Scrittori inglesi a Pisa
Grand Tour e impressioni sulla città e sull’Ateneo
Da sempre Pisa è una delle mete preferite dei viaggiatori inglesi, che nei secoli hanno lasciato le loro impressioni e le loro testimonianze sulla città e sull’Ateneo. Con il professor Mario Curreli, direttore del dipartimento di Anglistica, abbiamo ripercorso i ricordi tramandati dagli scrittori inglesi e americani che, in grande maggioranza, hanno espresso giudizi equilibrati e altamente elogiativi non solo sui luoghi più celebri di Pisa e del territorio circostante, ma anche sul suo clima, sulla sua storia e sulla cortesia dei suoi cittadini. Il volume, intitolato Scrittori inglesi a Pisa: viaggi, sogni, visioni dal trecento al Duemila, è stato pubblicato dalle Edizioni ETS.
Le impressioni che illustri viaggiatori hanno espresso nei secoli sulla città di Pisa sono contrastanti e in alcuni casi, come è avvenuto recentemente per degli articoli di stampa sul suo volume Scrittori inglesi a Pisa, sono stati enfatizzati i giudizi negativi di alcuni scrittori inglesi.
Questi giudizi hanno un effettivo riscontro nella generalità delle testimonianze?
Direi di no: il mio volume non contiene soltanto critiche negative. Ho raccolto, senza censure pro bono patriae, descrizioni di viaggi a lungo sognati e visioni estatiche di monumenti fioriti, come per miracolo, su un prato che, per gli inglesi, non ha uguali in Italia e nel mondo. Inizialmente, Percy e Mary Shelley, Charles Dickens o John Ruskin hanno registrato impressioni di disgusto per una città decaduta e quasi disabitata, piena, come oggi, di mendicanti (allora autoctoni, ora d’importazione) e con le strade ben lastricate ma invase dalle erbacce. Poi, però, dopo essersi guardati intorno, non hanno mancato di riferire i loro cambiamenti di opinione, non appena sono stati in grado di apprezzare questa Città del Silenzio - la stessa amata da Leopardi e D’Annunzio - nella quale si svolgeva una fervida attività intellettuale che, dalle aule della Sapienza, si spargeva nelle librerie e nei negozi di stampe, nei caffè dei lungarni, nei teatri pubblici e nei saloni di Casa Prini o Mastiani, Aulla o Roncioni.
Sull’argomento degli scrittori stranieri a Pisa lei si è già soffermato altrove?
Sì, sull’amore nutrito, non solo da Percy e Mary Shelley, per Pisa, i suoi monumenti e i lungarni luminosi, mi sono soffermato in passato in alcune pubblicazioni, oltre che negli atti di una mostracongresso, “Paradiso degli esuli”, da me organizzata più di vent’anni fa a Palazzo Lanfranchi. Ho esteso questo mio hobby anche ai rapporti degli scrittori stranieri con i Bagni di San Giuliano e Livorno, e ho chiarito, per esempio, che Ezra Pound non è mai stato rinchiuso in gabbia a Coltano, bensì nel Disciplinary Training Center dei militari alleati a Metato. In particolare, per quanto riguarda i giovani esuli romantici, ho evidenziato come, tornata a Pisa il 26 gennaio 1820, superando l’iniziale disappunto di Mary per la vista dei galeotti impiegati in lavori stradali, la giovane coppia di scrittori inglesi avesse gradualmente imparato ad apprezzare il vantaggio di vivere in una città silenziosa, dal clima mite, situata al centro di una bella campagna, orlata da una pineta balsamica, oltre la quale “rugge” quello che Percy chiama l’Oceano. Inoltre, come ho illustrato anche altrove, questa dotta cittadina universitaria ospitava da anni, in incognito, una certa Signora Mason, nome assunto da Margaret King, ex contessa di Mountcashell, una scrittrice anglo-irlandese che, in gioventù, era stata allieva e grande ammiratrice della madre di Mary Shelley. Negli ultimi quattro anni della sua breve vita, Percy Shelley, dopo soste più o meno lunghe a Livorno, Roma, Napoli e Firenze, è sempre tornato con la moglie a stabilirsi in questa città, che lo aveva affascinato. Lo stesso Dickens, dopo il disgusto iniziale per le torme di mendicanti che assediavano le comitive di turisti, si era fermato in città anche in viaggi successivi, portando qui il collega Wilkie Collins. Quest’ultimo avrebbe poi ambientato un suo romanzo a Pisa, seguendo l’esempio di Godwin e della Radcliffe, e anticipando Virginia Woolf, la Dinesen e Agata Christie. Per non parlare di un estetologo come Ruskin, che per decenni torna qui a trascorrere lunghi periodi di studio dell’arte pisana, o di un romanziere del calibro di Henry James: entrambi hanno dedicato pagine magistrali a Pisa, eleggendola, accanto a Firenze e Venezia, a città d’arte con “un fascino di primissimo ordine”.
In questa città, in cui molti Inglesi sono venuti a stabilirsi per trascorrere in pace la vecchiaia, anche a James sarebbe piaciuto attendere la fine, seduto a gustarsi un gelato al Caffè dell’Ussero, con un orecchio attento a cogliere i discorsi degli studenti della vicina Università, che gli fornivano “un’immagine precisa della mentalità e del modo di vivere dei giovani italiani.”
Lei scrive che, dopo il periodo dei lunghi soggiorni, con l’invenzione del treno, si infittiscono anche a Pisa le visite “mordi e fuggi”?
Sì. Con i nuovi ritmi resi possibili fin dalla seconda metà dell’Ottocento dall’espansione delle linee ferroviarie, turisti americani, come Herman Melville e Mark Twain, o inglesi, come Thomas Hardy e Norman Douglas, subito dopo una breve visita alla celebre Piazza proseguono per Firenze e Roma, Napoli e Capri. Tuttavia, proprio sul treno alcuni di essi hanno composto a caldo una poesia per Pisa, da me trascritta nel volume in originale e in traduzione, così come ho riportato i versi dedicati a questa piccola città cosmopolita dalla gallese Hester Lynch Piozzi, dall’inglese Mariana Starke, dall’americano Ezra Pound, o dall’australiano Peter Porter. Ai giudizi sempre equilibrati e spesso altamente elogiativi dell’altro centinaio di scrittori da me scrutinati, si accompagnano i veri e propri peana dedicati dai viaggiatori anglofoni a Pisa e alle sue pinete, alla Marina e ai Bagni di San Giuliano. Già a metà Settecento, Horace Mann afferma di aver trascorso “una settimana ai Bagni di Pisa, località che preferisco a qualsiasi altra in Toscana” e di aver ricavato effetti benefici “dall’eccellenza di quelle acque”. Alla fine del secolo, Mrs Piozzi giudica il bagno freddo di San Giuliano “il più delicato che si possa immaginare” in un luogo “che supera ogni descrizione”.
Dal Trecento ad oggi, tutti questi illustri viaggiatori e viaggiatrici hanno contribuito a intonare un coro straordinariamente lusinghiero di apprezzamenti per la posizione, il clima, la storia, i monumenti di Pisa e la cortesia dei suoi cittadini, apprezzata persino dall’ipocondriaco Smollett. Accanto all’ammirazione scontata per i gioielli architettonici di Piazza del Duomo e al rammarico per lo stato di deplorevole abbandono degli affreschi del Campo Santo, non mancano lodi per l’Orto Botanico, visitato e descritto da insigni scienziati, o per l’antico Ospedale di Santa Chiara, di cui un maestro dei Romantici come Coleridge apprezza sia le spaziose corsie, sia gli imponenti cancelli in ferro battuto.
Ci sono nel libro commenti dei turisti sull’Ateneo pisano?
Certamente. Di particolare interesse per i lettori di Athenet appaiono i commenti di Edward Southwell, il quale, nel 1725, nota come all’Università tutti indossino cappe o toghe nere e portino coccarde rosse o blu sul berretto: “ci hanno detto che stavano a indicare per chi si erano schierati nella scelta del Rettore.” Cinque anni più tardi, Keyssler, tedesco anglicizzato e socio della Royal Society, osserva che, nonostante abbia sofferto del decadimento generale (“le disgrazie della città”), all’Università non mancano “collegi e dotazioni, né professori capaci, tutti di nomina granducale.” Se, a metà Settecento, Thomas Nugent osserva come l’Università abbia “un gran numero di collegi, il principale dei quali è la Sapienza, in cui i professori tengono le loro lezioni pubbliche”, aggiungendo che “accanto ad essa ci sono i collegi Puteano, Ferdinando, Ricci e altri”, alla fine del secolo Horace Mann descrive i preparativi per un gran ballo che si terrà nel grande cortile della Sapienza.
Ai primi dell’Ottocento, lo scozzese Joseph Forsyth dedica ben due pagine dei suoi Remarks alla nostra prestigiosa Università, notando fra l’altro come l’Osservatorio, con annessa scuola di astronomia, non annoveri neppure uno studente “a disturbare il riposo del Dr Slop”, come Pisa sia stata la seconda scuola di Diritto in Italia, grazie anche alla presenza del manoscritto delle Pandette, e come lo studio dell’algebra sia stato qui introdotto dal Fibonacci. Nel 1821 l’anglo-irlandese John Eustace, docente di antichità classiche a Cambridge, descrive gli alti e i bassi del nostro Ateneo che, seppur decaduto ma restaurato da Lorenzo il Magnifico, continua ad ospitare molti professori eminenti. John Cam Hobhouse, venuto a trovare Lord Byron, sfarzosamente alloggiato nel Palazzo Lanfranchi (poi Toscanelli e oggi sede dell’Archivio di Stato) riferisce come l’amico Poeta non sia piaciuto ai pisani “poiché non ha voluto far comunella con loro e con i professori dell’Università.” Nel 1836, l’americano Wilbur Fisk, dopo aver deprecato che al tempo delle campagne napoleoniche i cortili della Sapienza fossero stati adibiti a stalle della cavalleria francese, descrivendo la nostra Biblioteca, ricca allora di quarantamila volumi, osserva: “mi ha fatto piacere vedere le opere dei più eminenti riformatori accanto a quelle degli autori cattolici” e, dopo aver lodato “l’ottimo museo di storia naturale”, aggiunge: “L’accesso alla biblioteca è libero, e le lezioni, come in Francia, sono libere e aperte a chiunque voglia assistere.”
Cosa ha significato per Pisa tutta questa pubblicità gratuita?
All’eco di questi mitizzati soggiorni dei grandi Romantici inglesi e dei primi “Innocenti (yankee) all’estero” si deve l’imperitura fama della città presso moltitudini di loro connazionali, i quali, fra Otto e Novecento, hanno eletto Pisa a meta ideale dei loro viaggi, contribuendo alla fioritura sui lungarni di tutta una serie di locande, caffè eleganti e grandi alberghi. Per non parlare del vecchio galoppatoio lorenese, cui dette nuovo impulso Thomas Rook, con relativo contorno di avvenimenti mondani e attività artigianali indotte dallo svernamento fra Barbaricina e San Rossore di purosangue inglesi e irlandesi. Proprio alla fama acquisita dalla città si deve il fatto che, programmando la loro romantica fuga d’amore in Italia, Elizabeth Barrett e Robert Browning avessero deciso di stabilirsi a Pisa, dove trascorsero il loro primo inverno da sposati, per ripercorrere le orme dei loro illustri predecessori. Al momento di partire da Londra, Browning pregò la poetessa di prendere con sé soltanto l’essenziale e di non riempire le valigie di libri: “Penso che, meno libri portiamo, meglio è: prendono troppo posto; e a me la cosa migliore è sempre parsa quella di leggere i libri a casa propria e, all’estero, aprire gli occhi e guardare… Ma, parlando seriamente, dev’esserci una bella biblioteca a Pisa… con quell’Università!”.
Antonio R. D’Agnelli
a.dagnelli@adm.unipi.it