BRIGHT-NIGHT 2023: si accende il 29 settembre la Notte europea delle ricercatrici e dei ricercatori in Toscana
Tutto in una Notte, un invito a scoprire l’affascinante mondo della scienza e della ricerca. Il prossimo 29 settembre è la “Notte europea delle ricercatrici e dei ricercatori”, manifestazione annuale, nata per impulso della Commissione UE con l’obiettivo di diffondere la cultura scientifica, che si celebra in contemporanea in tutta Europa. In Toscana è previsto un ricchissimo cartellone di iniziative – presentato oggi in una conferenza stampa -, sotto il titolo BRIGHT-NIGHT. Un nome che è anche un programma: alla parola notte si unisce l'acronimo di "Brilliant Researchers Impact on Growth Health and Trust in research", cioè i ricercatori di talento hanno un impatto sulla crescita, la salute e la fiducia nella ricerca.
BRIGHT-NIGHT schiera infatti tutto il mondo della ricerca in Toscana: è promosso dagli Atenei (Università di Firenze, Pisa, Siena, Siena Stranieri, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Scuola Normale Superiore e Scuola IMT Alti Studi Lucca) e da un’ampia rete di Enti di ricerca - il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), l'European Gravitational Observatory (EGO-Virgo), l’Istituto Nazionale di Astrofisica- Osservatorio Astrofisico di Arcetri (INAF-OAA) - con il sostegno della Regione Toscana, nell’ambito di Giovanisì, il progetto regionale per l’autonomia dei giovani.
Qualche numero. Circa 1000 ricercatrici e ricercatori saranno nelle piazze di 11 città della nostra regione (Arezzo, Cascina, Castelnuovo Berardenga, Firenze, Grosseto, Lucca, Paganico, Pisa, Prato, San Giovanni Valdarno, Siena) e animeranno oltre 300 iniziative: laboratori, dimostrazioni, esperimenti, mostre, visite guidate e passeggiate scientifiche coinvolgeranno i cittadini in un percorso avvincente attraverso una vastissima gamma di temi legati alla ricerca.
Il programma in dettaglio è disponibile su www.bright-night.it.
Attraverso il sito è già possibile votare, inoltre, i risultati e i prodotti delle attività promosse, nell’ambito di BRIGHT-NIGHT con l’iniziativa “Researchers@School”. Nel corso dell’anno i ricercatori hanno svolto lezioni e laboratori dentro le aule scolastiche con lo scopo di sensibilizzare i più giovani sul lavoro della ricerca, per evidenziarne l’importanza nella vita quotidiana e superare le barriere di genere nei percorsi di carriera legati al mondo scientifico. Sono state coinvolte, con il supporto di 300 ricercatori, 30 scuole toscane per un totale di 800 alunni.
In breve, alcune anticipazioni del programma di iniziative.
A Firenze, la sede principale dell’evento è Piazza SS. Annunziata, che ospiterà vari stand, un padiglione dedicato interamente ai ragazzi (a loro è riservata anche una caccia al tesoro) ricco di momenti di scoperta della scienza, oltre a un’area incontri dove si avvicenderanno brevi talk delle ricercatrici e ricercatori dell’Università di Firenze sotto il titolo “Mostra e Dimostra”. Il pubblico potrà votare il suo preferito in diretta. L’Istituto e Museo degli Innocenti collabora con un programma specifico, visite guidate e talk. La serata si conclude con lo spettacolo “I confini non esistono” di e con Stefano Mancuso e Matteo Caccia: si incrociano le narrazioni del notissimo neurobiologo vegetale e dell’attore e drammaturgo. Edoardo Massa accompagnerà i vari momenti della performance disegnando dal vivo. Altri appuntamenti precedono e seguono la “Notte” a Firenze durante tutta la settimana dal 25 al 30 settembre, per un totale di 70 iniziative.
Cuore della manifestazione a Pisa saranno le cinque “Piazze della Ricerca” allestite in Logge dei Banchi, Largo Ciro Menotti, Piazza Dante, Piazza dei Cavalieri e Piazza Santa Caterina, ognuna dedicata a un macro-tema: Comunità virtuali e società 4.0; Radio Benessere: in ascolto di mente e corpo; Benvenuti nei Cybermondi; Intervista al Pianeta Terra; Mediterraneo: un mare di culture, con laboratori ed esperimenti live. I bambini e le bambine che completeranno il giro delle piazze otterranno il titolo di “Scienziata/Scienziato per una Notte” e un gadget BRIGHT-NIGHT. Il pubblico potrà inoltre partecipare alle “Passeggiate con la scienza” e alla “Pedalata con la Scienza”, pensata per sensibilizzare sui temi della mobilità sostenibile. Le università, i centri di ricerca, i musei e le biblioteche ospiteranno inoltre attività laboratoriali, workshop, conferenze e giochi aperti a tutti i visitatori e alle scuole.
Grandi novità quest’anno per le iniziative a Siena. Si tratta di più di 120 eventi durante tutta la settimana, dal 25 al 30 settembre, lungo un percorso cittadino che si snoda dai poli universitari San Niccolò e Santa Chiara Lab, fino alla Piazza del Campo e al Tartarugone, e che coinvolgerà, oltre alle tradizionali sedi universitarie e cittadine, molti altri luoghi storici di solito non visibili che accoglieranno, per la prima volta, le ricercatrici e i ricercatori nei propri spazi. Le attività saranno declinate intorno al tema generale “Esserə Umani”, con attenzione particolare all'identità umana nel contesto contemporaneo. All'Università di Siena si terrà il consueto PHD Graduation Day, che quest'anno avrà come ospite il fisico Alessandro Vespignani, mentre Unistrasi chiuderà le iniziative del pomeriggio del 29 settembre con un laboratorio di danze coreane.
A Lucca, dopo una settimana di pre-eventi, la Scuola IMT propone un fitto cartellone di incontri, laboratori per i più piccoli, visite guidate e stand della ricerca fin dal primo pomeriggio. Main event sarà l'incontro -organizzato in collaborazione con Lucca Film Festival - in cui si parlerà anche di intelligenza artificiale e dell'importanza della ricerca scientifica. Dopo il successo della scorsa edizione, torna anche quest’anno lo “Speakers’ corner - risposte in breve a grandi domande” in cui ricercatrici e ricercatori della Scuola IMT si cimenteranno nel rispondere “scientificamente”, ma semplicemente a quesiti assai impegnativi.
La Notte delle ricercatrici e dei ricercatori in Toscana è un progetto co-finanziato dal programma HORIZON-MSCA-2022-Citizens della Commissione Europea, nell’ambito delle azioni Marie Skłodowska-Curie.
The earliest deep-sea vertebrates revealed by unusual fossils
Extremely rare fossils reveal the earliest evidence of deep-sea fishes, pushing back the invasion of the abyssal plain by 80 million years. This revolutionary conclusion has been presented in a new study conducted by an international team of scientists led by palaeontologist Andrea Baucon and which includes Prof. Luca Pandolfi of the Department of Earth Sciences of the University of Pisa. The study has been published in the September issue of the Proceedings of the National Academy of Sciences (https://doi.org/10.1073/pnas.2306164120), one of the world's most-cited peer-reviewed multidisciplinary scientific journals.
"When I first found the fossils, I can’t believe what I was seeing,” says Luca Pandolfi. The reason for the astonishment is the remote age of the fossils, which predate any other evidence of deep-sea fish by million years. The newly discovered fossils date back to the Early Cretaceous (130 million years ago). “The new fossils show the activity of fishes on a dinosaur-age seafloor that was thousands of meters deep,” Baucon says.
The newly discovered fossils are rare and unusual. They comprise bowl-shaped excavations produced by ancient feeding fishes, as well as the sinuous trail formed by the tail of a swimming fish, incising the muddy seafloor. These trace fossils do not comprise fish bones, but they record ancient behaviour. As such, the Apennine fossils mark a critical point in space and time. It is the point at which fishes moved out of the continental shelf and colonized a new harsh environment, located far away from their original habitat. “The studied trace fossils are akin to the astronauts' footprints on the Moon,” says Baucon.
Thousands of meters below the surface of the Tethys Ocean, the earliest deep-sea fishes faced extreme environmental conditions. Total darkness, near-freezing temperatures, and colossal pressures challenged the survival of these pioneers of the abyss. “As if that wasn’t enough, turbid currents swept the vast muddy plains patrolled by ancient fishes,” says Luca Pandolfi. Such extreme conditions required adaptations for deep-sea life that are evolutionary innovations as significant as those that allowed the colonization of the land and the air (e.g., wings and limbs).
The newly discovered fossils represent not just the earliest deep-sea fishes but the earliest deep-sea vertebrates. The evolution of vertebrates – backboned animals – has been punctuated by habitat transitions from shallow marine origins to terrestrial, aerial, and deep-sea environments. Invasion of the deep sea is the least-understood habitat transition because of the low fossilization potential associated with the deep sea. “The new fossils shed light on an otherwise obscure chapter of the history of life on Earth,” comments Carlos Neto de Carvalho.
The Apennine fossils force scientists to reconsider which factors might have triggered the vertebrate colonization of the deep sea. Baucon and colleagues propose that the trigger was the unprecedented input of organic matter that occurred between the Late Jurassic and the Early Cretaceous. “The availability of food in the deep seas favoured bottom-dwelling worms, which, in turn, attracted fishes that used specific behaviours to expose them,” explains Annalisa Ferretti. "Behaviour: that’s what the new fossils are all about,” says Girolamo Lo Russo.
In the new study, researchers used a peculiar approach to understand fossil behaviour. “We turned to present-day seas for understanding the past,” says Fernando Muñiz. Baucon and colleagues studied the behaviour of modern fishes in their habitats. “The coasts of Spain and Italy have provided the key to interpreting the fossil structures,” reveals Zain Belaústegui, supported by the words of Chiara Fioroni: “Observing modern fishes has been illuminating”. Scientists explored the depths of the Pacific Ocean to study chimaeras, also known as ghost sharks, in their living environment. “At 1500 m of depth, we observed a chimaera plunging its mouth into the sediment. It was a glimpse into the past!” says Thomas Linley.
The new fossils are identical to structures produced by modern fishes that feed by either scratching the seafloor or exposing their bottom-dwelling prey by suction. This reminds of Neoteleostei, the group of vertebrates that includes modern jellynose fishes and lizardfishes. “A key feature of Neoteleostei is the highly developed suction feeding apparatus, therefore, the Apennine fossils may represent a very early stage of diversification of Neoteleostei into the deep sea,” explains Imants Priede. “The present is key to the past… and vice-versa!” says Mário Cachão.
The newly discovered fossils may represent the first major step in the origins of modern deep-sea vertebrate biodiversity. “Fishes such as the bathysaur and the tripod spiderfish are an important component of modern deep-sea ecosystems,” reveals Armando Piccinini. The roots of modern deep-sea ecosystems are in the Apennine fossils, witnessing a key habitat transition in the history of the oceans. “Our fossil discoveries reassess the mode and tempo of the vertebrate colonization of the deep sea. The newly discovered fossils contain fundamental clues about the very beginnings of vertebrate evolution in the deep sea, having profound implications for both Earth and Life Sciences”,
Ritrovate sull’Appennino le tracce fossili dei più antichi pesci abissali
Scoperte sull’Appennino le evidenze dei più antichi pesci abissali al mondo. Il ritrovamento delle tracce fossili retrodata la comparsa di questi vertebrati di 80 milioni di anni, al tempo dei dinosauri. La notizia arriva da una ricerca condotta da un gruppo internazionale di scienziati guidato dal paleontologo italiano Andrea Baucon e di cui fa parte il professore Luca Pandolfi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS - Proceedings of the National Academy of Sciences.
"Quando abbiamo trovato questi strani fossili in tre siti paleontologici nei dintorni di Piacenza, Modena e Livorno (che dal punto di vista geologico fa parte dell’Appennino Settentrionale), non potevamo credere ai nostri occhi", racconta il professore Pandolfi.
Una chimera che nuota sul fondo dell’Oceano Pacifico (profondità: 1544 m; Fossa delle Kermadec) e che affonda il muso nel sedimento per nutrirsi. (Movie credit: Thomas Linley, Alan Jamieson)
Il motivo dello stupore è la loro età, che precede di milioni di anni ogni altra testimonianza di pesci abissali. I fossili appena scoperti risalgono infatti all'inizio del Cretaceo (circa 130 milioni di anni fa) e rivelano la presenza dei pesci abissali già al tempo dei dinosauri.Ma non basta, si tratta di reperti particolarmente rari ed insoliti. Non sono infatti ossa, ma tracce che registrano il comportamento di animali scomparsi milioni di anni fa, come l’impronta sinuosa della coda di un pesce che nuotava vicino al fondale o le escavazioni prodotte da esemplari in cerca di cibo.
Per capire il comportamento di questi primi vertebrati abissali i ricercatori hanno quindi esplorato le profondità dell'Oceano Pacifico per studiare le chimere, o gli squali fantasma. Le tracce fossili sono risultate identiche a quelle prodotte dai pesci moderni che si nutrono grattando o aspirando i sedimenti, in particolare i Neoteleostei, il gruppo di vertebrati che include i moderni ‘pesci-lucertola’ (Bathysaurus).
"Le tracce fossili appena scoperte sono paragonabili alle impronte degli astronauti sulla Luna", dice Baucon "sono reperti che riscrivono il ‘come’ ed il ‘quando’ della colonizzazione degli abissi da parte dei vertebrati, un evento ancora poco compreso dalla scienza, dato che si tratta di ambienti che spesso precludono la fossilizzazione".
Tracce fossili prodotte da pesci e ricostruzione del loro meccanismo di produzione. Foto di un campione reale e ricostruzione 3D a falsi colori di un altro campione. Negli sketch un tentativo di ricostruzione del meccanismo di produzione delle tracce fossili di alimentazione a scodella (fp), secondo il quale un pesce espone la sua preda al flusso dell'acqua e ricostruzione del meccanismo di produzione delle piste di movimento(st) e di nutrizione (ft).
Da qui, ancora, l’eccezionalità del ritrovamento che ci racconta come migliaia di metri sotto la superficie dell'Oceano Ligure-Piemontese, i primi pesci abissali affrontassero condizioni ambientali estreme. Oscurità totale, temperature prossime allo zero e pressioni colossali mettevano alla prova la sopravvivenza di questi pionieri. Come se non bastasse, correnti torbide spazzavano le vaste pianure fangose pattugliate dai pesci in cerca di cibo. Queste condizioni estreme hanno richiesto adattamenti specifici, innovazioni evolutive altrettanto significative di zampe e ali che hanno permesso la colonizzazione della terra e dell'aria.
Lo studio, finanziato della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC), ha beneficiato della collaborazione di istituzioni scientifiche di Italia (Università di Genova, Modena e Reggio Emilia, Padova, Pisa, Parma; Museo di Storia Naturale di Piacenza; Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige), Portogallo (Geoparco UNESCO Naturtejo; Università di Lisbona), Inghilterra (Università di Newcastle), Spagna (Università di Siviglia e Barcellona), Australia (Università dell'Australia Occidentale), Scozia (Università di Aberdeen). Lo studio ha beneficiato di un significativo finanziamento da parte della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC)
Ritrovate sull’Appennino le tracce fossili dei più antichi pesci abissali: la scoperta retrodata la loro comparsa di 80 milioni di anni al tempo dei dinosauri
Scoperte sull’Appennino le evidenze dei più antichi pesci abissali al mondo. Il ritrovamento delle tracce fossili retrodata la comparsa di questi vertebrati di 80 milioni di anni, al tempo dei dinosauri. La notizia arriva da una ricerca condotta da un gruppo internazionale di scienziati guidato dal paleontologo italiano Andrea Baucon e di cui fa parte il professore Luca Pandolfi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS - Proceedings of the National Academy of Sciences.
"Quando abbiamo trovato questi strani fossili in tre siti paleontologici nei dintorni di Piacenza, Modena e Livorno (che dal punto di vista geologico fa parte dell’Appennino Settentrionale), non potevamo credere ai nostri occhi", racconta il professore Pandolfi.
Il motivo dello stupore è la loro età, che precede di milioni di anni ogni altra testimonianza di pesci abissali. I fossili appena scoperti risalgono infatti all'inizio del Cretaceo (circa 130 milioni di anni fa) e rivelano la presenza dei pesci abissali già al tempo dei dinosauri.
Ma non basta, si tratta di reperti particolarmente rari ed insoliti. Non sono infatti ossa, ma tracce che registrano il comportamento di animali scomparsi milioni di anni fa, come l’impronta sinuosa della coda di un pesce che nuotava vicino al fondale o le escavazioni prodotte da esemplari in cerca di cibo.
Per capire il comportamento di questi primi vertebrati abissali i ricercatori hanno quindi esplorato le profondità dell'Oceano Pacifico per studiare le chimere, o gli squali fantasma. Le tracce fossili sono risultate identiche a quelle prodotte dai pesci moderni che si nutrono grattando o aspirando i sedimenti, in particolare i Neoteleostei, il gruppo di vertebrati che include i moderni ‘pesci-lucertola’ (Bathysaurus).
"Le tracce fossili appena scoperte sono paragonabili alle impronte degli astronauti sulla Luna", dice Baucon "sono reperti che riscrivono il ‘come’ ed il ‘quando’ della colonizzazione degli abissi da parte dei vertebrati, un evento ancora poco compreso dalla scienza, dato che si tratta di ambienti che spesso precludono la fossilizzazione".
Da qui, ancora, l’eccezionalità del ritrovamento che ci racconta come migliaia di metri sotto la superficie dell'Oceano Ligure-Piemontese, i primi pesci abissali affrontassero condizioni ambientali estreme. Oscurità totale, temperature prossime allo zero e pressioni colossali mettevano alla prova la sopravvivenza di questi pionieri. Come se non bastasse, correnti torbide spazzavano le vaste pianure fangose pattugliate dai pesci in cerca di cibo. Queste condizioni estreme hanno richiesto adattamenti specifici, innovazioni evolutive altrettanto significative di zampe e ali che hanno permesso la colonizzazione della terra e dell'aria.
Lo studio, finanziato della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC), ha beneficiato della collaborazione di istituzioni scientifiche di Italia (Università di Genova, Modena e Reggio Emilia, Padova, Pisa, Parma; Museo di Storia Naturale di Piacenza; Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige), Portogallo (Geoparco UNESCO Naturtejo; Università di Lisbona), Inghilterra (Università di Newcastle), Spagna (Università di Siviglia e Barcellona), Australia (Università dell'Australia Occidentale), Scozia (Università di Aberdeen). Lo studio ha beneficiato di un significativo finanziamento da parte della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia attraverso fondi nazionali (PIDDAC)
Articolo scientifico
The earliest evidence of deep-sea vertebrates
Andrea Baucon, Annalisa Ferretti, Chiara Fioroni, Luca Pandolfi, Enrico Serpagli, Armando Piccinini, Carlos Neto de Carvalho, Mário Cachão, Thomas Linley, Fernando Muñiz, Zain Belaústegui, Alan Jamieson, Girolamo Lo Russo, Filippo Guerrini, Sara Ferrando, Imants Priede,
Proceedings of the National Academy of Sciences
Volume: 120, Issue: 37, DOI: 10.1073/pnas.2306164120
https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.2306164120
Contare senza contare: descritto con un algoritmo quantistico il meccanismo che ci fa percepire il numero degli oggetti intorno a noi
Non tutti lo sanno, ma umani e animali condividono una capacità molto particolare, quella di saper contare senza contare. Cosa significa? Se ad esempio entriamo in una stanza e su un tavolo vediamo molti oggetti, siamo in grado di indicare il loro numero senza contarli e lo facciamo con un margine di errore del 15%, una costante che si mantiene indipendentemente dalla tipologia o dalla quantità di oggetti che vediamo, non importa se siano 5 o 200. In pratica, come ha codificato una legge fondamentale della fisiologia – la legge di Weber – siamo capaci di contare con un margine di precisione molto alto in una maniera percettiva e non cognitiva. In uno studio pubblicato sulla rivista Plos One, un gruppo di ricercatori e ricercatrici composto da neuroscienziati e fisici dell’Università di Pisa e del CNR Pisa – formato da Jorge Yago Malo, Guido Marco Cicchini, Maria Concetta Morrone e Marilù Chiofalo – ha presentato un modello per simulare questa operazione di conteggio che – questa è la novità – utilizza la meccanica quantistica.
Le ricercatrici e i ricercatori sono partiti dalla constatazione che, nel momento in cui si chiede a una rete neurale di simulare le operazioni di conteggio, questa non funziona così bene e non si riesce a ottenere un'architettura semplice che svolga questo compito. Anzi, la maggior parte delle risposte suggeriscono l'emergere del senso del numero in reti neurali molto complesse, che richiedono tipicamente l’apprendimento guidato, mentre la nostra capacità di “saper contare senza contare” è una caratteristica ubiqua in Natura, che possediamo in maniera non allenata.
È stato dunque elaborato un semplice modello quantistico di una rete di spin, una proprietà magnetica delle particelle quantistiche, rispetto alla quale queste possono trovarsi in più stati contemporaneamente (finché non venga effettuata una misura). Nel modello, l’eccitazione di un neurone corrisponde al cambio di stato di uno spin della rete, e l’informazione sullo stato di eccitazione dello spin si propaga nella rete attraverso il tunneling quantistico, favorita o inibita dall’interazione tra gli spin. Se ogni spin è connesso a tutti gli altri, per quanto lontani, la numerosità rimane codificata nello spettro delle frequenze con cui gli spin della rete cambiano collettivamente il loro stato: dopo la stimolazione con un certo numero di segnali transitori immessi nella rete, non importa se con sequenze temporali e spaziali casuali o ordinate, ogni stimolazione aggiunta si manifesta nello spettro con l’apparire di una, e una sola, frequenza collettiva.
“Un fatto sorprendente. Nel nostro studio abbiamo utilizzato la fisica quantistica come strumento statistico per l'elaborazione delle informazioni, senza alcuna implicazione sulla presenza di fenomeni quantistici nel processo di percezione – spiegano – Abbiamo creato un nuovo approccio in cui, aderendo alle regole della meccanica quantistica invece che a quelle classiche, siamo in grado di riprodurre un comportamento percettivo del sistema visivo con un modello minimale, che sfrutta però le proprietà per noi controintuitive dei sistemi quantistici. Al contrario dei neuroni infatti, lo stato di ogni spin è al tempo stesso eccitato e non eccitato e l’informazione sulla sua condizione – anche se noi non sappiamo quale sia - si propaga nella rete neurale quantistica determinando uno stato collettivo che, grazie alla connessione tra tutti gli spin, diventa un inestricabile intreccio capace di mantenere una memoria molto precisa, nel tempo e nello spazio, dell’eccitazione immessa all’inizio del processo. Riproduciamo e non interpretiamo il comportamento percettivo: infatti, non affermiamo che il cervello elabori in modo quantistico le informazioni rilevanti per i processi sensoriali, con il nostro studio suggeriamo piuttosto che le strutture matematiche della meccanica quantistica possono funzionare per simulare la dinamica di reti neuronali complesse”.
La particolarità di questa descrizione è che non solo è in grado di codificare la numerosità, ma riproduce anche la legge di Weber come una caratteristica intrinseca di tutta la rete neuronale, senza cioè che questa debba essere allenata e non importa quanto complicata sia la dinamica del sistema: “Con la macchineria della meccanica quantistica – in un certo modo e paradossalmente più semplice di quella delle reti neurali classiche – siamo riusciti a descrivere con un sistema matematico semplice un problema molto complesso”.
Il metodo sviluppato da Yago Malo, Cicchini, Morrone e Chiofalo può aprire la strada per simulare in modo efficiente altri comportamenti percettivi e ingegnerizzare intelligenze artificiali quantistiche capaci di riprodurli. Un prossimo studio potrà per esempio riguardare le percezioni del tempo e dello spazio che, come è noto dalla fenomenologia, sono intimamente legate tra loro e alla numerosità, nel senso che qualunque alterazione in una di queste dimensioni percettive influenza le altre due. I risultati di questo studio sono già stati presentati su invito alla conferenza internazionale Mind Matter a Helsinki e più di recente ad una conferenza interdisciplinare a San Diego, organizzata dal Center for Consciousness.
Da un ex studente di Fisica il mosaico di immagini che documenta le fasi del pianeta Venere
Roberto Ortu, ex-studente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e ora astro-fotografo, è riuscito a osservare il pianeta Venere, catturando con l’obiettivo del telescopio lo spettacolo delle sue varie fasi, sul modello lunare, e il mosaico di immagini che ne è seguito è stato pubblicato sul sito “Astronomy Picture of the Day” della NASA. Le immagini seguono Venere dalla mezza sfera di fine maggio alla falce osservata in agosto, quando il pianeta ormai prossimo al Sole è visibile poco prima dell'alba o poco dopo il tramonto. "Gli aspetti più falciformi – ha detto Roberto Ortu - sono stati i più difficili da fotografare perché il pianeta si trovava immerso nella luce del crepuscolo".
"Man mano che Venere diventa falciforme – ha spiegato il professor Sergio Giudici, docente di Fisica sperimentale e direttore del Museo degli Strumenti di Fisica-Ludoteca Scientifica - il suo diametro apparente aumenta. Il fenomeno, osservato per la prima volta da Galileo, costituisce la prova che i pianeti orbitano intorno al Sole e non intorno alla Terra come all'epoca si credeva. Le fotografie sono in accordo con il disegno delle fasi che Galileo pubblica nel ‘Saggiatore’ nel 1623, di cui quest’anno ricorrono i 400 anni (immagine in basso). Con il suo lavoro paziente, Roberto Ortu ha replicato le osservazioni galileiane e le belle immagini che ha ricavato possono essere utili nella didattica della Fisica. Se dopo i terrapiattisti ritornassero i geo-centristi, potremmo mostrare loro le fasi di Venere e chiedere di spiegarle!".
Da un ex studente di Fisica il mosaico di immagini che documenta le fasi del pianeta Venere
Roberto Ortu, ex-studente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa e ora astro-fotografo, è riuscito a osservare il pianeta Venere, catturando con l’obiettivo del telescopio lo spettacolo delle sue varie fasi, sul modello lunare, e il mosaico di immagini che ne è seguito è stato pubblicato sul sito “Astronomy Picture of the Day” della NASA. Le immagini seguono Venere dalla mezza sfera di fine maggio alla falce osservata in agosto, quando il pianeta ormai prossimo al Sole è visibile poco prima dell'alba o poco dopo il tramonto. "Gli aspetti più falciformi – ha detto Roberto Ortu - sono stati i più difficili da fotografare perché il pianeta si trovava immerso nella luce del crepuscolo".
"Man mano che Venere diventa falciforme – ha spiegato il professor Sergio Giudici, docente di Fisica sperimentale e direttore del Museo degli Strumenti di Fisica-Ludoteca Scientifica - il suo diametro apparente aumenta. Il fenomeno, osservato per la prima volta da Galileo, costituisce la prova che i pianeti orbitano intorno al Sole e non intorno alla Terra come all'epoca si credeva. Le fotografie sono in accordo con il disegno delle fasi che Galileo pubblica nel ‘Saggiatore’ nel 1623, di cui quest’anno ricorrono i 400 anni (immagine in basso). Con il suo lavoro paziente, Roberto Ortu ha replicato le osservazioni galileiane e le belle immagini che ha ricavato possono essere utili nella didattica della Fisica. Se dopo i terrapiattisti ritornassero i geo-centristi, potremmo mostrare loro le fasi di Venere e chiedere di spiegarle!".
Contare senza contare: descritto con un algoritmo quantistico il meccanismo che ci fa percepire il numero degli oggetti intorno a noi
Non tutti lo sanno, ma umani e animali condividono una capacità molto particolare, quella di saper contare senza contare. Cosa significa? Se ad esempio entriamo in una stanza e su un tavolo vediamo molti oggetti, siamo in grado di indicare il loro numero senza contarli e lo facciamo con un margine di errore del 15%, una costante che si mantiene indipendentemente dalla tipologia o dalla quantità di oggetti che vediamo, non importa se siano 5 o 200. In pratica, come ha codificato una legge fondamentale della fisiologia – la legge di Weber – siamo capaci di contare con un margine di precisione molto alto in una maniera percettiva e non cognitiva. In uno studio pubblicato sulla rivista Plos One, un gruppo di ricercatori e ricercatrici composto da neuroscienziati e fisici dell’Università di Pisa e del CNR Pisa – formato da Jorge Yago Malo, Guido Marco Cicchini, Maria Concetta Morrone e Marilù Chiofalo – ha presentato un modello per simulare questa operazione di conteggio che – questa è la novità – utilizza la meccanica quantistica.
Le ricercatrici e i ricercatori sono partiti dalla constatazione che, nel momento in cui si chiede a una rete neurale di simulare le operazioni di conteggio, questa non funziona così bene e non si riesce a ottenere un'architettura semplice che svolga questo compito. Anzi, la maggior parte delle risposte suggeriscono l'emergere del senso del numero in reti neurali molto complesse, che richiedono tipicamente l’apprendimento guidato, mentre la nostra capacità di “saper contare senza contare” è una caratteristica ubiqua in Natura, che possediamo in maniera non allenata.
Il gruppo di ricercatori: da sinistra Jorge Yago Malo, Marilù Chiofalo, Maria Concetta Morrone e Guido Marco Cicchini.
È stato dunque elaborato un semplice modello quantistico di una rete di spin, una proprietà magnetica delle particelle quantistiche, rispetto alla quale queste possono trovarsi in più stati contemporaneamente (finché non venga effettuata una misura). Nel modello, l’eccitazione di un neurone corrisponde al cambio di stato di uno spin della rete, e l’informazione sullo stato di eccitazione dello spin si propaga nella rete attraverso il tunneling quantistico, favorita o inibita dall’interazione tra gli spin. Se ogni spin è connesso a tutti gli altri, per quanto lontani, la numerosità rimane codificata nello spettro delle frequenze con cui gli spin della rete cambiano collettivamente il loro stato: dopo la stimolazione con un certo numero di segnali transitori immessi nella rete, non importa se con sequenze temporali e spaziali casuali o ordinate, ogni stimolazione aggiunta si manifesta nello spettro con l’apparire di una, e una sola, frequenza collettiva.
“Un fatto sorprendente. Nel nostro studio abbiamo utilizzato la fisica quantistica come strumento statistico per l'elaborazione delle informazioni, senza alcuna implicazione sulla presenza di fenomeni quantistici nel processo di percezione – spiegano – Abbiamo creato un nuovo approccio in cui, aderendo alle regole della meccanica quantistica invece che a quelle classiche, siamo in grado di riprodurre un comportamento percettivo del sistema visivo con un modello minimale, che sfrutta però le proprietà per noi controintuitive dei sistemi quantistici. Al contrario dei neuroni infatti, lo stato di ogni spin è al tempo stesso eccitato e non eccitato e l’informazione sulla sua condizione – anche se noi non sappiamo quale sia - si propaga nella rete neurale quantistica determinando uno stato collettivo che, grazie alla connessione tra tutti gli spin, diventa un inestricabile intreccio capace di mantenere una memoria molto precisa, nel tempo e nello spazio, dell’eccitazione immessa all’inizio del processo. Riproduciamo e non interpretiamo il comportamento percettivo: infatti, non affermiamo che il cervello elabori in modo quantistico le informazioni rilevanti per i processi sensoriali, con il nostro studio suggeriamo piuttosto che le strutture matematiche della meccanica quantistica possono funzionare per simulare la dinamica di reti neuronali complesse”.
La particolarità di questa descrizione è che non solo è in grado di codificare la numerosità, ma riproduce anche la legge di Weber come una caratteristica intrinseca di tutta la rete neuronale, senza cioè che questa debba essere allenata e non importa quanto complicata sia la dinamica del sistema: “Con la macchineria della meccanica quantistica – in un certo modo e paradossalmente più semplice di quella delle reti neurali classiche – siamo riusciti a descrivere con un sistema matematico semplice un problema molto complesso”.
Il metodo sviluppato da Yago Malo, Cicchini, Morrone e Chiofalo può aprire la strada per simulare in modo efficiente altri comportamenti percettivi e ingegnerizzare intelligenze artificiali quantistiche capaci di riprodurli. Un prossimo studio potrà per esempio riguardare le percezioni del tempo e dello spazio che, come è noto dalla fenomenologia, sono intimamente legate tra loro e alla numerosità, nel senso che qualunque alterazione in una di queste dimensioni percettive influenza le altre due. I risultati di questo studio sono già stati presentati su invito alla conferenza internazionale Mind Matter a Helsinki e più di recente ad una conferenza interdisciplinare a San Diego, organizzata dal Center for Consciousness.
Botanical School. Scuola per insegnanti all'Orto Botanico
Co_Bo_23 – Connessioni Botaniche: la Botanica trait d’union dei curricula scolastici, è il titolo della quarta edizione della scuola per docenti organizzata dall’Orto e Museo Botanico per l’anno Scolastico 2023-24. L’edizione di quest’anno focalizza l’attenzione sulle opportunità interdisciplinari che vedono le scienze botaniche come filo conduttore attraverso cui poter affrontare non soltanto argomenti scientifici, ma anche lo studio di discipline dell’area umanistica; l’obiettivo è quello di incrementare l’interdisciplinarietà, offrendo la possibilità di avvicinare e far coesistere saperi, nonché creare spunti di collaborazione tra docenti di discipline differenti.
Dipendenza dal petrolio: ecco la classifica dei Paesi UE (incluso Regno Unito)
Per dipendenza da petrolio l’Italia è ottava nella classifica europea, in testa ci sono paesi come Lituania, Grecia, Paesi Bassi e Spagna. Il dato riferito al 2019 emerge da uno articolo pubblicata sulla rivista Resources Policy e firmato da Giovanni Carnazza dell’Università di Pisa e Federica Cappelli dell’Università di Ferrara.
La ricerca ha preso in considerazione i 28 paesi dell’Unione Europea (UE) (incluso il Regno Unito) tra il 1999-2019 stilando una classifica che si basa su un indice multidimensionale molto complesso mai elaborato prima. Gli aspetti considerati sono quattro: dipendenza energetica (quanta della nostra energia derivi dal petrolio); dipendenza economica (quanto del nostro Pil reale dipenda dal petrolio); dipendenza internazionale (quanto del nostro petrolio derivi da importazioni); dipendenza geopolitica (quanto è elevato il grado di diversificazione dell’import e quanto le nostre relazioni commerciali sono connesse a paesi politicamente stabili).
“Il petrolio rappresenta più di un terzo dell’energia creata ed utilizzata all’interno dell’Unione Europea, il che mette in luce la profonda dipendenza dai combustibili fossili – dice Giovanni Carnazza ricercatore del Dipartimento di Economia e Management - Come lo scoppio della guerra tra Ucraina e Russia ha insegnato, continuare a contare su risorse energetiche esterne rende ciascun paese estremamente vulnerabile a shock esterni.”
Nel dettaglio, per quanto riguarda l’Italia nel 2019, si scopre che le fonti di energia derivano dal petrolio per il 35%, dal gas naturale per il 30% mentre le rinnovabili sono al 10%. A livello europeo le medie sono 41% per il petrolio, 16% per il gas naturale e 9% per le rinnovabili. Considerando quindi l’altra faccia della medaglia rispetto al petrolio, ovvero le rinnovabili, la maglia nera va a Irlanda (4,3%) Lussemburgo (4,3%) e Olanda (4,5%) mentre i paesi più virtuosi sono Finlandia (27%), Lettonia (26,4) e Svezia (26,2%).
In generale, lo studio ha evidenziato tre fondamentali criticità dell’UE: la difficoltà a dissociare il consumo di petrolio dalla crescita del PIL e raggiungere gli obiettivi ambientali fissati dal Green Deal europeo; la disparità dei vari paesi rispetto alla dipendenza dal petrolio; e infine il problema della dipendenza internazionale e geopolitica dal petrolio per la sicurezza energetica.
“Il nostro lavoro ha mostrato il ritardo con cui molti paesi dell’UE stanno affrontando la necessità di una transizione ecologica non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello socioeconomico – conclude Carnazza - Si pensi soltanto alle ricadute negative in termini di potere di acquisto delle famiglie che ha avuto la pressione inflazionistica scaturita dall’incremento del prezzo del petrolio e del gas naturale. Aver creato una misura sintetica e multidimensionale di dipendenza dal petrolio in termini trasversali (28 paesi membri dell’UE) e storici (dal 1999 al 2019) può rappresentare un primo tassello importante per capire da dove nasce questa profonda dipendenza e il modo attraverso cui superarla”.