La medicina come missione
Il chirurgo pisano Fabrizio Michelassi insignito
del “Campano d’Oro” 2010
Il 7 giugno scorso è stato conferito al professor Fabrizio Michelassi, chirurgo di fama mondiale, il “Campano d’Oro” 2010, il prestigioso riconoscimento che l’Associazione laureati dell’Ateneo pisano (ALAP) assegna ogni anno a personalità di chiara fama internazionale che si sono laureate a Pisa. La cerimonia, ospitata nell’Aula Magna Storica della Sapienza, si è aperta con i saluti del prorettore per i Rapporti con il territorio, Fabio Carlucci, e l’intervento del direttore del dipartimento di “Oncologia, trapianti, nuove tecnologie in medicina”, Franco Mosca. Dopo la lettura delle motivazioni del conferimento da parte del presidente dell’ALAP, Attilio Salvetti, sono seguite la premiazione e la relazione del professor Michelassi.
Allievo della Scuola medica pisana e del Collegio medico giuridico, il professor Fabrizio Michelassi si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia a Pisa nel 1975. Sempre a Pisa si è diplomato in Chirurgia generale, avendo nel contempo già iniziato il percorso formativo americano, alla New York University e alla Harvard Medical School. La cerimonia è stata aperta dai saluti del prorettore ai rapporti con il territorio Fabio Carlucci, che ha ricordato le tappe professionali del medico: “Nel 1984 Fabrizio Michelassi è stato nominato professore alla Chicago University, diventando in breve tempo direttore della Chirurgia generale e vice direttore del dipartimento Chirurgico. Dal 2004 è direttore del dipartimento di Chirurgia dell’Università Cornell di New York. Oggi Michelassi è chirurgo di fama internazionale, universalmente apprezzato per le capacità cliniche, tecniche, scientifiche e organizzative. Per il trattamento delle malattie infiammatorie dell’intestino ha messo a punto procedure chirurgiche che portano il suo nome e le pubblicazioni scientifiche relative a questa patologia, di cui è massimo esperto, sono universalmente note. Il professor Michelassi ha speso parte della sua attività nella formazione dei giovani chirurghi, anche pisani. Grazie all’opera di tutoraggio, ha reso possibile lo sviluppo a Pisa di importantissime attività e, più in particolare, della chirurgia vascolare e del trapianto di fegato”. Dopo i saluti del prorettore Carlucci, il professor Franco Mosca ha pronunciato la laudatio al vincitore del “Campano d’Oro” 2010. Ripercorrendo le tappe umane e professionali che hanno portato il medico italiano a diventare uno dei chirurghi più affermati a livello internazionale, il professor Mosca ha ricordato le doti e i meriti che lo hanno contraddistinto sin dai primi anni universitari. Fabrizio Michelassi ha iniziato a frequentare la sala operatoria fin dal primo anno di corso, dimostrando una grande curiosità e una grande voglia di imparare i segreti della professione chirurgica: “La vivacità intellettuale di Michelassi è quella che poi lo ha spinto a visitare altre realtà e altri mondi, fino a portarlo alla decisione di specializzarsi negli Stati Uniti. Nel suo caso, però, non si può parlare di un cervello in fuga, ma semplicemente di un cervello libero: Fabrizio Michelassi non è mai stato in fuga dall’Italia, anzi periodicamente è sempre rientrato. Già affermato chirurgo a livello internazionale, ha sempre avuto grande attenzione per la sua università e i suoi amici in Italia, che non ha mai perso di vista”. Il professor Mosca, insieme a tanti ricordi umani e personali, ha tracciato il quadro di una figura di grande caratura intellettuale e autorevolezza, un esempio per i giovani capaci e impegnati che si avviano alla professione medica: “La grande disponibilità del chirurgo generale, che dai grandi maestri ha appreso sempre il meglio sviluppando la sua ecletticità, la grande precisione, il rispetto di condurre le strutture, la capacità di seguire le innovazioni tecnologiche con attenzione e prudenza, le sue riconosciute doti umane rendono Fabrizio Michelassi il candidato ideale a ricevere l’onorificenza del Campano d’oro”.
L’intervento di Fabrizio Michelassi
Come prima cosa vorrei ringraziare l’Associazione laureati dell’Ateneo pisano per avermi conferito il Campano d’oro 2010, onorato e conscio del valore prestigioso di questa onorificenza, simbolo della secolare tradizione universitaria pisana e ben conoscendo la valenza di coloro che mi hanno preceduto. Con umiltà e gratitudine voglio cogliere questa occasione per ringraziare l’Università di Pisa per avermi dato la formazione che mi ha preparato per un viaggio professionale ricco di grandi soddisfazioni.
Gli anni della formazione
Ho frequentato la facoltà di Medicina dal 1969 al 1975 e nello scrivere queste riflessioni mi sono ricordato di tanti episodi vissuti in quegli anni con professori e colleghi, dalla conquista del camice bianco, momento significativo nella maturazione da studente a medico, fino alle cliniche e alla sala operatoria, un patrimonio culturale immenso che mi ha preparato per una vita da medico e chirurgo. Già allora ero ben consapevole dell’educazione ricevuta dalla Scuola pisana, del significato di essere stato alunno del Collegio medico-giuridico negli anni formativi dell’istruzione universitaria. Pisa mi ha dato una formazione basata sul rispetto per la cultura e la conoscenza, sulla disciplina nell’apprendimento, sulla oculatezza nell’integrare il progresso con la tradizione. Un vademecum di coordinate, il cui valore inestimabile mi ha dato l’opportunità di raggiungere traguardi professionali impensabili, impresa resa ancora più complessa perché realizzata in un sistema educativo differente e in una cultura straniera. Come ha detto il professor Mosca, fu il desiderio e la curiosità di specializzarsi in un sistema differente dal nostro che mi convinse ad andare negli Stati Uniti nel 1977. Fu una decisione di estrema difficoltà, che contrapponeva la serenità degli affetti familiari, la certezza degli amici e la qualità della Scuola chirurgica pisana alla opportunità di sperimentare un iter formativo diverso dal nostro. Arrivai negli Stati Uniti con una educazione universitaria di prima qualità e un bagaglio culturale ricco. Andai pensando di tornare in Italia dopo cinque anni di specializzazione in Chirurgia generale e durante quegli anni trovai un sistema che ben mi si confaceva. Presto riuscii ad avere i miei primi successi, forse a un’età più giovane di quanto avrei potuto sperare se fossi rimasto in Italia. Una volta sposato, con bambini e con una carriera ben instradata, diventò improponibile ritornare in Italia. Ma i valori impartiti dalla facoltà di Medicina di Pisa rimasero con me, l’importanza della fiducia reciproca come base del rapporto medico-paziente, guarire malati quando è possibile, migliorare la loro qualità di vita quando la guarigione non è possibile, essere di supporto e conforto quando nient’altro è ottenibile, agire nell’interesse dei pazienti anche se ciò è contrario al proprio interesse e senza discriminazione di razza, ceto o religione, mantenere il segreto professionale, impegnarsi personalmente nella formazione delle nuove generazioni di nuovi medici, investire nella ricerca per migliorare le conoscenze alla base delle nostre decisioni terapeutiche. Questi principi formativi che costituiscono la base della pratica clinica e della attività accademica mi sono stati impartiti qui, alla facoltà di Medicina della nostra Università di Pisa e di questo continuo ad esserle grato.
L’insegnamento dell’Università di Pisa
Ma ci sono altri doni che ho ricevuto dalla facoltà di Medicina, uno lo ritengo molto importante: il senso di scopo, di finalità, che mi ha aiutato a comprendere negli anni il mio ruolo di medico, insegnante, ricercatore, a darmi una fonte di forza nel mio lavoro quotidiano e a sostenermi durante momenti difficili, ad accettare riconoscimenti ed elogi nella giusta prospettiva, a sentirmi realizzato e soddisfatto, a guardare al futuro con grande ottimismo. Questo stesso senso di scopo mi ha portato a farmi ambasciatore del nostro sistema universitario negli Stati Uniti: il successo che ne ho derivato è dovuto in grande parte alla istruzione che ho ricevuto qui. Un altro dono prezioso che ho ricevuto dalla facoltà di Medicina è il senso di appartenenza alla professione. Con grande saggezza e lungimiranza la professione nostra ha costruito ambienti e strutture che ci permettono di esercitare la nostra professione: le facoltà di Medicina, ove avviene l’insegnamento, e gli ospedali, ove si curano gli infermi. Qui a Pisa ho maturato il senso di appartenenza sia agli uni che agli altri. Oggi siamo testimoni di una evoluzione esponenziale di queste strutture che usiamo per insegnare, diagnosticare, curare e palliare. Queste strutture variano da ambulatori semplici, come quello che usava mio nonno come medico condotto, a ospedali con mille letti, cento sale operatorie e tecnologie sempre più avanzate, da ospedali cittadini a cliniche universitarie. Questi sono posti dove si nasce, si muore, si provano gioie e dolori inimmaginabili, dove si sorride con un senso di realizzazione professionale davanti a un successo e si piange con un senso di disperazione profonda davanti a un insuccesso. Peraltro tutte queste strutture condividono un denominatore comune: la prevenzione, la diagnostica e la terapia. Questo scopo, questa missione eleva queste strutture da semplici posti di lavoro a santuari di cura. La facoltà di Medicina mi ha dato il dono di sentirmi a mio agio in questi santuari.
L’esperienza americana
Maturata nella vecchia Clinica chirurgica pisana, la capacità di sentirmi a mio agio negli ambienti clinici mi fu molto utile al mio arrivo a New York nel 1977, quando iniziai la mia specializzazione in Chirurgia negli Stati Uniti. Con me portai un bagaglio e un esempio di valori che mi aiutarono immensamente. Come studente a Pisa avevo notato e apprezzato come chirurghi di grande esperienza basavano molte delle loro decisioni su una anamnesi e una semeiotica accurata, usando valori di laboratorio e test radiologici in grande parte solo per conferma della loro intuizione clinica. Negli Stati Uniti, con la proliferazione della tecnologia, questo era meno spiccato io comunque continuai a raffinare le mie qualità di diagnosta, senza peraltro negare l’importanza dell’indicazione dei test di laboratorio e radiologici. Questo atteggiamento, imparato qui a Pisa, mi ha dato non poche soddisfazioni nell’esercizio di una medicina efficiente e senza sperperi di risorse. Come italiano conosco anche l’importanza della pazienza: gli americani sono sempre proiettati verso il traguardo finale e sono impazienti nel raggiungerlo, mentre noi italiani sappiamo attendere il momento giusto, aspettando ad agire se ci sono ostacoli difficili e insormontabili. Quando arrivai a Chicago come giovane assistente nel 1984, il responsabile della Chirurgia generale era un chirurgo molto conosciuto per la sua personalità difficile e irascibile. Io fui assegnato a lui come giovane assistente. Venni subito a sapere che ero il quarto assistente che gli veniva assegnato negli ultimi anni e gli altri se ne erano tutti andati dopo poco perché non riuscivano a sopportare la sua personalità. Ebbene vi confesso che non fu facile, ma non fu nemmeno impossibile: un po’ alla volta, proponendomi in maniera sempre più utile di giorno in giorno sia per la clinica che per la produzione accademica e mai minimizzando la sua posizione di responsabile, riuscii a guadagnarne la fiducia e a stabilire un rapporto vincente per tutti e due. Dieci anni dopo, succedetti a lui come responsabile della Chirurgia generale e vice direttore del dipartimento. Una lezione osservata e imparata qui in Italia. Ma avendo ormai passato la maggior parte della mia vita professionale negli Stati Uniti, posso davvero dire di apprezzare alcune caratteristiche di questo paese, una che ritengo estremamente importante nella nostra professione è l’obbligo di un costante aggiornamento culturale come base essenziale per l’esercizio della professione. Un’altra caratteristica è lo sforzo costante per migliorare la qualità della medicina a livello istituzionale e dell’individuo: da sempre le complicanze sono discusse apertamente in apposite conferenze settimanali con lo scopo di capire se sono state causate da problemi associati con l’individuo o con il sistema e per prendere provvedimenti necessari che prevengano il ripetersi delle stesse complicanze. Un altro vantaggio offerto dalla tradizione americana è la cultura della filantropia: se vogliamo progredire più velocemente, se vogliamo investire nelle nuove tecnologie, se vogliamo elevare la didattica con le tecnologie più interattive e moderne, se vogliamo investire nella ricerca per un futuro migliore, allora abbiamo bisogno di un aiuto attraverso un supporto filantropico, che a New York ci consente di definire e creare un futuro eccitante. usava mio nonno come medico condotto, a ospedali con mille letti, cento sale operatorie e tecnologie sempre più avanzate, da ospedali cittadini a cliniche universitarie. Questi sono posti dove si nasce, si muore, si provano gioie e dolori inimmaginabili, dove si sorride con un senso di realizzazione professionale davanti a un successo e si piange con un senso di disperazione profonda davanti a un insuccesso. Peraltro tutte queste strutture condividono un denominatore comune: la prevenzione, la diagnostica e la terapia. Questo scopo, questa missione eleva queste strutture da semplici posti di lavoro a santuari di cura. La facoltà di Medicina mi ha dato il dono di sentirmi a mio agio in questi santuari. L’esperienza americana Maturata nella vecchia Clinica chirurgica pisana, la capacità di sentirmi a mio agio negli ambienti clinici mi fu molto utile al mio arrivo a New York nel 1977, quando iniziai la mia specializzazione in Chirurgia negli Stati Uniti. Con me portai un bagaglio e un esempio di valori che mi aiutarono immensamente. Come studente a Pisa avevo notato e apprezzato come chirurghi di grande esperienza basavano molte delle loro decisioni su una anamnesi e una semeiotica accurata, usando valori di laboratorio e test radiologici in grande parte solo per conferma della loro intuizione clinica. Negli Stati Uniti, con la proliferazione della tecnologia, questo era meno spiccato io comunque continuai a raffinare le mie qualità di diagnosta, senza peraltro negare l’importanza dell’indicazione dei test di laboratorio e radiologici. Questo atteggiamento, imparato qui a Pisa, mi ha dato non poche soddisfazioni nell’esercizio di una medicina efficiente e senza sperperi di risorse. Come italiano conosco anche l’importanza della pazienza: gli americani sono sempre proiettati verso il traguardo finale e sono impazienti nel raggiungerlo, mentre noi italiani sappiamo attendere il momento giusto, aspettando ad agire se ci sono ostacoli difficili e insormontabili. Quando arrivai a Chicago come giovane assistente nel 1984, il responsabile della Chirurgia generale era un chirurgo molto conosciuto per la sua personalità difficile e irascibile. Io fui assegnato a lui come giovane assistente. Venni subito a sapere che ero il quarto assistente che gli veniva assegnato negli ultimi anni e gli altri se ne erano tutti andati dopo poco perché non riuscivano a sopportare la sua personalità. Ebbene vi confesso che non fu facile, ma non fu nemmeno impossibile: un po’ alla volta, proponendomi in maniera sempre più utile di giorno in giorno sia per la clinica che per la produzione accademica e mai minimizzando la sua posizione di responsabile, riuscii a guadagnarne la fiducia e a stabilire un rapporto vincente per tutti e due. Dieci anni dopo, succedetti a lui come responsabile della Chirurgia generale e vice direttore del dipartimento. Una lezione osservata e imparata qui in Italia. Ma avendo ormai passato la maggior parte della mia vita professionale negli Stati Uniti, posso davvero dire di apprezzare alcune caratteristiche di questo paese, una che ritengo estremamente importante nella nostra professione è l’obbligo di un costante aggiornamento culturale come base essenziale per l’esercizio della professione. Un’altra caratteristica è lo sforzo costante per migliorare la qualità della medicina a livello istituzionale e dell’individuo: da sempre le complicanze sono discusse apertamente in apposite conferenze settimanali con lo scopo di capire se sono state causate da problemi associati con l’individuo o con il sistema e per prendere provvedimenti necessari che prevengano il ripetersi delle stesse complicanze. Un altro vantaggio offerto dalla tradizione americana è la cultura della filantropia: se vogliamo progredire più velocemente, se vogliamo investire nelle nuove tecnologie, se vogliamo elevare la didattica con le tecnologie più interattive e moderne, se vogliamo investire nella ricerca per un futuro migliore, allora abbiamo bisogno di un aiuto attraverso un supporto filantropico, che a New York ci consente di definire e creare un futuro eccitante.
La sintesi tra due culture
Mi sento molto fortunato a essere il prodotto di due culture e oggi cerco di trarre beneficio dalle caratteristiche positive di ambedue i paesi per la mia crescita professionale e per la gestione del Dipartimento di Chirurgia alla Cornell. Ringrazio mia moglie per essere stata una guida costante in una cultura straniera, con la sua guida ispirata e generatrice di ispirazione, che mi ha trasformato da uno straniero in una persona completamente integrata. Concludo dedicando queste riflessioni a quanti si accosteranno nel futuro agli studi medici in tutte le parti del mondo e tra loro a mio figlio Francesco che a settembre inizierà a studiare Medicina. Loro rappresentano il nostro futuro, il progresso necessario perché l’evoluzione continui sulla base della tradizione millenaria che abbiamo accumulato. Tutti loro si accingeranno a intraprendere lo stesso viaggio che molti di noi hanno percorso. A loro auguro che possano trovare nella nostra professione le stesse soddisfazioni umane e professionali che mi hanno sostenuto nei trentacinque anni passati. Questa cerimonia, presa nel giusto contesto, celebra il prodotto della educazione superiore universitaria pisana piuttosto che l’individuo singolo. Un grazie di cuore a tutti.
Francesca Ferretti
f.ferretti@adm.unipi.it