale, la germinazione delle piante mediterranee è favorita da temperature fresche e da un periodo di post-maturazione in ambiente secco prima della germinazione. Il database è consultabile liberamente mediante una applicazione che consente di visualizzare le informazioni disponili per ogni specie.
“In questi mesi stiamo calibrando i modelli per predire la rigenerazione delle piante da seme in uno scenario di cambiamenti climatici e identificare quelle più adatte al restauro di ecosistemi mediterranei", aggiunge Diana Cruz, dottoranda presso il Dipartimento di Biologia che ha seguito tutte le fasi del lavoro.

Lo studio su MedGermDB è stato pubblicato sulla rivista Applied Vegetation Science. Al progetto hanno partecipato Alessio Mo collaboratore presso il Dipartimento di Biologia ed alcuni esperti internazionali: Eduardo Fernández-Pascual dell’Università di Oviedo (Spagna) ed Efisio Mattana dei Royal Botanical Gardens, Kew (UK). MedGermDB è parte integrante dell’archivio globale di dati della germinazione che è stato lanciato un paio di anni fa da un team internazionale che include anche Angelino Carta.
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