Dietro le quinte della Spedizione
Durante i sedici mesi di intenso lavoro lungo il Nilo, i membri della Spedizione avevano prodotto un’impressionante mole di documentazione, di cui, solo per la parte toscana, si conservano oggi circa millequattrocento disegni, numerose note manoscritte, appunti, carte e lettere, molti dei quali ancora inediti. Il fine stesso della Spedizione, restituire all’Egitto la propria storia ridando voce alla sua scrittura dimenticata per millenni, aveva contribuito a dare fascino e solennità all’impresa: “In mezzo a tanti e sì giganteschi resti di una delle più antiche civilizzazioni del mondo, quante volte ho desiderato che i miei amici d’Europa potessero far con me esperimento delle indicibili sensazioni che porvansi alla vista di cose sì grandi, sì antiche, sì famose!” (Ippolito Rosellini, Lettera a Vieusseux, febbraio 1830). Tuttavia, spesso ci soffermiamo sui risultati della Spedizione, considerati come un prodotto scientifico e documentario o tutt’al più estetico, cristallizzato in un’aurea di atemporalità, dimenticando che ogni disegno, ogni singola annotazione, ogni oggetto portato dall’Egitto, possiede una sua storia, legata a quella dei membri della Spedizione Franco-Toscana, interpreti e sceneggiatori allo stesso tempo di un’avventura agli inizi del XIX secolo. I meravigliosi disegni tratti dal tempio di Abu Simbel, che raffigurano le scene di battaglia del faraone Ramses II contro gli Ittiti, nascono da un duro ed emozionante lavoro, ai limiti delle possibilità umane: “Ed io non posso trattenermi sul pensiero di quello stupendo monumento, né gettar gli occhi su queste tavole, senza ammirare la coraggiosa perseveranza dei giovani disegnatori che le eseguirono (…).
La difficoltà nell’entrare, e il pericolo di restare là dentro soffocati e sepolti, erano minima cosa al paragone dell’angoscia che si provava al primo penetrare in quell’aere senza moto, tenebroso, umido ed infuocato. Le fiaccole diradavano intorno a noi il bujo e il vapore e si rendeva possibile il trattenervisi per disegnar le figure e copiare le iscrizioni”. La realizzazione delle meravigliose piante dei monumenti come appare oggi, precisa e metodica, sui fogli e sulle carte riportati dalla Spedizione era stata compiuta con grande difficoltà di mezzi e in un ambiente spesso ostico, tra pozzi e covi di serpenti, creando malumori e disagi: “Il lavoro di levare il piano di questa tomba è molto faticoso e pericoloso, perché mi costringe di passare i sotterranei e vicino ai Pozzi, ove per tutto vi sono scorpioni e serpi velenosissimi” (dal Giornaletto di Gaetano Rosellini, 6 ottobre 1828), a volte ai confini stessi dell’umorismo, “Io meno una vita strapazzatissima. Dalla mattina alla punta del giorno fino alla sera lavoro sempre. Mi fanno poi perdere moltissimo tempo, perché non mi danno un lavoro di seguito, ma mi fanno andare ora in un luogo ora in un altro. Non mi danno neppure i mezzi di fare bene; giacché mi fanno levare dei piani e mi negano un uomo che mi assista. Mi fanno fare de’ disegni tutti coloriti di mobili e altri oggetti, e non vogliono darmi, come hanno dato agli altri la cassetta dei colori” (dal Giornaletto di Gaetano Rosellini, 2 novembre 1828). La vita lungo il Nilo non era certo agevole, spesso resa ancora più complessa dalle difficoltà dell’ambiente: per lungo tempo i membri della Spedizione avevano avuto barche e tende come sola dimora, una situazione che in altri casi, e tempi, avrebbe consumato le energie di chiunque: “La nostra salute è ottima, soprattutto perché abbiamo convenuto di ridere di tutte le cose che in altre occasioni avrebbero infastidito non poco. Per esempio, ridiamo dei topi che abbiamo nelle nostre barche in tale quantità da far credere ogni notte che si sia ad una festa da ballo” (Lettera di Ippolito Rosellini alla moglie Zenobia, 24 novembre 1828). Tuttavia, pur tra le molte difficoltà e, talvolta, gli inevitabili malumori, tra le pagine del diario di Rosellini emerge nitido l’incanto con cui i membri della Spedizione scoprivano e facevano proprio un mondo diverso, allora pressoché sconosciuto in Europa,
fatto non solo di geroglifici, monumenti e iscrizioni ma di persone, luoghi, vicende, curiosità: “Questa sera sono andato con la maggior parte dei nostri a bagnarsi al Nilo. Quella specie di palizzata (fatta costruire per tenere lontani i coccodrilli, nda) era chiusa tutta di foglie di palme e tra queste molte mazze di mimosa nilotica tutte piene di fiori, i quali tramandavano nel bacino un tale odore, che pareva un bagno creato per incantesimo” (dal Giornale di Ippolito Rosellini, 15 maggio 1829). Anche nelle situazioni meno confortevoli, quando avevano dovuto dormire nelle antiche tombe, i membri della Spedizione, grazie al loro entusiasmo e alla consapevolezza dell’impresa che stavano sostenendo, erano riusciti a trovare gli aspetti positivi delle loro vicende; d’altronde passare dalle barche alla tomba del faraone Ramses IV nella Valle dei Re equivaleva a trasferirsi in una vera e propria dimora “principesca”, come con fine ironia commentava Champollion in una sua lettera. Anche le più importanti scoperte archeologiche avevano una loro storia, fatta di lunghe attese, di discussioni e contrattazioni a lume di candela, dopo estenuanti giornate di lavoro, al tavolo con gli abitanti del luogo per ottenerne preziose informazioni: “Ordinai a Chalìl di dargli un bicchierino di acqua pura. Di che mostrando l’arabo, nel gustarla, di essere sorpreso, gli feci dire che questa è l’acqua di un ‘credente’. Rispose: ‘Sono forse io il primo musulmano che beva acquavite?’” (dal Giornale di Ippolito Rosellini, 3 marzo 1829). Anche se i rinvenimenti non erano sempre eccezionali, spesso però i racconti dei membri della Spedizione non riescono a celare l’emozione di trovarsi di fronte ad un mondo lasciato pressoché intatto dallo scorrere del tempo: “Rimossi gli altri mattoni, fummo noi i primi a turbare il silenzio e le tenebre che da tanti anni regnavano in quella stanza” (Dalla Sesta Lettera ai Colleghi di Ippolito Rosellini, 15 maggio 1829); “La bocca dello scavo era ancora chiusa; scesi nel pozzo mentre l’aprivano (…). Non poteva scendersi che incomodissimamente puntando spalle e braccia alle pareti, mentre, secondo il solito, cadevano sempre giù sassi e terra (…). La polvere, il caldo, e l’orrore del luogo, toglievano il respiro. A destra del pozzo era il foro che introduceva nella cameretta. Giacevano entro la grotta due mummie col capo rivolto verso l’apertura (…)” (dal Giornale della Spedizione di Ippolito Rosellini, 20 maggio 1829); “V’entrammo: un silenzio profondo si fece senza volerlo da tutti noi; lo stesso respiro si tratteneva. Tanta fu la sorpresa, la meraviglia, lo stupore, che ci resi in quel momento muti” (tratto dal racconto di un’escursione notturna al tempio di Dendera, dal Giornale della Spedizione di Ippolito Rosellini, 16 novembre 1828).
Gianluca Miniaci
assegnista di ricerca - dipartimento di Scienze storiche del mondo antico.