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Comunicati stampa

Una chiamata rivolta a tutta la comunità accademica per presentare proposte e iniziative in vista della terza edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile che si svolgerà a Roma e in tutta Italia dal 21 maggio al 6 giugno. Alla manifestazione aderisce infatti anche l’Università di Pisa e a questo scopo studenti, docenti e personale tecnico e amministrativo sono invitati a proporre idee e progetti per eventi da realizzare sul territorio. La procedura è molto semplice: basta compilare il modulo allegato in fondo all'articolo e spedirlo via mail al professore Marco Raugi, prorettore per la Ricerca Applicata e il Trasferimento Tecnologico (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).

 

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L’edizione 2019 del Festival, che si svolge nell’arco di 17 giorni, tanti quanti sono gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 si preannuncia molto ricca con centinaia di appuntamenti su tutto il territorio nazionale tra convegni, seminari, workshop, mostre, spettacoli, eventi sportivi. Il claim di quest’anno è “Mettiamo mano al nostro futuro”, per sottolineare la necessità di coinvolgere e sensibilizzare fasce sempre più ampie della popolazione, attraverso una vera e propria chiamata all’azione. Per questo l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile che organizza il Festival ha invitato i propri partner, la società civile e tutti i cittadini a condividere progetti, iniziative, azioni, ma anche comportamenti e gesti quotidiani, che possono contribuire al raggiungimento degli Obiettivi entro il 2030.

 

einstein_cover.jpgE' uscito in prima edizione italiana con la Pisa University Press il saggio di Christian Bracco "Quando Albert diventò Einstein. Gli anni italiani 1895-1901". A tradurlo Paolo Rossi, professore al dipartimento di Fisica del nostro Ateneo.

Pubblichiamo di seguito un estratto dalla prefazione a firma del professore Paolo Rossi

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Gli anni “italiani” di Einstein, che rappresentano al tempo stesso i Lehrjahre, ma anche i primi Wanderjahre del grande scienziato, sono quelli su cui Einstein stesso ha quasi sempre preferito non interrogarsi retrospettivamente, e quindi sono quelli su cui è più che mai indispensabile recensire tutte le fonti ed esplorare tutti i contesti nel tentativo di offrire una plausibile ricostruzione “razionale” del processo formativo con cui un individuo sicuramente geniale (che banalità!) ma anche certamente figlio del suo tempo è giunto a costruire e proporre in un periodo così breve una visione del mondo tanto avanzata che se da un lato, ne siamo certi, prima o poi qualcun altro sarebbe giunto alle stesse conclusioni, dall’altro è lecito supporre che il tempo necessario per arrivarci avrebbe potuto essere molto più lungo.

Christian Bracco ha affrontato il tema ponendosi nell’ottica dello storico “vero”, ossia di chi è consapevole che è indispensabile partire da tutti i documenti disponibili, anche quelli apparentemente più esotici ed ellittici rispetto all’argomento trattato, ma che è altrettanto indispensabile saper avanzare ipotesi e proporre interpretazioni, perché ogni libro di storia non è altro che una rilettura del passato, e ogni rilettura è anche una reinterpretazione.

Ma non si tratta soltanto di questo. Almeno a parere di chi scrive l’aspetto più importante di questa ricerca consiste nella latitudine degli orizzonti. Troppo facile, e troppo scontato, parlare di qualche più o meno infelice o complicata vicenda scolastica o raccontare la storia “interna” (ossia puramente scientifica) di un paio di lavori giovanili. Quel che occorreva veramente, e che Bracco ha realizzato, era la descrizione di un contesto (anzi a dire il vero di più contesti) dentro il quale inserire e meglio comprendere le vicende individuali, collegandole a una dinamica letteralmente “storica”, quella degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, che ha visto il contemporaneo verificarsi di alcuni passaggi epocali, dal trionfo dell’elettricità allo sviluppo delle ferrovie, dall’evoluzione dei rapporti di lavoro alla formazione di nuove classi dirigenti, dall’emancipazione di interi gruppi sociali (tra cui non a caso gli appartenenti alla comunità ebraica) alle prime esili tracce di partecipazione delle donne alla vita scientifica e sociale.

Il compito di esplorare sistematicamente le relazioni di parentela e le interazioni tra diverse “famiglie allargate” (non solo gli Einstein, ma anche i Besso, i Cantoni, i Marangoni, gli Ascoli, i Koch, i Winteler e tanti altri più o meno importanti coprotagonisti), svolto con acribia non disgiunta da una certa “fantasia creativa” rappresenta già di per sé uno straordinario “valore aggiunto” di questo ampio saggio, così come è certamente molto interessante approfondire dinamiche e strutture dell’ambiente scientifico lombardo nel secondo Ottocento o ripercorrere la storia delle Esposizioni universali di fine secolo e del loro ruolo specifico nell’affermarsi del ruolo dell’elettricità nell’industria e nella società civile. [...]

Tirando le somme di tutto ciò che questo saggio ci ha fatto apprendere ci rimane, da italiani, un solo rimpianto: il pensiero che a partire dal 1901 Albert Einstein avrebbe potuto essere a tutti gli effetti uno scienziato italiano e che solo la scarsa lungimiranza dei nostri poco illuminati cattedratici lo abbia avviato verso quel lavoro all’Ufficio brevetti di Berna di cui ha certamente tanto beneficiato la Fisica, e speriamo l’intera umanità, ma i cui risultati (ci si conceda un poco di ucronia) avrebbero forse potuto essere pubblicati sul Nuovo Cimento invece che sugli Annalen der Physik.

Per pubblicare articoli su riviste predatorie, cioè che millantano standard scientifici senza rispettarli, professori e ricercatori italiani hanno speso oltre 2,5 milioni di dollari. Il dato emerge da uno studio condotto da Mauro Sylos Labini (foto a destra) del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, da Manuel Bagues dell’Università di Warwick in Inghilterra e da Natalia Zinovyeva dell’Università di Aalto in Finlandia. I tre ricercatori hanno esaminato i curricula di 46.000 ricercatori e professori che hanno partecipato alla prima edizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale del 2012-13, una procedura che serve per partecipare ai concorsi per diventare professore nelle università italiane. I risultati della loro analisi sono stati appena pubblicati su in un numero monografico della rivista “Research Policy” dedicato al tema delle cattive pratiche scientifiche.

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“Una stima conservativa basata sulla nostra indagine, suggerisce che per pubblicare circa 6.000 articoli i ricercatori del campione hanno speso più di due milioni e mezzo di dollari, una media 440 dollari ad articolo – dice Mauro Sylos Labini – parte di questa cifra esce direttamente dalle tasche dei ricercatori, ma parte proviene invece dai loro fondi di ricerca pubblici, e si tratta comunque di una stima che non tiene conto delle spese per la partecipazione a conferenze ‘predatorie’, spesso associate a queste pubblicazioni”.

Come emerge dallo studio, a livello complessivo, sono oltre 2.000 i ricercatori, circa il 5 per cento dei partecipanti all’Abilitazione Scientifica Nazionale, che hanno pubblicato su riviste “predatorie”. I settori scientifici maggiormente interessati sono economia aziendale, organizzazione e finanza aziendale. Ma per l’aspetto economico, lo spreco di risorse sembra essere maggiore in medicina dove alcuni ricercatori hanno pagato fino a 2.500 dollari per pubblicare un singolo articolo.

I costi monetari sono in realtà solo la classica punta dell’iceberg – conclude Sylos Labini – il fatto che molti ricercatori e professori pubblichino articoli su queste riviste e le inseriscano nei loro curricula dimostra che ci sono enormi problemi nella valutazione della ricerca. I nostri risultati suggeriscono infatti che quando questa viene fatta da ricercatori poco esperti questi articoli possono persino essere valutati positivamente”.

Giovedì 18 aprile, è stato inaugurato il nuovo allestimento della Galleria dei Primati del Museo di Storia Naturale dell’Università, realizzato anche grazie al contributo fondamentale della Fondazione Pisa. Dopo i saluti istituzionali di Massimiliano Ghimenti, sindaco di Calci, e Roberto Barbuti, direttore del Museo, è intervenuto Simone Farina, curatore della sezione Vertebrati del Museo; a seguire Pietro Begliomini e Chiara Gelli, referenti per la realizzazione dei diorami, e, infine, Elisabetta Palagi, professore associato presso il Dipartimento di Biologia, che ha illustrato le linee principali de “La ricerca primatologica al Museo di Storia Naturale”. Presenti all’inaugurazione quasi trecento persone.

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L’allestimento, da oggi visibile assieme alle altre esposizioni permanenti del Museo, è suddiviso in due parti. La prima costituisce una rassegna della sistematica dei primati, con un occhio di riguardo per la loro biodiversità nel mondo e per lo stato di conservazione delle specie in natura: all’interno delle vetrine si possono osservare alcune specie particolarmente rare e a rischio critico di estinzione come il vari bianconero, il murichi settentrionale, l’aluatta bruna, il cinopiteco e il tamarino edipo. La seconda parte è costituita da cinque grandi diorami, che consentono al visitatore di immergersi in una selva africana, nella giungla sudamericana, nella foresta spinosa del Madagascar, tra le rovine di un tempio dell’India sudoccidentale e nel Borneo, dove gli alberi locali che costituiscono l’habitat dei primati stanno essendo abbattuti per far spazio alle piantagioni di palma da olio.

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La realizzazione dell'allestimento ha impegnato il personale del Museo per diversi mesi, tra il restauro dei reperti ottocenteschi e la realizzazione delle scenografie, portata a termine con i materiali più vari (polistirolo, resine e persino tubi corrugati) e con alcune soluzioni fantasiose: un sistema di specchi contribuisce a trasmettere un'idea di tridimensionalità.

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Il personale del Museo di Calci.

Beniamino Bortoli, Marco Favilli, Federica Mei e Debora Tognarelli sono i quattro studenti dell’Università di Pisa iscritti al sesto anno di Medicina e Chirurgia che hanno partecipato a un’esperienza di volontariato nell’Africa sub sahariana. Tramite un accordo stretto tra l’Ateneo pisano e la Ong Medici con l’Africa CUAMM, tra ottobre e novembre 2018 ciascuno di loro ha svolto un tirocinio medico di un mese presso l’ospedale di Chiulo, nella regione del Cunene, nel profondo sud dell’Angola. Al rientro in Italia gli studenti, accompagnati dal professor Emanuele Cigna, sono stati ricevuti dal rettore dell’Università di Pisa Paolo Mancarella, al quale hanno raccontato la loro esperienza.

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“Abitavamo in un piccolo villaggio situato in una regione semi desertica. Vi erano solamente una chiesa e un ospedale, per cui ci siamo dedicati completamente all’attività sanitaria. Sveglia al mattino presto, briefing con tutti i medici e gli infermieri e poi a lavoro in uno dei reparti, a seconda di dove ci fosse più bisogno. Nel pomeriggio spesso ci mettevamo a casa a studiare i casi della mattina oppure tornavamo in ospedale la sera a ricontrollare i pazienti ricoverati o a visitarne di nuovi arrivati al pronto soccorso. Durante tutte le nostre attività ospedaliere siamo stati seguiti dal dottor Carlo Caresia, anestesista di Firenze e medico responsabile CUAMM dell’ospedale di Chiulo. 

Carlo, e gli altri cinque medici italiani del CUAMM che collaborano col personale sanitario del posto, ci hanno mostrato cosa voglia dire per Medici con l’Africa CUAMM fare cooperazione internazionale, ovvero mettersi sullo stesso piano dei medici e infermieri del posto, cercando di dare il proprio contributo attraverso decisioni e scelte che devono essere condivise coi servizi sanitari angolani, senza mai imporsi o cercare di sostituirli.

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Dal punto di vista medico, la cosa più difficile a cui ci siamo dovuti abituare è stata la completa mancanza di mezzi diagnostici oltre che terapeutici. Quella che da noi è informazione “scontata”, come un emocromo o una TC, a Chiulo non esiste, quindi le diagnosi richiedono uno studio paziente e molto ragionamento clinico. Abbiamo visto cosa significa fare una medicina basata unicamente sulla semeiotica tradizionale e questo è stato senz’altro stimolante per tutti noi”.
Gli studenti hanno confermato al rettore Paolo Mancarella che per loro “è stato un onore poter rappresentare l’Università di Pisa nel mondo, con un’esperienza che ci ha aiutati a crescere dal punto di vista professionale, ma soprattutto umano. Per noi è stato un mese intenso e ricco di emozioni, potendo vedere con i nostri occhi certe molto distanti dal nostro quotidiano e acquistando ulteriore consapevolezza di quanto siamo fortunati”.

 

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Ritornati in Italia, i quattro ragazzi hanno deciso di continuare a impegnarsi per l'Africa e si sono uniti al neoformato gruppo di volontari “Medici con l'Africa CUAMM Pisa” che organizza eventi di sensibilizzazione sul territorio, con lo scopo di diffondere la conoscenza dell’associazione e delle attività che svolge in Africa.

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Di Gangi orizSi è appena conclusa a Francoforte la 45° edizione del meeting annuale della EBMT, la Società europea per il trapianto di midollo osseo - uno dei più importanti congressi mondiali dedicati al trapianto di cellule staminali - e il dottor Alessandro Di Gangi, specializzando in Pediatria all’Università di Pisa, ha partecipato - unico italiano di otto candidati selezionati da tutto il mondo - al programma “EBMT Young Ambassadors” volto a stimolare la partecipazione attiva di giovani ricercatori alla vita comunitaria della società.

Durante questa esperienza, il medico ha avuto modo di entrare in contatto con la leadership EBMT e di conoscere altri giovani ricercatori dal diverso profilo professionale allo scopo di creare un network volto allo sviluppo di progetti di ricerca comuni e partecipare attivamente all’imminente lancio del progetto “EBMT young community”, che lo vedrà coinvolto anche durante il prossimo meeting annuale EBMT 2020 a Madrid.

Ex-allievo della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Di Gangi ha maturato il suo interesse per l’oncoematologia pediatrica e il trapianto di midollo osseo grazie all’incontro - durante gli ultimi anni di Medicina - con la dottoressa Mariacristina Menconi (responsabile clinico del Centro trapianti pediatrico dell’Aoup) e con la dottoressa Gabriella Casazza (direttore facente funzione dell’Unità operativa di Oncoematologia pediatrica dell’Aoup). È stato inoltre protagonista agli ultimi congressi internazionali della EHA, la Società europea di Ematologia e dell’ASCO, la Società di Oncologia clinica con numerosi lavori scientifici riguardanti l’esperienza trapiantologica pediatrica. (Fonte Ufficio Stampa AOUP).

team pisanoUna “colla” da utilizzare in caso di fratture non scomposte, una “rete” connettiva ad espansione da iniettare per riparare bacino e vertebre e delle “impalcature” in 3D per far rigenerare le ossa nei casi ancora più gravi. Sono questi i tre approcci per combattere l’osteoporosi basati su biomateriali innovativi e tecnologie avanzate che sono allo studio nell’ambito di Giotto, un progetto europeo del programma Horizon 2020 appena finanziato con oltre 5 milioni di euro per i prossimi quattro anni. Insieme a tredici partner scientifici e industriali di dieci diversi Paesi, nell’impresa è coinvolta anche l’Università di Pisa con il gruppo ricerca del professore Giovanni Vozzi e dall’ingegnere Carmelo De Maria del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Centro di ricerca “E. Piaggio”.

“Si tratterà di costruire sistemi intelligenti ritagliati sui singoli pazienti capaci di stimolare la rigenerazione ossea e di rallentare il processo osteoporotico attraverso il rilascio di molecole bioattive che naturalmente prodotte dal nostro organismo diminuiscono però con l’età – spiega il professor Giovanni Vozzi – l’idea in più è di dotare gli impianti di particelle magnetiche in grado di monitorare il processo di guarigione”.

scaffold.jpgL'osteoporosi è una malattia ossea molto comune e più frequente dopo la menopausa e con l'invecchiamento. Si manifesta quando la matrice ossea diventa più porosa, e di conseguenza le ossa diventano deboli e fragili - così fragili che una caduta o anche lievi sollecitazioni come piegarsi o tossire possono causare una frattura. È stato calcolato che una frattura osteoporotica si verifica ogni 3 secondi nel mondo, più comunemente nell'anca, nella colonna vertebrale o nel polso. Dopo una frattura, i pazienti possono perdere la loro indipendenza, soffrire di dolore cronico e diventare depressi, così l'osteoporosi si trasforma in un notevole carico socio-economico, da cui l’importanza di intervenire con politiche e interventi mirati come si propone di fare il progetto appena varato.

“In particolare nell’ambito di Giotto, il nostro compito – conclude Giovanni Vozzi - sarà quello di sviluppare un nuovo sistema di stampa 3D capace di processare i nanomateriali messi a punto nel progetto in modo per creare impianti multiscala e multimateriale da utilizzare nel caso di fratture con grossa perdita ossea. Questi impianti o impalcature saranno principalmente costituiti da collagene e idrossiapatite, presenti naturalmente nelle nostre ossa, più un materiale microplastico che si riassorbirà una volta rigenerato l’osso”.

 

Foto a destra: il team pisano, da sinistra, Giovanni Vozzi, Francesca Montemurro, Francesco Biagini, Aurora De Acutis, Gabriele fortunato, Anna Lapomarda e Carmelo De Maria

Immagine a sinstra: scaffold stampato in 3D con ingrandimento delle cellule umane che stanno “colonizzando” la struttura

Il Museo degli Strumenti per il calcolo dell'Università di Pisa può oggi vantare una delle più cospicue raccolte del mondo dei sistemi progettati da Steve Jobs dal 1977 al 2007. Il museo ha beneficiato di una importante donazione effettuata dalla società Thesis, con sedi a Firenze e a Milano. Dal 1986 Thesis opera nell’editoria e nello sviluppo software per la distribuzione dei contenuti ed è stata una delle prime società a introdurre il Macintosh nella produzione editoriale. Dal 1990 al 1992 Thesis è stata pure una delle società arruolate da Steve Jobs per portare in Italia il NeXT, la workstation visionaria progettata dopo la sua uscita dalla Apple. Il primo NeXT arrivato in Italia, 30 anni fa, è proprio sbarcato a Pisa e adesso è di proprietà del museo.

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La già importante collezione del museo si è adesso arricchita di una quarantina di sistemi Apple donati da Thesis, tra i quali Apple II, Macintosh 128k, Newton, e di quattro workstation NeXT ancora funzionanti che vanno ad aggiungersi al NeXTCUBE già in possesso del museo. Completano la donazione un centinaio di pacchetti software, tra i quali “Mathematica” per NeXT.

Fabio Gadducci, direttore del Museo degli Strumenti per il calcolo dell'Università di Pisa, ha dichiarato: “Il materiale della donazione rappresenta un’acquisizione importante anche a livello internazionale e ci permette di offrire al pubblico una panoramica completa sul lavoro di Steve Jobs, una delle figure più rilevanti dell’informatica mondiale. La nostra collezione riesce adesso a coprirne tutta la carriera. Con l’eccezione di Apple I, il cui valore lo mette fuori della portata di qualunque istituzione museale italiana”.

Tiziana Arrighi, presidente e CEO di Thesis ha dichiarato: “Con questa donazione siamo lieti di aver contribuito, non solo alla preservazione di un materiale di grandissimo valore per le generazioni future, ma anche al consolidamento di Pisa come culla e polo di eccellenza, da 50 anni, dell’informatica italiana”.

 

“Anni di sacrifici, ma anche di grandi amicizie”. Con queste parole Giorgio Saccoccia, il nuovo presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana nominato lo scorso 9 aprile, ricorda gli anni di studio all’Università di Pisa. Era il marzo del 1988 quando Giorgio Saccoccia si laureò con lode in Ingegneria aerospaziale discutendo una tesi intitolata "Proprietà termodinamiche e di trasporto del tetrossido di azoto in condizioni ipercritiche per il raffreddamento rigenerativo di un motore a razzo" con i professori Claudio Casarosa e Mariano Andrenucci come relatori.

 “Al momento di cominciare l’università, abitavo a Taranto (a causa del lavoro di mio padre ho vissuto in molte città) – continua Saccoccia - il mio sogno era lavorare nel settore spaziale e all’epoca esistevano solo cinque atenei che offrivano studi in questo ramo. Conoscevo Pisa per il suo buon nome e l’ho scelta anche per la sua dimensione che ritenevo più vicina alle mie esigenze”.

56 anni, un incarico precedente all’Agenzia Spaziale Europea dove ha svolto gran parte della sua carriera, Giorgio Saccoccia nel tempo ha mantenuto i contatti con la scuola di ingegneria aerospaziale dell’Ateneo pisano.
”Al di là dei rapporti formali nell'ambito delle attività di ricerca e sviluppo che ha sempre intrattenuto con la comunità pisana di propulsione aerospaziale – ha detto il professore Fabrizio Paganucci del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale - Giorgio è rimasto sempre affettivamente legatissimo a noi tutti e alla nostra università, a lui da parte nostra e di tutto l’Ateneo vanno gli auguri per il suo nuovo incarico”.

“Anni di sacrifici, ma anche di grandi amicizie”. Con queste parole Giorgio Saccoccia, il nuovo presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana nominato lo scorso 9 aprile, ricorda gli anni di studio all’Università di Pisa. Era il marzo del 1988 quando Giorgio Saccoccia si laureò con lode in Ingegneria aerospaziale discutendo una tesi intitolata "Proprietà termodinamiche e di trasporto del tetrossido di azoto in condizioni ipercritiche per il raffreddamento rigenerativo di un motore a razzo" con i professori Claudio Casarosa e Mariano Andrenucci come relatori.

 

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Giorgio Saccoccia, il nuovo presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana


“Al momento di cominciare l’università, abitavo a Taranto (a causa del lavoro di mio padre ho vissuto in molte città) – continua Saccoccia - il mio sogno era lavorare nel settore spaziale e all’epoca esistevano solo cinque atenei che offrivano studi in questo ramo. Conoscevo Pisa per il suo buon nome e l’ho scelta anche per la sua dimensione che ritenevo più vicina alle mie esigenze”.

56 anni, un incarico precedente all’Agenzia Spaziale Europea dove ha svolto gran parte della sua carriera, Giorgio Saccoccia nel tempo ha mantenuto i contatti con la scuola di ingegneria aerospaziale dell’Ateneo pisano.
”Al di là dei rapporti formali nell'ambito delle attività di ricerca e sviluppo che ha sempre intrattenuto con la comunità pisana di propulsione aerospaziale – ha detto il professore Fabrizio Paganucci del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale - Giorgio è rimasto sempre affettivamente legatissimo a noi tutti e alla nostra università, a lui da parte nostra e di tutto l’Ateneo vanno gli auguri per il suo nuovo incarico”.

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