È morto all'età di 92 anni il regista Paolo Taviani
Dopo una breve malattia, è morto a 92 anni il regista Paolo Taviani. Con il fratello Vittorio, scomparso nel 2018, ha formato una delle coppie più influenti del cinema italiano. Nati a San Miniato, i due fratelli hanno trascorso gli anni della gioventù nella Pisa dell'immediato dopoguerra, frequentando per alcuni periodi la facoltà di Lettere dell'Ateneo pisano. Il contatto con gli ambienti culturali e universitari della città ha stimolato la loro passione per il cinema, spingendoli ad approfondire la conoscenza sia della sua storia che della tecnica, fino a farne attivi animatori del cineclub pisano. Dal Palazzo della Sapienza dell'Ateneo, con la regia del documentario su "Curtatone e Montanara", è partita la loro prestigiosa carriera.
Proprio per sottolineare questo legame, l’11 marzo del 2008 l'Università di Pisa ha conferito a Paolo e Vittorio Taviani la laurea specialistica honoris causa in "Cinema, teatro e produzione multimediale". "Questa è stata la nostra Università – hanno ricordato i due fratelli in quell'occasione – anni di formazione, forti. Anche se pochi sono gli esami che abbiamo dato. È stata la nostra Università perché qui sono nate le prime sollecitazioni al nostro lavoro nel cinema…". La cerimonia fu introdotta dai saluti del rettore Marco Pasquali, la motivazione del conferimento fu letta dal professor Alfonso Maurizio Iacono, mentre il professor Lorenzo Cuccu tenne la Laudatio.
Da sinistra: Paolo Taviani, il rettore Marco Pasquali e Vittorio Taviani.
Qui di seguito pubblichiamo per interno il testo della Lectio magistralis che i due fratelli tennero alla cerimonia di conferimento della laurea honoris causa.
******
Questa è stata la nostra Università. Anni di formazione, forti. Anche se pochi sono gli esami che abbiamo dato. È stata la nostra Università perché qui sono nate le prime sollecitazioni al nostro lavoro nel cinema. E di questo oggi vogliamo parlarvi. Ma prima dobbiamo confessare una certa inquietudine, senso di colpa misto a orgoglio, nell’accettare una laurea che non avremmo mai immaginato. Invece siamo qui. Coincidenze? Chissà. Tutto può accadere nella vita e nei romanzi – diceva Dickens – anzi le coincidenze, forse, sono la legge della vita.
Paolo e Vittorio Taviani.
Questa Università ci ha ispirato Curtatone e Montanara, uno dei nostri primi documentari andato perduto, uno dei pochi da noi amato. Una mattina di sole, con la nostra piccola troupe, occupammo il cortile della Sapienza per piazzare i binari di un lungo carrello. “Mancini” - si chiamava il mitico carrello di legno usato dal cinema di allora. Anche i binari erano di legno – l’agile steady cam non era stata ancora inventata – e il lavoro dei macchinisti era complesso e fragoroso. Quel fragore era musica di Mozart per le nostre orecchie. Ci passavano accanto studenti e professori. Alcuni di loro, in passato, avevano incoraggiato la nostra scelta, così irregolare, di fare cinema. Altri no, avevano scosso la testa. E il tono della nostra voce sfiorava la provocazione quando gridammo: “azione!”. Il carrello corse a ritroso, abbandonò le logge della Sapienza per avventurarsi verso le strade di Pisa, le piazze, i lungarni. Iniziava così il viaggio degli studenti quarantotteschi verso il nord. Attraversava le campagne toscane e lombarde, si soffermava sulle sponde del Po, e finalmente si arrestava sui prati e le valli di Curtatone e Montanara, teatro della battaglia contro gli austriaci. Noi due inventammo una lunga soggettiva: “la macchina da presa – ci dicevamo con la giovanile ebbrezza delle prime intuizioni – diverrà l’occhio degli studenti rivoluzionari alla scoperta del mondo della libertà, alla scoperta di se stessi e le loro voci, in colonna sonora, leggeranno le lettere inviate a casa, i commenti, i pensieri più segreti dettati dal viaggio. Quel lungo carrello aumentò la sua forza espressiva quando in moviola aggiungemmo la musica. Raggiunse l’acme col dilagare del coro “Guerra, guerra!” dalla Norma di Bellini. Tornavamo a casa eccitati dalla scoperta – ovvia forse, ma non per noi alle prime armi – delle possibilità inesplorate nel rapporto immagine – suono.
Paolo e Vittorio Taviani con al centro il professor Alfonso Maurizio Iacono.
Ci confidavamo di provare – come dire – la sensazione di un aumento della nostra energia inventiva. Provammo la stessa emozione quando, anni dopo, in San Michele aveva un gallo, usammo ancora il “Guerra, guerra!”. Ancora su un interminabile carrello irrealistico che si allontana da Giulio, il protagonista, invade e dilata la cella in cui è prigioniero e la trasforma in un teatro d’opera immaginario. Fin dagli inizi presentivamo l’importanza che la musica avrebbe avuto per noi nel fare cinema. Musica intesa non come commento umilmente parallelo alle immagini, ma come struttura stessa del film. Per noi, l’abbiamo detto altre volte, il cinema è l’erede – a vent’anni dicevamo la summa! – di tutte le forme d’arte che l’hanno preceduto. E quella più vicina a noi è la musica. Perdonate il tono un po’ agiografico: i ricordi fanno questi scherzi.
Il documentario, che per noi fu importante, sicuramente presentava i limiti di due registi che avevano troppo da dire e poco tempo a disposizione (per legge un documentario non poteva durare più di dieci minuti). Ecco, oggi possiamo finalmente rivelare un piccolo segreto: quelle lettere scritte dagli studenti, non esistono in nessun archivio storico, le abbiamo inventate. Tutte. Erano lettere che avremmo scritto noi due alle fidanzate, agli amici, ai maestri più amati. Nessuno osò metterne in dubbio l’autenticità, nemmeno alcuni storici, stupiti di fronte a quel materiale inedito e forse vergognosi della loro innocente ignoranza. Noi pensavamo e pensiamo che quelle lettere riportassero in vita gli studenti pisani, rendessero attuali i loro pensieri, ci dessero la possibilità di far diventare contemporaneo quell’avvenimento del 48.
Il professor Lorenzo Cuccu.
Un falso, si. Ma già da qui potrebbe nascere un’indicazione del nostro modo di lavorare, una risposta alle domande di tanti giovani che vogliono sapere di noi, fare e scrivere cinema. Non pochi nostri film sono ambientati in epoche passate, alcune volte la scelta è dovuta al caso, altre alla ricerca di un’età storica affine al presente. Usiamo storie di ieri per interrogarci su quelle di oggi: la ricerca della verità non significa farsi condizionare dall’attualità, dalla cronaca riduttiva a cui ci costringe la televisione. La necessaria ricerca storica che precede la scrittura del film, ci ha dato e ci dà l’eccitante possibilità di leggere e studiare documenti e testimonianze dell’epoca in cui agiscono i personaggi del film, di sprofondare nel passato.
Poi dimentichiamo. Vogliamo dimenticare tutto durante la sceneggiatura e la lavorazione. Di più: la verità storica viene spesso tradita in nome di un’altra verità. Quella del film, quel microcosmo rappresentato dal nostro racconto. “Non mostrerò questo film ai miei studenti, voi non aiutate a capire la storia del nostro paese” – così ci rimproverò una volta un insegnante, e non è stato l’unico, durante un dibattito dopo la proiezione, ci sembra, di Allonsanfan – che bisogno c’era d’inventarvi la storia? Voi, così, create una gran confusione”. La sua protesta era sincera e accorata. Non ce la sentimmo di aggredirlo - la voglia era tanta – e chiedemmo aiuto a quegli autori che probabilmente lui insegnava a scuola, i grandi maestri che ci hanno indicato la strada dei falsi storici. Ricordammo, come esempio, le rappresentazioni, le più diverse, del personaggio storico di Giovanna D’Arco : strega per Shakespeare in Enrico VI, ribelle e popolare in Brecht, orgogliosa in Bresson, fino alla Giovanna tutta occhi, impaurita e vincente in Dreyer. Qual’era la vera Giovanna? Tutte e nessuna. Ogni autore le ha affidato i propri sentimenti, l’ha usata per rappresentare il suo tempo.
Anche i personaggi storici dei nostri film assumono spesso le fisionomie di uomini e donne della nostra vita. Di ognuno di loro costruiamo le biografie, dalla nascita al presente, oroscopi compresi. Non immaginate che sensazione di libertà fare indossare il costume agli amici, ai nemici, che tornano a vivere alcuni frammenti della loro vita e a viverne un’altra, quella che diamo a loro. Quel breve documentario – ce ne rendiamo conto oggi – era un’inconsapevole anticipazione delle successive opere della maturità, a cui lo unisce l’impazienza di futuro,dei protagonisti, il disagio di vivere in un presente meschino, anacronistico, il desiderio di felicità in un mondo diverso. La commissione dei premi di qualità bocciò il lavoro. Motivazione: troppo astratto. Concreta fu la nostra delusione…e una certa vergogna di noi stessi: che abbiano ragione? Eravamo convinti d’aver espresso qualcosa di diverso, di bello forse. Nel nostro donchisciottismo non avevamo dubbi che avrebbe trovato un’eco in chi lo vedeva. Chi poteva immaginare, allora, quanti avversari “naturali” avremmo incontrato sulla nostra strada, allergici allo stupore per ogni lampo di novità.
Abbiamo detto che le nostre riflessioni, oggi, avranno tutte il loro avvio qua, dentro queste mura della Sapienza. Manteniamo l’impegno e così ci troviamo sul portone centrale, alle una di una domenica di più di cinquanta anni fa. Avevamo visto Germania anno zero di Rossellini nell’aspra copia in tedesco. Una proiezione abbastanza anomala dell’Università Popolare, qui per quel giorno ospite. Con un certo disagio ci decidemmo a prendere la strada di casa. Ma c’era qualcosa che ci feriva la vista. Attraversammo la città deserta, tagliata da luci e ombre come in una tela di De Chirico. Amavamo l’enigma delle sue piazze toscane, ma oggi la luce rifiutava ogni mediazione culturale, perché era una luce cattiva, senza pietà. Era la luce di certe sequenze del film che avevamo visto, il suo bianco segno rivelatore. Nel film di Rossellini la luce non accettava mediazioni perché il nostro mondo aveva conosciuto l’abisso, il non umano e ora noi dovevamo fissarlo, rifiutando ogni zona d’ombra, perché mai più fosse dimenticato. D’altra parte già nel precedente Roma, città aperta, nella sequenza della morte della Magnani, insieme al suo grido e al suo braccio proteso, il bianco accecante della tonaca da chierichetto del figlio che dentro quel bianco scalcia e urla, rimane il segno più forte della sequenza, uno sgomento che ad ogni visione si rinnova.
Tornando alla lontana domenica di Germania anno zero anche quella mattina nostra madre ci aspettava. Con lei avevamo uso di parlare di quanto avevamo visto o letto. Ma quella volta le dicemmo…scusaci…con le parole non riusciamo a dirti…a farti capire…a farti vedere. C’era in noi quel tanto di esaltazione morbosa che accompagna la convinzione di una nuova scoperta; e noi due ora sapevamo che nel linguaggio del cinema uno dei primi segni è la luce.
Dopo più di trenta anni, nella nostra maturità di registi, sentimmo che era venuto il momento di far riemergere il passato di sangue e in particolare quell’estate del 44 sui colli della nostra San Miniato, che vide la strage del Duomo e il nostro esodo verso i liberatori. Ci rendemmo subito conto come il tempo e la coscienza popolare avevano elaborato i molti lutti e il senso di una vittoria sempre da difendere. Il racconto orale aveva trasformato quel passato in una specie di chanson de geste o di una fiaba. Gli occhi di una bambina sono spesso gli occhi del film. Il tempo della pietà era tornato, e la luce non poteva essere quella cattiva del film di Rossellini. Nel nostro film la luce cerca una mediazione tra il paesaggio, gli eventi e la natura umana, una riconciliazione nel segno di una pacata luminosità. Pur su scene di quotidianità feroce, la luce tende a quella limpidezza che è anche promessa di futuro, e si permette perfino un’ ambiguità scherzosa: “Piove e c’è il sole”, dice la giovane donna con il suo bambino in braccio. È stata appena liberata e ora guarda stupita e divertita quella strana luce tra sole e pioggia che brilla sulla sua gente in festa.
Se la luce di un film è il primo segno visibile del suo senso, il senso della Notte di San Lorenzo era rivolto in modo particolare ai giovani di quegli anni ottanta, che nella palude di una società dai fremiti oscuri, consumavano la loro vita “vivendo e vivendo a metà” come dice Eliot. Avevano bisogno, avevamo tutti bisogno di far riemergere la figura dell’uomo in tutte le sue possibilità. Per questo abbiamo sempre sentito il nostro film non come un film storico o di memoria – tantomeno di nostalgia – ma come il più contemporaneo che in quegli anni potessimo tentare di fare.
“La luce è il cinema. Stop.” Fellini è categorico. A noi è capitato di parlarne una volta con Michelangelo Antonioni, coinvolto con noi in uno strano caso. Tanto lui che noi avevamo trovato ispirazione nelle isole Eolie, uno dei paesaggi più assoluti del mondo. Un paesaggio soprattutto come protagonista dei nostri due film: stesse immagini, stessi scogli, stessa profondità del mare, stesso orizzonte. Eppure la luce così diversa nei due film fa di loro due pianeti diversi, due opposti luoghi dell’anima. Non è questione di bianco e nero (L’avventura) o di colore (Kaos).La luce grigia nell’indimenticabile film di Antonioni incupisce le cose e le persone. Le linee fantasiose degli scogli si trasformano in oscure masse acuminate, il mare in nemico di cui diffidare. Il giorno sembra ridotto a essere la vigilia della notte, quando nell’ora più ambigua lo sgomento diventa certezza della propria estraneità a se stessi e al mondo. In Kaos le stesse immagini, gli stessi spazi: ma il cielo si è spalancato e la luce rende più azzurro l’azzurro del mare, più bianco il bianco delle pomici. È questa esplosione di luce che spinge i piccoli fuggiaschi, che sulla barca vanno verso l’esilio, a scendere sulla spiaggia e dalla cima dell’altura volare giù dentro il mare. Un viaggio di lutto che inaspettatamente si trasforma in un momento di felicità: solo per pochi istanti, forse, ma quanto basta a quei bambini a riprendere con più forza il loro viaggio.
In questo ultimo anno abbiamo amato in particolare un film di Clint Eastwood Lettere da Iwo Jima. Anche questo è un film che si fissa nella memoria e rivela il suo senso nel rapporto con la luce. Ma questa volta come sottrazione della luce, quasi fino alla sua negazione. È in un mondo di tenebre infatti che sono condannati a vivere i soldati giapponesi - molti sono giovani – che difendono il colle di Iwo Jima contro l’avanzata sanguinosa e vincente degli americani.
Sono penetrati nelle viscere del terreno, dove hanno costruito grotte, trincee, cunicoli. Hanno ricevuto un unico ordine: combattere comunque, finchè l’ultimo di loro avrà trovato in quelle tenebre la sua tomba. Ci viene in mente un detto che la saggezza popolare ha fissato nel linguaggio. Suona così: la luce è speranza, togli la luce, togli la speranza. Senza speranza, nell’oscurità i giovani giapponesi si ostinano a scrivere le loro lettere d’amore e di addio, sapendo che non avranno mai risposta. È un film nel segno del lutto, che Eastwood e il suo sceneggiatore affidano alla nostra pietà.
Facciamo un passo indietro.
Questa è stata la nostra Università perché qui, ancora ragazzi, scoprimmo la “Storia del cinema” di Pasinetti. Scoprimmo che il cinema aveva una sua storia come la letteratura, la pittura, le altre arti studiate al liceo. In quegli anni – pensate – ci davano ancora temi come “il cinema può essere arte?”. Fa sorridere la nostra ignoranza della letteratura cinematografica passata, ma erano gli anni del dopoguerra e le nuove riviste specializzate vennero dopo. Hollywood” era l’unico rotocalco che si occupava di cinema, di attori, di gossip. Pubblicava anche recensioni dei lettori e uno di noi era tra quelli. Il volume di Pasinetti divenne il nostro vangelo cinematografico: occhi avidi scorrevano le righe che ci parlavano di Eisenstein, Ford, Renoir. La mattina entravamo in questa Università insieme agli studenti veri. Nel silenzio della biblioteca studiavamo con serietà, una serietà lieta, sentimento sconosciuto nell’indolenza dei banchi di scuola. La ricerca di sé, così viva e spesso angosciosa in un ragazzo, aveva trovato una sua strada. Trascrivemmo tutto il libro o quasi…forse in qualche nostra cantina esiste ancora il manoscritto.
La nostra fratellanza si saldò. Iniziava il viaggio insieme. Due nature diverse. Un unico sogno. Un dono del caso, misterioso a noi stessi, ribelle ad ogni tentativo di razionale spiegazione. Col desiderio struggente di entrare in confidenza con la famiglia del cinema, ci iscrivemmo al cineclub pisano fondato da un pioniere, Mario Benvenuti e animato spesso dagli interventi appassionati di Valentino Orsini che diverrà il nostro grande amico e collaboratore, autore in cinema. Contavamo i giorni che mancavano alle proiezioni, come si aspetta l’appuntamento con una innamorata. Si, ci siamo innamorati di tutti i film che vedevamo e dei registi che già consideravamo padri, fratelli. Ci davano la consapevolezza di vivere rispecchiandoci in loro. Verrà più tardi il desiderio di misurare se stessi su quei maestri. Diciamo la verità, non tutti i film erano così belli, così assoluti, ma quando si scopre un mondo non ci sono vie di mezzo. Il nostro entusiasmo alcune volte ci mise in imbarazzo: proiettarono al cineclub Gli ammutinati dell’Elsinore di Pierre Chenal. Non era un gran film, ma noi riuscimmo a scovare alcune inquadrature da amare. In quei giorni al cinema Astra veniva programmato Gli ammutinati del Bounty con Clark Gable e Charles Laugthon. Un film di grande impatto spettacolare che travolse il pubblico e anche noi. Ma nel paragone tra i due film, durante furiose discussioni, noi difendevamo con accanimento Chenal contro il Bounty. Mentivamo a noi stessi senza rendercene conto. Oggi, quando amici della nostra generazione ci chiedono:”come fate a sopportare certi giovani critici e registi, l’arroganza che mettono nel mandare all’inferno o in paradiso questo o quel film?” Rispondiamo: “sarebbero insopportabili se noi, alla loro età, non fossimo stati peggio di loro!”.
La conoscenza del cinema ci fece traditori. Traditori di ogni forma d’arte che non fosse cinema. Ci proiettava oltre la cultura umanistica, pur grande e amata, ma degradata secondo noi a scolastico, logorato patrimonio borghese. Si aprivano nuovi orizzonti. Perfino l’aspetto tecnico legato all’arte cinematografica, ai suoi strumenti: macchina da presa, pellicola, obiettivi, luci, rappresentava una novità rivoluzionaria. Anche oggi le nuove generazioni sono attratte dalle più avanzate tecnologie. Si infiammano, esagerano anche. Ma la fantasia, se c’è, avrà la forza di dominarle.
Vivevamo di cinema e basta. Pisa e la sua solare architettura - così presente nello stile dei nostri film, come hanno sottolineato alcuni critici – in quei giorni si confondeva con un’idea irriverente della città: le piazze, le strade erano legate per noi all’ubicazione delle sale cinematografiche. I Lungarni al Supercinema, piazza San Paolo all’Odeon, corso Vittorio al cinema Italia, piazza Carrara al cinema-teatro Rossi, qui, a pochi passi dall’Università. Proprio al Rossi vedemmo Ladri di biciclette. Pioveva quel pomeriggio. Avevamo il viso bagnato di pioggia, ma anche di lacrime. “Lacrime estetiche!” ci scherzavano i nostri amici, commossi come noi.
Di De Sica ci affascinava la novità di linguaggio tra documento e finzione, la cruda tenerezza con cui ci parlava della tragedia del ladro di biciclette, mediata a sprazzi dall’innocente comicità del bambino e dal formicolio dei personaggi: un’umanità prima d’allora mai apparsa sullo schermo, un coro che cammina accanto ai due protagonisti, commenta, ironizza, piange con loro. Forme nuove per rappresentare la tragedia, non sulle tavole del palcoscenico, ma su quelle della realtà quotidiana, suggerendo, a suo modo e senza enfasi, l’urgenza di un rinnovamento sociale.
A Orson Welles, genio shakespeariano dalla violenta espressività cinematografica, così lontano dall’autore italiano, fu chiesto: “il regista europeo che più ami?”. “De Sica” rispose senza esitazioni. Gli farà eco anni dopo Woody Allen : "il film della mia vita? Ladri di biciclette".
Vedemmo e rivedemmo il film. Lo andavamo a cercare, in bicicletta, nelle sale dei paesini nei dintorni di Pisa. Volevamo appropriarci della sua verità nascosta. In quegli anni non esistevano i dvd. Decidemmo di riscrivere a memoria i dialoghi e i movimenti di macchina: era l’unico modo per far parte del lavoro di De Sica e di Zavattini, condividere le loro intuizioni. Quando confrontammo la nostra ricerca con una nuova visione del film, restammo spiazzati dalla poetica semplicità delle soluzioni, in contrasto con la nostra esagerazione, nel tentativo di riprodurre una sequenza di particolare suggestione emotiva. Ricordiamone una. Bruno, il figlio, ma più che figlio, l’amico dolce e brontolone del padre alla ricerca della bicicletta, è esausto. La giornata è stata lunga e senza risultato. Il padre si è allontanato. Gli occhi del bambino improvvisamente sono attratti da qualcosa che sta accadendo, qualcosa di insopportabile. Cosa vedono? Un ladro che sta rubando una bicicletta, i passanti lo inseguono, lo afferrano, lo picchiano. Quel ladro è suo padre. Un lungo, lunghissimo carrello corre intorno al P.P. di Bruno, la macchina da presa esalta così lo stupore straziato del bambino…Abbiamo detto un lungo carrello. Questo annotammo. No, il carrello è breve, brevissimo: la nostra commozione, nel ricordo, aveva dilatato il tempo dell’inquadratura. Fu una lezione di regia: studiammo con più cura la sequenza, la scansione delle inquadrature, le rime interne, l’inseguirsi delle emozioni, il loro montaggio, fino all’esplosione di quel carrello, di quel P.P., con cui De Sica ha raggiunto il cuore degli spettatori di tutto il mondo, senza ricorrere a virtuosismi della macchina da presa. Con un carrello, si, ma di pochi metri.
Molti giovani apprendisti di cinema ci chiedono: voglio fare il regista, da dove comincio? Aiutatemi, datemi un consiglio. Èimpossibile fornire ricette e non siamo adatti a fare i maestri. Voi – ed è una conquista, impensabile nei nostri anni giovanili – i maestri li avete qui, nell’Università e amano il cinema come voi l’amate. Ma, ripensando alla nostra esperienza, un suggerimento lo possiamo offrire, uno fra tanti. Un possibile inizio. Questo: scegliete tre o quattro film che più amate. Vedeteli e rivedeteli. E rivedeteli ancora: come ladri che spiano i movimenti di una banca da derubare. A poco a poco, ad ogni nuova visione scoprirete alcuni segreti del vostro amato regista. Non esitate ad abbandonarvi all’ammirazione: è un sentimento umile e forte, vi aiuterà a capire. Poi ricominciate tutto da capo, disfacendo e rifacendo il già fatto. Cercate in voi stessi. Noi chiediamo di essere stupiti dal nuovo che la vostra età vi porta in dote. Affronterete una lunga fatica, appassionata quanto aspra. Vi accorgerete che per realizzare un documentario, un film, non basta essere poeti, dovrete trasformarvi in uomini d’affari, cercare i finanziamenti, usare furbizia e menzogne, incontrare umiliazioni e guai. Affrontateli senza vergogna. Amerete questo mestiere, questo gioco, perché fare spettacolo è anche gioco. Ci dà la possibilità di continuare i giochi dell’infanzia, ricchi di mistero e fantasia. Noi due lo amiamo questo mestiere, oggi, dopo tanti anni, forse più che ieri. Fa soffrire, certo, ma ne vale la pena, per vivere quegli attimi di felicità in cui si vede nascere, dalle proprie mani, una sequenza più coinvolgente, per audacia e verità, di come era stata immaginata. E siate pronti: non vi fate sorprendere dal puntuale, inesorabile sentimento di relatività che ogni regista avverte di fronte al film finito. Ricordate il proverbio: non si viaggia per arrivare, ma per viaggiare.
E per l’ultima volta torniamo qui, nella nostra Università. È l’alba di un giorno del 1953, in una delle aule che danno sul cortile. L’aula, trasformata in seggio elettorale, è gremita di gente eccitata ed esausta. Giovani staffette popolari corrono attraverso la città a portare nei vari seggi la notizia ancora non ufficiale: la legge elettorale voluta dal potere non è passata. Il tentativo autoritario di relegare la sinistra in un angolo è stato sconfitto. Una vittoria relativa certo, ma pur sempre una vittoria. Anche qui, in questo seggio, euforia. Uno di noi due è tra questa piccola folla, come rappresentante di lista del Partito Comunista. E ora, dopo tre giorni corre finalmente fuori per portare la notizia. Bagnato da una pioggia fitta che lo rinfresca fin dentro le ossa, attraversa le vie deserte, ma che al suo orecchio risuonano delle voci di una comunità che veglia per salutare il nuovo giorno, come una conquista di libertà. Lui si sente parte di quel coro, di quella comunità, ed è felice. Ugualmente bagnato e felice gli va incontro suo fratello, che ha appena terminato lo stesso lavoro al suo seggio.
Ecco: abbiamo rievocato quell’alba del 1953, con l’impeto un po’ ingenuo di certi momenti collettivi, perché così possiamo tornare a parlare di cinema, del nostro cinema, e del rapporto così spesso equivocato tra cinema e politica.
Noi, al di là delle teorie, vogliamo qui rendere testimonianza della nostra esperienza personale, che è già anomala alla sua partenza: è stato il cinema – e non viceversa – a portare noi due, di famiglia mazziniana ma pur sempre borghese, ad aprire lo sguardo sull’universo rosso e sul suo popolo. Sfidiamo il paradosso precisando che più che dai singoli film la spinta ci è venuta dalla forza misteriosa del loro linguaggio. D’altra parte, negli anni del nostro dopoguerra guerreggiato, era tutto un po’ paradossale. In quel clima succede che un giorno noi due, giovani come tanti altri, aperti ad ogni possibilità di nuovo, ci troviamo di fronte a una immagine come questa: su una grande distesa bianca di neve, sei cavalli dalle grandi criniere, ripresi ora in P.P., ora in un carrello sempre più veloce – è la sequenza di un vecchio film muto – trasportano una barella su cui, circondato dai suoi compagni, sta morendo un combattente della rivoluzione: ha chiesto di essere sepolto nella sua terra che non rivede da anni. Il tempo è poco e i compagni incitano i cavalli: bisogna arrivare in tempo, muore un nostro eroe della rivoluzione. Correte, correte. Immagini di impronta realistica. Ma improvvisamente lo scarto: i cavalli rispondono. “Vi capiamo”. C’è nobiltà e consapevolezza, mentre la didascalia ripete: “Vi capiamo, nostri padroni e fratelli”. La loro corsa si fa ancora più violenta: “Voliamo con tutte le forze della nostre ventiquattro gambe”. Corrono perché la rivoluzione li chiama a onorare in morte un loro fratello. La sequenza si fa fantastica, folle, in nome di una commozione che unisce uomini e animali.
Un altro film, un’altra immagine: questa volta è un piccolo cavallo bianco, attaccato a una carretta che sta cercando disperatamente di attraversare il ponte apribile nel centro di Pietroburgo: una Pietroburgo squassata dalle ondate di rivolta e dalla brutalità della repressione. Non si può più passare, perché il ponte si è aperto e le due parti stanno salendo sempre più in alto. La carretta, staccatasi dal cavallo, scivola giù in acqua. Dall’alto scivolano giù uomini e cose. Solo il cavallo bianco, chissà come attaccato a una trave, rimane lassù, sulla parete a picco. Nelle strade intorno al ponte si ripetono inquadrature di corpi umani che uccidono, che vengono uccisi. A contrasto, più volte, in campo lungo riappare la tenera figura del cavallo bianco, solo sulla cima della parete deserta. Un’immagine tragica e assurda: anche questa è rivoluzione. Poi il cavallo precipita e scompare nell’acqua del fiume.
Un po’ sbalorditi ci interrogavamo sull’impeto che aveva potuto ispirare tanta forza fantastica nell’animo di giovani uomini che facevano i registi, in un sodalizio dove l’uno si riconosceva nell’altro: erano i figli della terra di Tolstoi e Dostoevskij. Dallo schermo ci arrivava, insieme alla conferma del linguaggio estremo del cinema, la testimonianza della forza dell’utopia che stava correndo nel mondo, l’utopia comunista. Intanto i grandi film del neorealismo rendevano più impaziente il nostro bisogno di fare cinema e insieme sollecitavano la nostra responsabilità di cittadini: ci riconoscemmo nel popolo di sinistra.
Non ci siamo mai nascosti però che questo empito giovanile poteva portare a una esaltazione acritica delle nostre scelte artistiche e politiche. Il cinema ci è venuto ancora incontro con Rossellini, proponendoci il limite, l’ambiguità della condizione umana. Molti di noi ricordano il finale di Paisà: da una parte i corpi dei partigiani con le mani legate dietro la schiena e la macchina da presa che sta accanto a loro mentre vengono gettati in acqua, e ogni tonfo è una ferita acustica; dall’altra il silenzio indifferente del paesaggio selvaggio della palude, che la macchina da presa stenta a riprendere in totale: cielo e terra si confondono all’orizzonte, il presente si dissolve nel passato. L’immensità della natura e l’ambiguità del tempo ridimensionano le vicende umane, anche questa evocata da Rossellini. Abbiamo voluto usare le parole alte che avrebbe potuto pronunciare un nostro maestro, grande e schivo. Abitava a pochi passi da qua in via Santa Maria. Siamo passati davanti alla sua casa, ieri. La casa di Sebastiano Timpanaro. Ci avevano colpito nel profondo il confronto, il contrasto che lui stabiliva tra i ritmi frenetici dell’uomo storico e il ritmo dell’uomo biologico, così lento da apparire inesistente. I due ritmi convivono in noi: qui forse una delle ragioni della fatica e del dolore del vivere.
Qualcuno ha detto che probabilmente anche per questo nei nostri film si scontrano due esigenze opposte ugualmente pressanti: la prima è la complicità con l’uomo, la fiducia e lo stupore per la sua creatività, nel bene e nel male, per l’unicità di ogni destino individuale; e questo significa per noi che la macchina da presa sta addosso ai personaggi, ne fissa il volto, ne ascolta il respiro. L’altra esigenza nasce dalla consapevolezza della sua fragilità, della sua piccolezza nei confronti di una realtà più complessa e per molti versi misteriosa, e questo significa per noi cercare di distaccarci e di ridimensionare visivamente i nostri personaggi, inquadrandoli in campi lunghi e lunghissimi.
Da queste contraddizioni e dalle molte altre che si consumano vivendo – noi crediamo – nascono le nostre storie. Ma nascono solo quando qualcosa di imponderabile, certe volte al di là della nostra volontà accende quel motore segreto che si chiama “lo spirito del racconto” e che lascia che la fantasia si muova in libertà.
Intanto lo scorrere della storia ha continuato a farci conoscere tragedie e resurrezioni; per noi due la tragedia più brutale perché più imprevedibile – vogliamo qui ricordarlo – fu la rivelazione del vero volto del socialismo reale, un volto di sangue. Scoprimmo che in certi momenti della storia l’utopia può assumere i contorni di una beffa. Ci sono voluti tempo e dolore per ricostruire, dentro di noi e fuori di noi, un rapporto forte con il mondo che ricongiungesse il nostro passato con il nostro presente.
Abbiamo finito, ma prima vorremmo dire un’ultima cosa. Tornando a Pisa, qui nell’Università, abbiamo raccolto vecchi e nuovi pensieri: questo ritorno per noi, come sempre, è anche una partenza per nuove avventure, se la fortuna ci aiuterà. Molte avventure abbiamo vissuto perché molti sono i nostri anni – più di 150 in due – e molti, ora qui lo sentiamo con commozione, sono anche i volti, le persone che ci hanno accompagnato nel nostro cammino e che ora non sono più. Volti di famiglia, compagni di vita, amici, collaboratori umili o determinanti….Ombre care, perché anche per loro, per le loro attese, la loro fiducia noi due ogni volta abbiamo lavorato e la loro complicità ci aiutava e ci confortava. Ora siamo più soli, com’è giusto alla nostra età, e proviamo malinconia. Ma quelle ombre – lo vogliamo credere – ci stanno qui intorno ed è come se sentissimo il loro bisbigliare. Alcune parole giungono sino a noi. Dicono: imparate a guardare le cose anche con gli occhi di chi non c’è più. Vi sembreranno più sacre e più belle.
Paolo e Vittorio Taviani
250 borse di studio per studenti rifugiati, aperte le candidature per la nuova edizione dei Corridoi Universitari
Si aprono il 1° marzo i nuovi bandi per le borse di studio messe a disposizione da 39 Università italiane che partecipano alla sesta edizione del progetto UNICORE – University Corridors for Refugees per dare la possibilità a 67 rifugiati di proseguire il loro percorso accademico in Italia frequentando un programma di laurea magistrale della durata di due anni. Gli studenti, attualmente rifugiati in Kenya, Mozambico, Niger, Nigeria, Sudafrica, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe, saranno selezionati sulla base del merito e della motivazione, e arriveranno in Italia a settembre 2024.
L’Università di Pisa accoglierà uno di questi studenti, sostenendolo con una borsa di studio di 24 mesi. Inoltre, si farà carico dei costi del biglietto aereo e delle spese di iscrizione al servizio sanitario nazionale. Fondamentale sarà il supporto del partenariato locale, che aiuterà a erogare servizi utili all’ingresso nella vita accademica e all’inserimento nel tessuto sociale cittadino. Fra questi hanno già aderito Diaconia Valdese, CISP, CUAMM e, in corso di definizione, la Caritas. Infine, il CLI, il Centro Linguistico d’Ateneo, si è reso disponibile a offrire un corso di italiano gratuito.
“Partecipare al nuovo Progetto 6.0 è un atto necessario nel percorso intrapreso per continuare ad essere un Ateneo fortemente inclusivo – commenta Giovanni Federico Gronchi, prorettore per la Cooperazione e le relazioni internazionali dell’Università di Pisa - Inoltre, anche l’esperienza ci dice di proseguire su questa strada, considerando il successo del progetto UNICORE 2.0 con cui il nostro Ateneo ha accolto, a partire dall’anno accademico 2020-21, due studenti rifugiati, Mehari e Tesfalem, provenienti dall'Etiopia che hanno concluso brillantemente il loro percorso di laurea. In particolare, Tesfalem si è laureato da pochi giorni in “Computer Science and Networking”.
Il programma University Corridors for Refugees è coordinato da UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, ed è reso possibile grazie alla collaborazione con partner quali il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Caritas Italiana, Diaconia Valdese, il Centro Astalli, Fondazione Finanza Etica e Gandhi Charity.
Secondo le stime UNHCR, in media le persone costrette a fuggire da guerre e persecuzioni rimangono in esilio per circa 20 anni. il 76% dei rifugiati nel mondo vive in paesi a basso e medio reddito dove troppo spesso le opportunità per ricostruire il proprio futuro in dignità sono assenti. Per quanto riguarda l’accesso all’istruzione, infatti, i dati globali rimangono drammatici: solo il 6% dei rifugiati ha accesso all’istruzione terziaria contro il 40% della popolazione non rifugiata.
Il progetto UNICORE, dunque, nasce per rispondere a queste sfide, offrendo ai rifugiati l’opportunità di arrivare in Italia in sicurezza e dignità per proseguire gli studi, e ricostruire il proprio futuro, aspirando ad una professione in linea con le proprie potenzialità e i propri desideri. Mira, inoltre, a contribuire al raggiungimento di un tasso d’iscrizione all’educazione terziaria dei rifugiati del 15% entro il 2030.
In seguito a una prima fase pilota nel 2019, durante la quale sei studenti sono stati accolti da due atenei, il progetto si è espanso fino a coinvolgere oggi 44 Università italiane che in sei anni hanno offerto circa 250 borse di studio a studenti rifugiati.
Oltre alle borse di studio, il progetto fornirà, attraverso un’ampia rete di partner locali, il supporto necessario per affrontare con successo il programma di laurea magistrale della durata di due anni e favorire l’integrazione degli studenti nella vita universitaria.
Il bando chiuderà il 15 aprile 2024 e tutte le informazioni possono essere consultate sul sito universitycorridors.unhcr.it.
"Ritratti nell'Orto". Corso online di acquerello botanico con Silvana Rava
Tutte le informazioni al link: https://www.unipi.it/index.php/presentazione/item/27623
ELEGTEC
Enhancing sustainable and green leather technology in Indonesia
Unipi Team Leader: Maurizia Seggiani, Department of Civil and Industrial Engineering
The leather industry in Indonesia can be improved with the introduction of sustainable production strategies, such as the guided use of alternative resources, alternative energy sources, and sustainable use of water. Training of the workforce on modern techniques of breeding, pre-slaughter and post-slaughter processing, sustainability, waste management, and green technologies is necessary, and students of HEIs need to be offered with modernized content material.
The project aims to establish three "Centres of Excellence for Sustainable and Green Leather Technology" in three universities in Indonesia to support the green transition of the leather industry. The project will support the creation of the Centres of Excellence to provide support services to the leather industry, such as professional training, seminars on modern production technologies, waste management, sustainable production, export strategies, consultation on the application of research and new findings, relocation strategies, presentation of innovative products and processes, extra-curricular courses for students, practical training and placements, and development and testing of continuous education programs and other activities.
It will also contribute to the upskilling and professional development of academic and administrative staff, transfer to HEIs staff knowledge and competences needed to assist companies, develop 5 extracurricular courses for the HEIs, adapt 5 courses for continuous education of professionals, promote research and projects between EU and Indonesian universities, assist the internationalization of HEIs, promote and encourage the establishment of other Centers of Excellence in other universities, and further collaborate with EU and Indonesian Universities and leather businesses.
Coordinator: EGE UNIVERSITY (Türkiye)
Other participants
UNIVERSITAS HASANUDDIN (Indonesia)
GADJAH MADA UNIVERSITY (Indonesia)
UNIVERSITA DI PISA (Italy)
ASOSIASI PENYAMAK KULIT INDONESIA (Indonesia)
ETHNICON METSOVION POLYTECHNION (Greece)
C.G.S. DI COLUCCIA MICHELE & C. S.A.S. (Italy)
UNIVERSITAS MATARAM (Indonesia)
KEMENTERIAN PERINDUSTRIAN (Indonesia)
DIMIOURGIKI SKEPSI ANAPTYXIS (Greece)
Start date: 01-01-2024
End date: 31-12-2027
EU Grant: 797.991 €
KA107 2020
Project for higher education student and staff mobility between Programme Countries and Partner Countries (2020)
Unipi Team Leader: Francesco Marcelloni, Vice-Rector for International Cooperation and Relations
Il progetto KA107 2020 è stato concepito per il consolidamento della cooperazione dell’Università di Pisa (UNIPI) con i paesi del Mediterraneo meridionale, dell’Asia e dell’America latina, cooperazione già avviata nell’ambito del programma Erasmus+ attraverso precedenti progetti Ka107 e attraverso il capacity builng DHIP (Development of Higher Education Institutions’ Internationalization Policies); ma anche per iniziare una stabile collaborazione con i paesi dell’Africa, del Sudafrica e con gli Stati Uniti. Diversi nuovi partner sono stati inseriti nel partenariato per contribuire alla promozione di rilevanti ricerche internazionali, progetti didattici e reti, incrementare sia il numero che la qualità degli studenti internazionali iscritti ai corsi offerti, per sostenere lo svolgimento all’estero di attività di alta formazione da parte dei docenti dell’Università di Pisa,al fine di consolidare il suo ruolo scientifico e implementare il processo di internazionalizzazione dell’Ateneo.
L’Università di Pisa ha rivestito un ruolo chiave nel promuovere la mobilità extra Europea già dai primi anni del programma Erasmus e in questa fase storica di grandi “metamorfosi del mondo”, si pone come attore strategico dello sviluppo e diffusione delle conoscenze acquisite dallo studio e dalla ricerca. L’interazione e la collaborazione con le università estere diviene una necessità per essere un’istituzione in grado di incidere sul futuro della comunità sociale attraverso la condivisione della conoscenza e delle tecnologie, migliorando da un lato la reputazione istituzionale, la competitività e la posizione nelle classifiche internazionali dall’altro lato migliorato la qualità dell'istruzione e la qualità della ricerca.
I vecchi e i nuovi partner inseriti nel partenariato hanno contribuito al perseguimento delle finalità educative e di ricerca degli studenti e dei docenti delle università coinvolte. Abbiamo concentrato le nostre energie per costruire delle relazioni durature, vantaggiose che hanno coinvolto studenti e personale accademico/amministrativo
Il progetto 2020 ha visto il coinvolgimento di 17 istituzioni di istruzione superiore in 12 paesi.
Dal Mediterraneo meridionale abbiamo avuto l’Università di Mohamed Khider di Biskra (UMKB) che con questo progetto ha visto rinforzata la sua posizione sia su scala nazionale che Internazionale, come istituzione di formazione di riferimento in professioni collegate alla programmazione architettonica, edilizia urbana e sostenibile. Sia per l’Università di Cadi Ayyad (UCA) che per l’Università di Bar-Ilan(BIU) il progetto con UNIPI è mirato ad incrementare le già numerose mobilità che vengono realizzate anche con altre università europee in linea con la loro strategia di internazionalizzazione volta ad aumentare la loro visibilità.
Dalla Federazione della Russia la Tomsk State University -TSU e la Lomonosov Moscow State University (MSU) mirano a partecipare in progetti didattici e scientifici congiunti, che diano agli studenti e allo staff maggiori opportunità di fare esperienza accademica all’estero.
Dalla Regione asiatica abbiamo l’Università di Kasetsart (KU) una università con una forte impronta internazionale, da tempo impegnata nella mobilità internazionale per crediti (ICM). La cooperazione con Unipi si inserisce all’interno della sua strategia di rafforzamento dei rapporti con l’Europa.
L’Università di Cape Town (UCT) e l’Università di Johannersburg (UJ) Sudafrica hanno aderito al progetto per consolidare la partnership con UNIPI a livello didattico e scientifico.
Dalla regione Africa, Caraibi, Pacifico hanno preso parte al progetto il Kenia (Kenyatta University -KU) il Camerun (Università di Yaoundé1 -UY1) l’Etiopia (Addis Ababa University-AAU, Samara University SU) che hanno visto nella collaborazione offerte dal programma KA107 con UNIPI un’opportunità per migliorare la formazione degli studenti e del personale docente, che a loro volta produrranno un impatto positivo sulla modernizzazione dell'istruzione superiore e favoriranno lo sviluppo sociale ed economico del paese.
Dall’ America Latina hanno partecipato per la prima volta al programma l’Universidad del Cono Sur de las Américas (UCSA), L’Universidad Autónoma de Asunción (UAA),l’Universidad Nacional de Itapua (UNI) e l’Universidad Agraria de La Habana (UNAH). Le università hanno l’internazionalizzazione dell’insegnamento e della ricerca come primario obiettivo di sviluppo per l’aggiornamento dei curricula in modo da offrire una formazione che risponda alle necessità di sviluppo del paese e che sia innovativa e competitiva sul piano internazionale.
L’Università del Delaware (UDEL) Stati Uniti intende divenire il contesto in cui scienziati, accademici ed esperti si uniscono per generare soluzioni ai problemi locali e globali, con una visione verso una società più prospera e inclusiva che garantisca un futuro sostenibile.
Coordinator: UNIVERSITÀ DI PISA (Italy)
Start date: 01-08-2020
End date: 31-07-2023
EU Grant: 393.422,00 €
Project website: http://erasmuspluska107.unipi.it/
KA107 2019
Project for higher education student and staff mobility between Programme Countries and Partner Countries (2019)
Unipi Team Leader: Francesco Marcelloni, Vice-Rector for International Cooperation and Relations
Il progetto KA107 2019 è stato ideato per ampliare la cooperazione dell’Università di Pisa (UNIPI) con i paesi dei Balcani occidentali, del Mediterraneo meridionale, Partenariato orientale, Africa Caraibi, Pacifico e Amarica Latina, al fine di consolidare il suo ruolo scientifico, promuovere rilevanti ricerche internazionali, progetti didattici e reti, incrementare sia il numero che la qualità degli studenti internazionali iscritti ai corsi offerti, sostenere lo svolgimento all’estero di attività di alta formazione da parte dei docenti dell’Università di Pisa.
Il progetto rientra nella strategia di internazionalizzazione dell’Università di Pisa, che l’ha vista rivestire un ruolo chiave nel promuovere la mobilità extra Europea già dai primi anni del programma Erasmus.
I vecchi e i nuovi partner inseriti nel partenariato hanno contribuito al perseguimento delle finalità educative e di ricerca degli studenti e dei docenti delle università coinvolte. Lavorando multi lateralmente piuttosto che unilateralmente, siamo riusciti ad ottenere un maggiore vantaggio competitivo in termini di insegnamento, ricerca e trasferimento di conoscenze. Abbiamo concentrato le nostre energie per costruire delle relazioni durature, vantaggiose che hanno coinvolto studenti e personale accademico/amministrativo, migliorando da un lato la reputazione istituzionale, la competitività e la posizione nelle classifiche internazionali dall’altro lato migliorato la qualità dell'istruzione e la qualità della ricerca.
Coordinator: UNIVERSITÀ DI PISA (Italy)
Start date: 01-08-2019
End date: 31-07-2022
EU Grant: 241.713,04 €
Project website: http://erasmuspluska107.unipi.it/
Scienze della Terra: il progetto di ricerca SPHeritage in vetrina al Museo di Antropologia Preistorica del Principato di Monaco
Il giorno 14 febbraio 2024 presso il Museo di Antropologia Preistorica del Principato di Monaco è stata inaugurata, alla presenza del sovrano monegasco Alberto II e della Principessa Carolina, una nuova esposizione dedicata al tradizionale mecenatismo della Famiglia Grimaldi verso le scienze preistoriche. Nel nuovo allestimento del Museo, una vetrina è stata dedicata al Progetto di ricerca SPHeritage del Dipartimento di Scienze della Terrache dell'Università di Pisa.
Finanziato nell’ambito del bando FISR_2019, ilì Progetto SPHeritage che studia le conseguenze delle variazioni del livello del mare avvenute negli ultimi quattrocentomila anni sulle popolazioni umane del Paleolitico vissute lungo la costa ligure-provenzale. Le Prof.sse Marta Pappalardo, responsabile nazionale del Progetto del quale il Dipartimento di Scienze della Terra è capofila, ed Elisabetta Starnini, professoressa associata di Preistoria e Protostoria del Dipartimento Civiltà e Forme del Sapere e membro del team di ricerca, hanno illustrato ai Sovrani le attività svolte nell’ambito del Progetto, sottolineando il valore aggiunto della collaborazione italo-monegasca.
Tra i siti di studio nei quali sono state svolte le attività progettuali è inclusa, infatti, anche la Grotta del Principe di Monaco, una cavità che, pur essendo ubicata nell’Area Archeologica dei Balzi Rossi, in territorio italiano presso il confine italo-francese, è proprietà personale della famiglia reale monegasca. Grazie al mecenatismo del Principe Alberto I, nonno dell’attuale Sovrano, questa grotta fu oggetto di scavi archeologici sin dalla fine del XIX secolo.
L’importanza del sito risiede nella presenza di depositi marini e continentali formatisi in diversi cicli climatici che consentono di ricostruire il clima e l’ambiente che hanno caratterizzato l’area durante buona parte del periodo geologico più recente e, contestualmente, nell’abbondanza di testimonianze della presenza umana tra le quali un osso iliaco appartenuto ad una donna preneanderthaliana.
Nei depositi del Museo monegasco sono inoltre conservati, assieme a manufatti provenienti dagli scavi ottocenteschi, preziosi campioni geologici appartenenti a sequenze oramai distrutte, che sono stati resi disponibili ai ricercatori del Progetto SPHeritage per essere analizzati con tecniche all’avanguardia.
Il nuovo allestimento museale pone in continuità le attività scientifiche promosse da Alberto I e quelle svolte dai ricercatori pisani nell’ambito del Progetto SPHeritage, con la collaborazione del personale scientifico del museo monegasco, diretto dalla Dott.ssa Elena Rossoni Notter, e sotto gli auspici di SAS Alberto II di Monaco.
Per approfondimenti sul Progetto di ricerca SPHeritage e sulle numerose attività di disseminazione rivolte al pubblico e agli enti locali si rimanda al sito web (www.spheritage.dst.unipi.it) e agli altri canali social (Instagram e //www.youtube.com/@DSTUniversitadiPisa" target="_blank" rel="noopener">Youtube).
Spark Pisa: l’asse Università di Pisa-Stanford compie cinque anni
Dal 2019 finanzia progetti innovativi sviluppati da gruppi di ricerca dell’Università di Pisa attivi nel settore medico-farmaceutico. È Spark Pisa, il primo nodo italiano della rete internazionale "Spark Global" - fondata dalla Stanford University -, che ha da poco compiuto cinque anni di attività e i cui membri si sono riuniti martedì 27 febbraio a Pisa per un primo bilancio e per definire gli obiettivi del futuro. Incontro a cui hanno preso parte anche la professoressa Daria Mochly Rosen dell’Università di Stanford, presidente della rete globale "Spark" e ideatrice dell’iniziativa, il professor Corrado Priami, Prorettore dell’Ateneo pisano per la valorizzazione della conoscenza e suo impatto, e la professoressa Maria Letizia Trincavelli, direttrice del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa e vicedirettrice di Spark Pisa.
“Per l’Università di Pisa è un grande onore essere entrati, per primi in Italia, a far parte della rete Spark che riunisce alcuni dei più prestigiosi centri di ricerca traslazionale al mondo – ha commentato Corrado Priami – Ogni anno, attraverso Spark Pisa, il nostro Ateneo sostiene, attraverso un apposito bando, un Proof of Concept (PoC) al fine di favorire il passaggio dall’idea al prototipo funzionante e arrivare, così, al trasferimento verso le imprese o il mercato, favorendo in questo mondo il trasferimento tecnologico”.
“Far parte di una rete come quella di Spark Global offre un'apertura verso il panorama internazionale e ci induce anche ad un cambiamento nel nostro modo di pensare e declinare la ricerca, con una maggior attenzione anche ai suoi aspetti applicativi – spiega la professoressa Maria Letizia Trincavelli – In cinque anni di attività abbiamo raggiunto ottimi risultati che dimostrano come il percorso avviato stia contribuendo allo sviluppo della ricerca dell’Ateneo in ambito medico farmaceutico e clinico traslazionale. Dal 2019 ad oggi, infatti, con Spark Pisa abbiamo portato avanti, sia in ambito diagnostico che terapeutico, sei progetti innovativi favorendo collaborazioni multidisciplinari e creando nuove sinergie per lo sviluppo di idee competitive e applicative. La soddisfazione per i risultati raggiunti è, peraltro, ancor più grande se si pensa che, in un’Italia dove la presenza femminile nelle discipline Stem è sempre molto bassa, le vere protagoniste di questi primi cinque anni di Spark Pisa sono state soprattutto le nostre ricercatrici”
“Sono rimasta molto impressionata dalle relazioni fatte dai sei gruppi, tutti molto competenti, che oggi hanno presentato il loro progetti in modo estremamente professionale - ha commentato Daria Mochly Rosen, al termine dell’incontro – Sono davvero entusiasta, perché tutti i loro progetti hanno un’applicabilità immediata. Adesso è necessario che l’Università li sostenga e li segua nella fase di brevettazione, così da stabilire il valore delle loro invenzioni. Nel suo insieme, questo programma è piuttosto giovane ed è fantastico, i ricercatori sono davvero impressionanti. Sono molto soddisfatta".
Sei i Proof of Concept (PoC) finanziati dal 2019 al 2023, tra innovativi metodi di diagnosi basati sull’Intelligenza Artificiale a nuovi sistemi di prevenzione e cura di malattie come il diabete o la Retinite Pigmentosa. Il tutto per un investimento complessivo di 150.000 euro.
Il primo, in ordine di tempo, è stato il progetto “NeurATy” (Neuroprotection and Anti-inflammatory activity of TSPO ligands), che propone l'utilizzo di una particolare molecola in grado di legare la proteina TSPO per il trattamento dello stato infiammatorio in soggetti affetti da Retinite Pigmentosa, con l'obiettivo di proteggere i neuroni e mantenere la vista.
È stata poi la volta del progetto “DROP” (Digital Research in Oncologic Pathology), che mira a sviluppare e convalidare un innovativo strumento, basato sull’intelligenza artificiale, in grado di analizzare le immagini digitali tratte dai vetrini di pazienti affetti da cancro. Strumento che permetterà di migliorare le diagnosi e di fornire assistenza nella valutazione quantitativa di importanti biomarcatori che guidano le decisioni terapeutiche e per accelerare la ricerca in patologia oncologica
Si propone, invece, di sviluppare un sensore come strumento specifico per valutare la presenza e la quantità di proteine virali in fluidi biologici il progetto “FACT” (Fret sensor for the Assessment of Coronavirus Titre”), finanziato nel 2020 e al momento in fase di deposizione brevettuale.
Offre una nuova metodologia di prevenzione della disfunzione endoteliale indotta dal diabete “Melodie” (Metformin-isothiocyanate: a noveL apprOach to prevent Diabetes-Induced Endothelial dysfunction) che ha vinto il bando nel 2021. Il metodo proposto si basa sull'utilizzo di una molecola ibrida della metformina con l'obiettivo di migliorarne il profilo farmacocinetico (assorbimento, distribuzione, metabolismo, ed escrezione) o e, in particolare, di aumentarne la biodisponibilità orale. Ossia la percentuale della quantità di farmaco somministrata (dose) che raggiunge la circolazione sistemica.
Nel 2022 è stata poi la volta di “PROMET” (Prognostic Impact of circulating tumor DNA as a marker of minimale residual disease after resection of colorectal cancer liver metastase), progetto che si ponte come obiettivo quello di valutare l'utilità clinica del DNA tumorale derivato (ctDNA) circolante come marcatore del parametro della malattia minima residua (MRD), o malattia residua misurabile, che definisce quante cellule neoplastiche rimangono dopo la resezione chirurgica delle metastasi epatiche del cancro del colon-retto (CRLM).
Infine, “GENE DESTINY” (GENomic approach integratED with artificial intelligencE for the management of Small cell lung cancer patients Treated with ImmuNotherapY), progetto mira a convalidare una firma genetica come biomarcatore predittivo indipendente per la risposta alle terapie chemio-immunologiche nei pazienti con carcinoma polmonare a piccole cellule (SCLC). I dati molecolari saranno ottenuti analizzando i campioni ottenuti con biopsia liquida mediante il Next Generation Sequencing (NGS), ossia l'analisi computazionale basata su intelligenza artificiale (AI) al trattamento di base e alla progressione della malattia.
Spark Pisa: l’asse Università di Pisa-Stanford compie cinque anni
Dal 2019 finanzia progetti innovativi sviluppati da gruppi di ricerca dell’Università di Pisa attivi nel settore medico-farmaceutico. È Spark Pisa, il primo nodo italiano della rete internazionale "Spark Global" - fondata dalla Stanford University -, che ha da poco compiuto cinque anni di attività e i cui membri si sono riuniti martedì 27 febbraio a Pisa per un primo bilancio e per definire gli obiettivi del futuro. Incontro a cui hanno preso parte anche la professoressa Daria Mochly Rosen dell’Università di Stanford, presidente della rete globale "Spark" e ideatrice dell’iniziativa, il professor Corrado Priami, Prorettore dell’Ateneo pisano per la valorizzazione della conoscenza e suo impatto, e la professoressa Maria Letizia Trincavelli, direttrice del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa e vicedirettrice di Spark Pisa.
“Per l’Università di Pisa è un grande onore essere entrati, per primi in Italia, a far parte della rete Spark che riunisce alcuni dei più prestigiosi centri di ricerca traslazionale al mondo – ha commentato Corrado Priami – Ogni anno, attraverso Spark Pisa, il nostro Ateneo sostiene, attraverso un apposito bando, un Proof of Concept (PoC) al fine di favorire il passaggio dall’idea al prototipo funzionante e arrivare, così, al trasferimento verso le imprese o il mercato, favorendo in questo mondo il trasferimento tecnologico”.
“Far parte di una rete come quella di Spark Global offre un'apertura verso il panorama internazionale e ci induce anche ad un cambiamento nel nostro modo di pensare e declinare la ricerca, con una maggior attenzione anche ai suoi aspetti applicativi – spiega la professoressa Maria Letizia Trincavelli – In cinque anni di attività abbiamo raggiunto ottimi risultati che dimostrano come il percorso avviato stia contribuendo allo sviluppo della ricerca dell’Ateneo in ambito medico farmaceutico e clinico traslazionale. Dal 2019 ad oggi, infatti, con Spark Pisa abbiamo portato avanti, sia in ambito diagnostico che terapeutico, sei progetti innovativi favorendo collaborazioni multidisciplinari e creando nuove sinergie per lo sviluppo di idee competitive e applicative. La soddisfazione per i risultati raggiunti è, peraltro, ancor più grande se si pensa che, in un’Italia dove la presenza femminile nelle discipline Stem è sempre molto bassa, le vere protagoniste di questi primi cinque anni di Spark Pisa sono state soprattutto le nostre ricercatrici”
“Sono rimasta molto impressionata dalle relazioni fatte dai sei gruppi, tutti molto competenti, che oggi hanno presentato il loro progetti in modo estremamente professionale - ha commentato Daria Mochly Rosen, al termine dell’incontro – Sono davvero entusiasta, perché tutti i loro progetti hanno un’applicabilità immediata. Adesso è necessario che l’Università li sostenga e li segua nella fase di brevettazione, così da stabilire il valore delle loro invenzioni. Nel suo insieme, questo programma è piuttosto giovane ed è fantastico, i ricercatori sono davvero impressionanti. Sono molto soddisfatta".
Sei i Proof of Concept (PoC) finanziati dal 2019 al 2023, tra innovativi metodi di diagnosi basati sull’Intelligenza Artificiale a nuovi sistemi di prevenzione e cura di malattie come il diabete o la Retinite Pigmentosa. Il tutto per un investimento complessivo di 150.000 euro.
Il primo, in ordine di tempo, è stato il progetto “NeurATy” (Neuroprotection and Anti-inflammatory activity of TSPO ligands), che propone l'utilizzo di una particolare molecola in grado di legare la proteina TSPO per il trattamento dello stato infiammatorio in soggetti affetti da Retinite Pigmentosa, con l'obiettivo di proteggere i neuroni e mantenere la vista.
È stata poi la volta del progetto “DROP” (Digital Research in Oncologic Pathology), che mira a sviluppare e convalidare un innovativo strumento, basato sull’intelligenza artificiale, in grado di analizzare le immagini digitali tratte dai vetrini di pazienti affetti da cancro. Strumento che permetterà di migliorare le diagnosi e di fornire assistenza nella valutazione quantitativa di importanti biomarcatori che guidano le decisioni terapeutiche e per accelerare la ricerca in patologia oncologica
Si propone, invece, di sviluppare un sensore come strumento specifico per valutare la presenza e la quantità di proteine virali in fluidi biologici il progetto “FACT” (Fret sensor for the Assessment of Coronavirus Titre”), finanziato nel 2020 e al momento in fase di deposizione brevettuale.
Offre una nuova metodologia di prevenzione della disfunzione endoteliale indotta dal diabete “Melodie” (Metformin-isothiocyanate: a noveL apprOach to prevent Diabetes-Induced Endothelial dysfunction) che ha vinto il bando nel 2021. Il metodo proposto si basa sull'utilizzo di una molecola ibrida della metformina con l'obiettivo di migliorarne il profilo farmacocinetico (assorbimento, distribuzione, metabolismo, ed escrezione) o e, in particolare, di aumentarne la biodisponibilità orale. Ossia la percentuale della quantità di farmaco somministrata (dose) che raggiunge la circolazione sistemica.
Nel 2022 è stata poi la volta di “PROMET” (Prognostic Impact of circulating tumor DNA as a marker of minimale residual disease after resection of colorectal cancer liver metastase), progetto che si ponte come obiettivo quello di valutare l'utilità clinica del DNA tumorale derivato (ctDNA) circolante come marcatore del parametro della malattia minima residua (MRD), o malattia residua misurabile, che definisce quante cellule neoplastiche rimangono dopo la resezione chirurgica delle metastasi epatiche del cancro del colon-retto (CRLM).
Infine, “GENE DESTINY” (GENomic approach integratED with artificial intelligencE for the management of Small cell lung cancer patients Treated with ImmuNotherapY), progetto mira a convalidare una firma genetica come biomarcatore predittivo indipendente per la risposta alle terapie chemio-immunologiche nei pazienti con carcinoma polmonare a piccole cellule (SCLC). I dati molecolari saranno ottenuti analizzando i campioni ottenuti con biopsia liquida mediante il Next Generation Sequencing (NGS), ossia l'analisi computazionale basata su intelligenza artificiale (AI) al trattamento di base e alla progressione della malattia.
Sospensione dei Career Labs: ultima chiamata per sostenere il test!
Il ciclo dei Career Labs 2023 si è concluso, e a marzo non saranno organizzati ulteriori incontri. Siamo in fase di programmazione di un nuovo ciclo di Career Labs, che ripartirà prossimamente. Sarà quindi necessario frequentare i nuovi appuntamenti e superare il test finale per l'erogazione degli Open badge e di eventuali CFU.
Per chi ha frequentato i Career Labs da gennaio 2023 a febbraio 2024 e non ha ancora sostenuto oppure non ha ancora superato il test finale, sarà data possibilità di recuperarlo in 3 sessioni:
- Martedì 5 marzo alle ore 10
- Giovedì 14 marzo alle ore 10
- Giovedì 14 marzo alle ore 16
Il test si svolgerà online ed è richiesta l'iscrizione attraverso il portale Career Center.
Il superamento del test è necessario per ottenere l'Open badge e l'eventuale riconoscimento di CFU (per maggiori informazioni consultare la pagina dedicata).
Dopo queste date non sarà più possibile recuperare gli Open badge e i CFU erogati per il ciclo di Career Labs che si è appena concluso.