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Comunicati stampa

Il 10 marzo alle 16.30 prosegue il ciclo di incontri sul tema dell’accessibilità nelle aree archeologiche, organizzato dalla Gipsoteca dell’Università di Pisa, con la conferenza dal titolo "Accessibilità integrata: azioni concrete per un’esperienza inclusiva" dedicata alle esperienze del Parco Archeologico di Paestum e Velia. Gli ospiti dell’incontro sono Antonella Manzo (Ufficio tecnico, referente accessibilità), Giovanna Manzo (Laboratorio Restauro), Francesco Uliano Scelza (Ufficio tutela, scavi, ricerche e mostre, Responsabile area archeologica di Velia), Maria José Luongo (Servizi didattica e accoglienza). Modera Gianluca Miniaci (Università di Pisa, docente di Egittologia), intervengono Anna Anguissola e Chiara Tarantino, curatrici dell’iniziativa.

L’incontro si terrà a distanza e potrà essere seguito sul canale YouTube del dipartimento di Civiltà e forme del sapere attraverso il link https://youtu.be/XLloOmHchsI.

Venerdì 11 marzo alle 17 prosegue anche il ciclo di conferenze sull’Acropoli di Atene, con l’archeologo Nicola Giaccone che parlerà de “L'Acropoli e i grandi cantieri architettonici del V secolo a.C”. Questo incontro potrà essere seguito in presenza dalla Gipsoteca (piazza San Paolo all’Orto 20, Pisa) prenotando a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. oppure sul canale YouTube del dipartimento di Civiltà e forme del sapere al link https://youtu.be/Jn6vKrV44Sk.

Le iniziative rientrano nella manifestazione “Aree archeologiche e accessibilità: da limite a opportunità”, organizzata dalla Gipsoteca di arte antica e antiquarium del Sistema museale di ateneo, con il patrocinio del Dipartimento di Civiltà e forme del sapere, del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica e del Comune di Pisa, in cooperazione con USID – Ufficio servizi per l’integrazione di studenti con disabilità.

 

Quando è che i cetacei hanno cominciato a nutrirsi di altri mammiferi marini? Probabilmente in tempi molto recenti, almeno così sembra dal ritrovamento in Grecia di uno straordinario delfino fossile, simile e imparentato con l’attuale pseudorca (Pseudorca crassidens). Questo fossile è stato, infatti, ritrovato insieme al suo ultimo pasto, rappresentato da resti di pesci. La conferma arriva anche dallo studio di un reperto scoperto in Toscana oltre un secolo fa, parente stretto dell’attuale orca (Orcinus orca).

La pseudorca e l’orca sono gli unici cetacei attuali che si nutrono di altri mammiferi marini. Le pseudorche catturano spesso altri delfini, mentre le orche predano non solo foche e piccoli cetacei ma anche balenottere lunghe più di 10 metri.

Entrambi questi cetacei si nutrono di grosse prede che cacciano in branchi, sferrando potenti morsi per lacerare la carne delle loro vittime in maniera analoga agli squali.

Fino ad oggi, però, mancavano delle prove fossili che illustrassero l'origine di questo comportamento alimentare, sebbene le analisi genetiche indichino che esso si sia evoluto indipendentemente nelle due linee evolutive distinte dell'orca e della pseudorca.

Un nuovo studio condotto dai paleontologi dell’Università di Pisa e del New York Institute of Technology permette ora di riscrivere la storia evolutiva di questi grandi predatori dei mari e i risultati ottenuti sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Current Biology (https://doi.org/10.1016/j.cub.2022.02.041).

Le ricerche sono state svolte su due fronti separati da oltre un secolo di storia: un nuovo straordinario reperto fossile da poco rinvenuto a Rodi (Grecia) e l’unico antenato della moderna orca, scoperto a Cetona (Toscana) nella seconda metà dell’800.

Il fossile di Rodi consiste di uno scheletro scoperto nel 2020 da Polychronis Stamatiadis, esperto di geologia e di paleontologia, nelle rocce argillose che affiorano nella baia di Pefkos sulla costa sudorientale dell’isola. Queste rocce derivano da sedimenti che si deposero sul fondale marino tra 1,5 e 1,3 milioni di anni fa. Il fossile rappresenta uno dei più completi scheletri di cetacei del Pleistocene mai rinvenuti fino ad ora.

“Appena ho ricevuto da Polychronis le foto di questo reperto - racconta Giovanni Bianucci, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e primo autore della pubblicazione – mi sono subito reso conto dell’importanza di questa scoperta, confermata poi dalla mia visita a Rodi dove, grazie all'ospitalità di Polychronis, ho avuto modo di studiare in dettaglio il reperto. Durante lo studio ho potuto constatare che si trattava di un delfino nuovo alla scienza, un cetaceo affine alla pseudorca ma con alcuni caratteri del globicefalo, che abbiamo chiamato Rododelphis stamatiadisi dedicandolo all’isola greca dove è stato ritrovato ed al suo scopritore.”

Ma il prof. Bianucci e i suoi colleghi volevano capire anche di cosa e come si nutrisse questo nuovo delfino: era un feroce predatore che catturava anche altri cetacei come fanno oggi l’orca e la pseudorca o si alimentava in maniera più tranquilla in acque profonde aspirando per suzione polpi e calamari come il globicefalo? Lo studio del cranio e dei denti chiariscono solo in parte questi dubbi sulle abitudini alimentari di Rododelphis. Se è vero, infatti, che il delfino di Rodi presenta alcune affinità macropredatorie con pseudorca, quali la presenza di 11 denti robusti impiantati sulla mandibola e l’ampia fossa temporale (l’area del cranio dove si inserisce la muscolatura boccale); d’altra parte la forma arrotondata della mandibola, la posizione arretrata dell’ultimo dente mascellare e l’usura limitata dei denti sono caratteri che si riscontrano nel globicefalo e in altri cetacei che praticano la suzione.

“La soluzione di questo rompicapo – afferma Alberto Collareta, anche lui paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che ha preso parte allo studio - viene dall’eccezionale ritrovamento dei resti fossili dell’ultimo pasto del delfino di Rodi, rinvenuti intorno allo scheletro al momento dello scavo e della sua preparazione. Si tratta di otoliti, concrezioni di carbonato di calcio che si trovano nell’orecchio interno dei vertebrati. Gli otoliti sono spesso l’unica parte che si conserva allo stato fossile nei pesci. Quelli trovati associati a Rododelphis appartengono a Micromesistius poutassou, comunemente noto con il nome di melù, un pesce che vive tutt’oggi anche nel Mediterraneo tra 300 e 400 metri di profondità circa. Grazie all’esame di questi otoliti è stato anche possibile stimare intorno ai 30 cm la lunghezza dei pesci catturati dal delfino.”

Che informazioni ricaviamo dal ritrovamento di questi otoliti? Che Rododelphis si cibava di pesci di media taglia e quindi che, forse, non era in grado di catturare altri delfini, come invece fa la pseudorca; ma anche che, diversamente dal globicefalo, non si nutriva di piccoli cefalopodi.

Mentre Polychronis scopriva lo scheletro di Rododelphis, Sara Citron aveva appena terminato la sua tesi di laurea magistrale in Conservazione ed Evoluzione all’Università di Pisa sull’Orcinus citoniensis, l’orca fossile scoperta a Cetona (Siena) in sabbie marine plioceniche di 3-4 milioni di anni fa. Questo eccezionale scheletro fu descritto per la prima volta nel 1883 dal grande naturalista Giovanni Capellini che ha dato il nome al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Bologna, dove il fossile è tutt’ora conservato ed esposto.

“Con il mio lavoro di tesi - racconta Sara – ho avuto l’occasione di studiare in dettaglio questo fossile e di ricavare indizi importanti sulla dieta di questo antenato del più grande predatore attivo tra tutti i cetacei attuali. L’orca di Cetona sembra una versione ridotta della specie attuale Orcinus orca: la forma del suo scheletro è molto simile alla specie moderna, ma la lunghezza del corpo non doveva superare di molto i tre metri, circa la metà dell‘orca attuale. Con una taglia così piccola è quindi improbabile che Orcinus citoniensis fosse in grado di catturare grosse prede come fa invece la specie attuale. Il cranio presenta un rostro più lungo e più stretto e una fossa temporale più piccola rispetto a Orcinus orca, supportando ulteriormente l’ipotesi che anche l’orca di Cetona, come il delfino di Rodi, non fosse in grado di catturare prede grandi come delfini o balene.”

Lo studio dell’usura e della microusura apicale dei denti di Orcinus citoniensis confermano le osservazioni fatte sulla forma del cranio e sulla taglia: queste abrasioni, causate dall’attività di predazione, sono compatibili con un’alimentazione a base di pesce, in analogia con quanto osservato in alcune popolazioni attuali di orche.

Lo studio condotto da Sara suggerisce, quindi, che anche Orcinus citoniensis si alimentasse di pesci di media taglia.

Rimaneva da capire quali fossero le relazioni di parentela tra queste due specie fossili e le attuali orca e pseudorca. Per risolvere questo mistero è stato necessario ricostruire la filogenesi (una sorta di albero genealogico) dei Delfinidi, la famiglia di cetacei di cui fanno parte il delfino di Rodi, la pseudorca, l’orca di Cetona e l’orca attuale.

Lo studio ha messo in evidenza speciali affinità di Rododelphis e Orcinus citoniensis rispettivamente con Pseudorca e Orcinus orca. In pratica, questa analisi ha confermato che il delfino di Rodi e l’orca di Cetona rappresentano due stadi evolutivi simili ma distinti che hanno poi portato all’orca ed alla pseudorca attuali. In questa fase la predazione avveniva preferenzialmente ai danni di pesci di taglia media, piuttosto che su foche, delfini, balene e altri tetrapodi come invece nelle due specie attuali. Riuscire a catturare pesci di media taglia può essere considerata una tappa evolutiva intermedia verso l’alimentazione di tetrapodi. Questo avvenne in tempi molto recenti, quando le balene erano già molto grandi. Non fu quindi la predazione delle orche, come invece ipotizzato in passato da qualcuno, ad accelerare la tendenza al gigantismo delle balene.

“Questo studio – conclude Giovanni Bianucci – fornisce un piccolo ma importante tassello per arrivare a comprendere appieno la messa in posto della fauna moderna a delfinidi e più in generale a cetacei, ancora in gran parte avvolta nel mistero a causa dell'estrema scarsità globale di fossili significativi di cetacei del Pleistocene. Il ritrovamento di Rododelphis incoraggia a continuare ad indagare aree come la Grecia e l'Italia meridionale dove sono abbondantemente esposti sedimenti marini pleistocenici, potenzialmente ricchi in cetacei fossili.”

Mercoledì, 09 Marzo 2022 08:31

L’Università di Pisa per l’8 marzo

L’8 marzo l’Università di Pisa organizza un pomeriggio di eventi online dedicati alla giornata internazionale della donna.

Alle 14.30 si tiene su Teams la presentazione del libro "Diritto e genere nella prospettiva europea", di Editoriale Scientifica, 2021. Intervengono le autrici del volume Valentina Bonini (associata di diritto processuale penale), Valentina Calderai, (associata di diritto privato comparato), Elisabetta Catelani (ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico), Angioletta Sperti (associata di diritto pubblico comparato), ed Elettra Stradella (associata di diritto pubblico comparato), con la collaborazione di Federico Azzarri e Chiara Favilli (associati di diritto privato).

Presentano il libro Massimo Rubechi, docente di diritto costituzionale dell’Università di Urbino e consigliere giuridico presso il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, e Mia Caielli, docente di diritto pubblico comparato dell’Università di Torino.

La giornata prosegue, alle 16:30, con la conferenza internazionale "Política exterior y liderazgo politico de las mujeres. El caso de la gira internacional de María Eva Duarte de Peron en 1947", di Romina Andrea Martinez, storica e ricercatrice presso l’Instituto de investigaciones históricas Eva Perón - Museo Evita della Repubblica Argentina. L’incontro, aperto dai saluti del rettore Paolo Mancarella, può essere seguito online prenotandosi via mail all’indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Saranno Genova e Pisa ad aprire giovedì 10 marzo le celebrazioni nazionali per il 150° anniversario della scomparsa di Giuseppe Mazzini, con una doppia cerimonia che unisce simbolicamente i luoghi in cui il patriota risorgimentale nacque e morì. Le due città saranno unite dall’emissione congiunta di un francobollo commemorativo voluto da Poste Italiane e da due mostre inaugurate contemporaneamente a Casa Mazzini a Genova sull’epistolario mazziniano e alla Domus Mazziniana di Pisa sull’immagine di Mazzini nella filatelia.

A Pisa sarà il Presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, a rendere il solenne omaggio della Repubblica italiana al suo “padre” spirituale.

Alle ore 11,30, nella sede della Domus Mazziniana il Presidente della Camera sarà presente all’inaugurazione della mostra dal titolo “Dare un volto all’idea. L’immagine di Mazzini nella filatelia” e all’emissione del francobollo commemorativo da parte di Poste Italiane con annullo filatelico ‘primo giorno’.

Alle 12,15 seguirà la solenne apertura delle celebrazioni agli antichi Arsenali repubblicani. Gli interventi saranno aperti dal rettore dell’Università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, che è anche il presidente della Domus Mazziniana e del Comitato Nazionale per le celebrazioni. Dopo l’indirizzo di saluto del Presidente Roberto Fico, parlerà il professor Roberto Balzani, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna, già presidente dell’Associazione Mazziniana e membro del Comitato Scientifico della Domus Mazziniana. Il professore terrà una Lectio Magistralis dal titolo “1872-2022: l’Italia allo specchio di Mazzini”. La cerimonia, a cui prenderanno parte il Coro dell’Università di Pisa e una delegazione studentesca, sarà chiusa dal presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana, Michele Finelli.

Per partecipare all’evento, che è aperto al pubblico con le limitazioni dovute al periodo di pandemia, è necessario prenotarsi all’indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o telefonare allo 050/24174.

Le celebrazioni proseguiranno con visite guidate alla Domus Mazziniana e alla mostra filatelica per concludersi alle ore 19 nel salone storico della Stazione Leopolda con “Eco di un mondo invisibile. Viaggio musicale in compagnia della chitarra di Giuseppe Mazzini” del Maestro Marco Battaglia, introdotto dal direttore della Domus Mazziniana, Pietro Finelli. L’ingresso è libero.

Alle celebrazioni di Pisa e Genova si affiancherà lo stesso 10 marzo una serie di eventi diffusi, da Roma, dove vi sarà l’omaggio al monumento nazionale a Mazzini e debutterà uno spettacolo teatrale dedicato alla vita di Mazzini, alle città simbolo del mazzinianesimo come Carrara, Forlì e Ravenna e a numerosi altri centri anche minori, arrivando fuori dai confini italiani fino a Copenaghen con una conferenza organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura con il patrocinio del Comitato Nazionale e della Domus Mazziniana. Le manifestazioni proseguiranno poi nelle settimane e nei mesi successivi, con appuntamenti già fissati a Praga, Genova, Padova e Benevento, e con convegni e iniziative rivolte alle scuole in Italia a all’estero.

Le iniziative sono coordinate dal Comitato nazionale, riconosciuto dal Ministero della Cultura, su iniziativa della Domus Mazziniana e cui partecipano i Comuni e le Università di Pisa e di Genova, la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna, l’Istituto Mazziniano di Genova e l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, oltre all’Associazione Mazziniana Italiana, che con le sue sezioni diffuse in tutta Italia rappresenta la colonna portante delle celebrazioni e il ‘cuore pulsante’ della tradizione mazziniana.

“Ricordare Giuseppe Mazzini, oggi – ha detto il professor Pietro Finelli, direttore della Domus Mazziniana - non è un’operazione esclusivamente scientifica e storiografica, ma rimanda al senso profondo dell’Italia e dell’Europa come comunità politiche unite da un destino comune. Animata da una religiosità laica e non dogmatica, la concezione etica del vivere civile, basata sui valori di Dovere e Solidarietà, propria di Giuseppe Mazzini e il suo patriottismo democratico e solidale aperto a una dimensione europea e internazionale, hanno ispirato, nel corso degli ultimi due secoli, le lotte per la libertà, l’indipendenza e la democrazia nel mondo e costituiscono ancora oggi, di fronte alle sfide globali che la società contemporanea si trova ad affrontare, un punto di riferimento fondamentale”.

Una rappresentanza di studenti ucraini iscritti all’Ateneo pisano ha partecipato a un incontro convocato dal rettore Paolo Mancarella e dal prorettore alla cooperazione e relazioni internazionali Francesco Marcelloni la mattina di venerdì 4 marzo nell’Aula Magna Storica del Palazzo della Sapienza. Scopo dell’iniziativa era prima di tutto testimoniare la vicinanza di tutto l’Ateneo agli studenti e alle loro famiglie e quindi ascoltare le storie dei ragazzi e delle ragazze, conoscere la loro attuale situazione e i problemi che stanno attraversando loro e le loro famiglie, al fine di poter indirizzare nel modo più proficuo le azioni e le strategie di supporto che l’Ateneo sta già programmando e mettendo in atto. A testimonianza della vicinanza di tutta l’intera comunità accademica pisana con gli studenti ucraini, all’incontro ha partecipato anche Luigi Ambrosio, direttore della Scuola Normale Superiore, e ha mandato i suoi saluti anche la rettrice della Scuola Superiore Sant’Anna, Sabina Nuti.

In totale sono 71 gli studenti ucraini iscritti all’Università di Pisa e sono 18 quelli che hanno risposto all’invito diffuso dall’Unità Cooperazione Internazionale presentandosi all’incontro con il rettore e il prorettore. Parte di loro proviene da famiglie che ormai vivono da tempo in Italia, altri hanno i loro cari in Ucraina pur risiedendo qua da molti anni, altri ancora sono venuti a Pisa con programmi di mobilità come l’Erasmus.

All’inizio dell’incontro, sono state illustrate le iniziative messe in campo in questi giorni in collaborazione con la Regione Toscana e con l’ARDSU, prima tra tutte l’accoglienza nelle sedi universitarie regionali di studenti in fuga dall’Ucraina: in questa prima fase a Pisa sono previsti 45 posti, 25 a Firenze e 50 a Siena (maggiori informazioni sono disponibili a questo link). L’Ateneo sta parallelamente lavorando per capire come accoglierli all’interno dei corsi di laurea, cercando soluzioni rapide che agevolino l’inserimento nei corsi di studio.

A seguire, i ragazzi e le ragazze presenti all’incontro hanno esposto le loro problematiche e richieste, per cui il rettore si è reso subito disponibile a trovare soluzioni pratiche: per fare qualche esempio, è emersa l’esigenza di avere registrazioni delle lezioni che, in questo periodo di grande tensione, non riescono a seguire con continuità; è stato richiesto il posticipo di scadenze per la presentazione di domande di borse di studio o per il pagamento tasse; è stata espressa la necessità di avere un supporto psicologico in questo particolare momento. All’incontro è stato inoltre deciso di costruire una rete tra gli studenti ucraini, in modo che possano rimanere in contatto tra loro e comunicare con l’Ateneo in modo diretto. Non sono mancate le testimonianze dirette della guerra, alcuni tra loro hanno raccontato che i familiari stanno cercando di fuggire dall’Ucraina per arrivare in Italia e l’Università di Pisa si è resa disponibile a fornire contatti con istituzioni e associazioni che possano aiutarli concretamente.

“In un momento così drammatico la nostra comunità non poteva far mancare il suo sostegno ai tanti studenti ucraini che ne fanno parte – ha commentato il rettore, Paolo Mancarella – L’incontro di oggi è servito a capire quali siano i loro bisogni, così da poterli aiutare in modo concreto. Proprio in queste ore, infatti, stiamo definendo gli aspetti operativi del nostro intervento assieme alla Regione Toscana e all'Azienda regionale per il diritto allo studio universitario, come stiamo anche collaborando con Comune, Prefettura e volontariato pisano nella gestione dell'emergenza. È il nostro contributo alla difesa di quei valori di pace, solidarietà e fratellanza in cui la nostra comunità crede profondamente”.

”Ascoltare le testimonianze di queste ragazze e questi ragazzi, percepire le loro paure per le loro famiglie e per il loro futuro ci ha colpito veramente molto, ricordandoci ancora una volta quanta sofferenza possa portare una guerra – aggiunge Francesco Marcelloni –  Con questo incontro, l’Università di Pisa che li ha accolti per i loro studi e a cui queste studentesse e questi studenti hanno affidato le loro speranze per il loro futuro, ha voluto confermare la sua presenza e ribadire i suoi valori di accoglienza, inclusione, pace e democrazia”.

Proprio in nome di questi valori l’Università di Pisa ha inviato un messaggio a tutti i suoi studenti russi (circa 140), che sono anche loro stati colpiti dalla guerra e dalle sanzioni economiche, per dimostrare anche a loro la propria vicinanza in questa difficile congiuntura che li vede coinvolti nel conflitto.

rodolfo bernardiLunedì mattina, in seguito a una grave malattia, ci ha prematuramente lasciati Rodolfo Bernardi, docente di Biotecnologie Genetiche del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Nato a Barga, si è laureato in Scienze Biologiche a Pisa, nel 1984, con il Prof. Mauro Durante. Dopo il dottorato di ricerca in Biologia Agraria ed alcuni anni in Inghilterra, presso l’Università di Durham, nel 1997 è diventato ricercatore a tempo indeterminato in Genetica Agraria. Qualche anno fa ha conseguito l’abilitazione scientifica per professore associato e proprio all’inizio di gennaio di quest’anno, già colpito dalla malattia, era diventato professore associato.

Nella sua attività scientifica è stato responsabile di unità operative in progetti PRIN ed ha partecipato a vari gruppi di ricerca internazionali in Inghilterra e in Repubblica Ceca. Ha svolto ricerche in genetica molecolare dei vegetali, studiando prima le proteine di riserva del seme in diverse specie, poi l’espressione di geni coinvolti in diversi processi metabolici e nella risposta delle piante a stress biotici ed abiotici, presentando i risultati in convegni scientifici nazionali ed internazionali. Come attività didattica, sin dalla nomina a ricercatore, ha tenuto numerosi corsi, sempre nell’ambito delle biotecnologie vegetali.

Rodolfo ha anche svolto un’intensa attività istituzionale, in numerose commissioni di Dipartimento e Corso di Studio, fra cui la Commissione scientifica dell'area 07. Dal 2017 era Vice-presidente del Consiglio aggregato dei Corsi di laurea Magistrali in Biotecnologie Vegetali e Microbiche e Biosicurezza e Qualità degli Alimenti, nella cui veste aveva promosso l'istituzione di una laurea magistrale con doppio titolo insieme alla Czech University of Life Science di Praga in Biosicurezza e Qualità degli Alimenti/Sustainable Agriculture and Food Security.

Conoscevo Rodolfo Bernardi da quando era ancora studente e frequentava i laboratori di Genetica Agraria per preparare la tesi di laurea. Descrivere il suo curriculum e le sue attività di ricerca non basta a rendere giustizia alle sue qualità di ricercatore e di uomo. Come sanno bene le decine di studenti che ha seguito nelle loro attività, Rodolfo era sempre disponibile verso chi aveva bisogno e si impegnava senza riserve per consentire agli studenti di dare il meglio di sé, con fermezza e determinazione e allo stesso tempo con complicità, come quando organizzava per studenti e colleghi cene di classe nella sua Barga, dove da giovanissimo aveva anche organizzato riunioni scientifiche di livello nazionale. Ha sempre mostrato un notevole spirito di servizio nei confronti del Dipartimento, senza prendere posizioni a scopo puramente personale ma tenendo sempre presente l’interesse dell’istituzione, a cui sentiva di appartenere. Anche con i colleghi è sempre stato disponibile, impegnandosi anche in attività pratiche che sapeva essere necessarie e per le quali non si tirava mai indietro. Negli ultimi anni, da vice-presidente di corso di laurea magistrale, aveva dimostrato ulteriormente le sue capacità organizzative, impegnandosi a risolvere le numerose problematiche che normalmente si presentano nella gestione di un corso, sempre tenendo presente gli interessi degli studenti.

A noi che lo abbiamo conosciuto, resterà sempre in mente l’uomo. Le chiacchierate durante i convegni scientifici, i racconti delle sue capacità culinarie, la disponibilità, le ansie che ci comunicava, era un vero personaggio, ci mancherà moltissimo. Ciao, Rodolfo.

Andrea Cavallini
docente di Genetica Agraria   
(a nome del settore della Genetica Agraria e del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali)

Quando è che i cetacei hanno cominciato a nutrirsi di altri mammiferi marini? Probabilmente in tempi molto recenti, almeno così sembra dal ritrovamento in Grecia di uno straordinario delfino fossile, simile e imparentato con l’attuale pseudorca (Pseudorca crassidens). Questo fossile è stato, infatti, ritrovato insieme al suo ultimo pasto, rappresentato da resti di pesci. La conferma arriva anche dallo studio di un reperto scoperto in Toscana oltre un secolo fa, parente stretto dell’attuale orca (Orcinus orca).

La pseudorca e l’orca sono gli unici cetacei attuali che si nutrono di altri mammiferi marini. Le pseudorche catturano spesso altri delfini, mentre le orche predano non solo foche e piccoli cetacei ma anche balenottere lunghe più di 10 metri.

Entrambi questi cetacei si nutrono di grosse prede che cacciano in branchi, sferrando potenti morsi per lacerare la carne delle loro vittime in maniera analoga agli squali.

Fino ad oggi, però, mancavano delle prove fossili che illustrassero l'origine di questo comportamento alimentare, sebbene le analisi genetiche indichino che esso si sia evoluto indipendentemente nelle due linee evolutive distinte dell'orca e della pseudorca.

Un nuovo studio condotto dai paleontologi dell’Università di Pisa e del New York Institute of Technology permette ora di riscrivere la storia evolutiva di questi grandi predatori dei mari e i risultati ottenuti sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Current Biology.

Le ricerche sono state svolte su due fronti separati da oltre un secolo di storia: un nuovo straordinario reperto fossile da poco rinvenuto a Rodi (Grecia) e l’unico antenato della moderna orca, scoperto a Cetona (Toscana) nella seconda metà dell’800.

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Cranio e mandibola di Rododelphis stamatiadisi il delfino pleistocenico di Rodi (Grecia) (foto G. Bianucci)

Il fossile di Rodi consiste di uno scheletro scoperto nel 2020 da Polychronis Stamatiadis, esperto di geologia e di paleontologia, nelle rocce argillose che affiorano nella baia di Pefkos sulla costa sudorientale dell’isola. Queste rocce derivano da sedimenti che si deposero sul fondale marino tra 1,5 e 1,3 milioni di anni fa. Il fossile rappresenta uno dei più completi scheletri di cetacei del Pleistocene mai rinvenuti fino ad ora.

“Appena ho ricevuto da Polychronis le foto di questo reperto - racconta Giovanni Bianucci, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e primo autore della pubblicazione – mi sono subito reso conto dell’importanza di questa scoperta, confermata poi dalla mia visita a Rodi dove, grazie all'ospitalità di Polychronis, ho avuto modo di studiare in dettaglio il reperto. Durante lo studio ho potuto constatare che si trattava di un delfino nuovo alla scienza, un cetaceo affine alla pseudorca ma con alcuni caratteri del globicefalo, che abbiamo chiamato Rododelphis stamatiadisi dedicandolo all’isola greca dove è stato ritrovato ed al suo scopritore.”

Ma il prof. Bianucci e i suoi colleghi volevano capire anche di cosa e come si nutrisse questo nuovo delfino: era un feroce predatore che catturava anche altri cetacei come fanno oggi l’orca e la pseudorca o si alimentava in maniera più tranquilla in acque profonde aspirando per suzione polpi e calamari come il globicefalo? Lo studio del cranio e dei denti chiariscono solo in parte questi dubbi sulle abitudini alimentari di Rododelphis. Se è vero, infatti, che il delfino di Rodi presenta alcune affinità macropredatorie con pseudorca, quali la presenza di 11 denti robusti impiantati sulla mandibola e l’ampia fossa temporale (l’area del cranio dove si inserisce la muscolatura boccale); d’altra parte la forma arrotondata della mandibola, la posizione arretrata dell’ultimo dente mascellare e l’usura limitata dei denti sono caratteri che si riscontrano nel globicefalo e in altri cetacei che praticano la suzione.

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Il professore Bianucci drante lo studio dello scheletro fossile di Rododelphis stamatiadisi nel Museo di Mineralogia e di Paleontologia Stamatiadis (Rodi, Grecia) (foto C. Sorbini)

“La soluzione di questo rompicapo – afferma Alberto Collareta, anche lui paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che ha preso parte allo studio - viene dall’eccezionale ritrovamento dei resti fossili dell’ultimo pasto del delfino di Rodi, rinvenuti intorno allo scheletro al momento dello scavo e della sua preparazione. Si tratta di otoliti, concrezioni di carbonato di calcio che si trovano nell’orecchio interno dei vertebrati. Gli otoliti sono spesso l’unica parte che si conserva allo stato fossile nei pesci. Quelli trovati associati a Rododelphis appartengono a Micromesistius poutassou, comunemente noto con il nome di melù, un pesce che vive tutt’oggi anche nel Mediterraneo tra 300 e 400 metri di profondità circa. Grazie all’esame di questi otoliti è stato anche possibile stimare intorno ai 30 cm la lunghezza dei pesci catturati dal delfino.”

Che informazioni ricaviamo dal ritrovamento di questi otoliti? Che Rododelphis si cibava di pesci di media taglia e quindi che, forse, non era in grado di catturare altri delfini, come invece fa la pseudorca; ma anche che, diversamente dal globicefalo, non si nutriva di piccoli cefalopodi.

Mentre Polychronis scopriva lo scheletro di Rododelphis, Sara Citron aveva appena terminato la sua tesi di laurea magistrale in Conservazione ed Evoluzione all’Università di Pisa sull’Orcinus citoniensis, l’orca fossile scoperta a Cetona (Siena) in sabbie marine plioceniche di 3-4 milioni di anni fa. Questo eccezionale scheletro fu descritto per la prima volta nel 1883 dal grande naturalista Giovanni Capellini che ha dato il nome al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Bologna, dove il fossile è tutt’ora conservato ed esposto.

“Con il mio lavoro di tesi - racconta Sara – ho avuto l’occasione di studiare in dettaglio questo fossile e di ricavare indizi importanti sulla dieta di questo antenato del più grande predatore attivo tra tutti i cetacei attuali. L’orca di Cetona sembra una versione ridotta della specie attuale Orcinus orca: la forma del suo scheletro è molto simile alla specie moderna, ma la lunghezza del corpo non doveva superare di molto i tre metri, circa la metà dell‘orca attuale. Con una taglia così piccola è quindi improbabile che Orcinus citoniensis fosse in grado di catturare grosse prede come fa invece la specie attuale. Il cranio presenta un rostro più lungo e più stretto e una fossa temporale più piccola rispetto a Orcinus orca, supportando ulteriormente l’ipotesi che anche l’orca di Cetona, come il delfino di Rodi, non fosse in grado di catturare prede grandi come delfini o balene.”

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Vertebre e costole e di Rododelphis stamatiadisi il delfino pleistocenico di Rodi (Grecia) (foto G. Bianucci)

Lo studio dell’usura e della microusura apicale dei denti di Orcinus citoniensis confermano le osservazioni fatte sulla forma del cranio e sulla taglia: queste abrasioni, causate dall’attività di predazione, sono compatibili con un’alimentazione a base di pesce, in analogia con quanto osservato in alcune popolazioni attuali di orche.

Lo studio condotto da Sara suggerisce, quindi, che anche Orcinus citoniensis si alimentasse di pesci di media taglia.

Rimaneva da capire quali fossero le relazioni di parentela tra queste due specie fossili e le attuali orca e pseudorca. Per risolvere questo mistero è stato necessario ricostruire la filogenesi (una sorta di albero genealogico) dei Delfinidi, la famiglia di cetacei di cui fanno parte il delfino di Rodi, la pseudorca, l’orca di Cetona e l’orca attuale.

Lo studio ha messo in evidenza speciali affinità di Rododelphis e Orcinus citoniensis rispettivamente con Pseudorca e Orcinus orca. In pratica, questa analisi ha confermato che il delfino di Rodi e l’orca di Cetona rappresentano due stadi evolutivi simili ma distinti che hanno poi portato all’orca ed alla pseudorca attuali. In questa fase la predazione avveniva preferenzialmente ai danni di pesci di taglia media, piuttosto che su foche, delfini, balene e altri tetrapodi come invece nelle due specie attuali. Riuscire a catturare pesci di media taglia può essere considerata una tappa evolutiva intermedia verso l’alimentazione di tetrapodi. Questo avvenne in tempi molto recenti, quando le balene erano già molto grandi. Non fu quindi la predazione delle orche, come invece ipotizzato in passato da qualcuno, ad accelerare la tendenza al gigantismo delle balene.

Rododelphis 1 copy
Ricostruzione artistica di Rododelphis realizzata dall'illustratrice scientifica Rossella Faleni

“Questo studio – conclude Giovanni Bianucci – fornisce un piccolo ma importante tassello per arrivare a comprendere appieno la messa in posto della fauna moderna a delfinidi e più in generale a cetacei, ancora in gran parte avvolta nel mistero a causa dell'estrema scarsità globale di fossili significativi di cetacei del Pleistocene. Il ritrovamento di Rododelphis incoraggia a continuare ad indagare aree come la Grecia e l'Italia meridionale dove sono abbondantemente esposti sedimenti marini pleistocenici, potenzialmente ricchi in cetacei fossili.”

Walter Ambrosini, docente di impianti nucleari al DICI, fa chiarezza sulle conseguenze del bombardamento della centrale nucleare di Zaporižžja, in Ucraina, ora caduta sotto il controllo russo: “non ci sono elementi di criticità, e anche i livelli di rRXxRitNk_400x400.jpgadioattività sono nella norma. preoccupiamoci del disastro della guerra”.

L’attacco alla centrale nucleare di Zaporižžja, in Ucraina, sta provocando diverse reazioni da parte dei media e della popolazione. Nonostante questo, al momento non ci sono preoccupazioni particolari rispetto alla sicurezza dell’impianto. Pubblichiamo alcuni chiarimenti sul tema di Walter Ambrosini, uno dei maggiori esperti nazionali sugli impianti nucleari, di recente intervistato sul tema da diverse testate locali e nazionali, e attivamente impegnato da anni in una divulgazione delle potenzialità delle tecnologie per il nucleare.

1. I bombardamenti nella la centrale nucleare di Zaporižžja, ora caduta sotto il controllo russo, hanno provocato un incendio in una parte dell’impianto. che conseguenza ha questo?
Credo che la migliore descrizione di ciò che è avvenuto alla centrale ucraina sia stata data, non insospettabilmente, da Rafael Mariano Grossi, DG della IAEA, nella conferenza stampa di venerdì 4 marzo: è ovvio che le centrali nucleari, come qualunque infrastruttura rilevante (ponti, strade, aeroporti), possono essere obiettivi in tempo di guerra, per vari motivi legati alle strategie di conquista, ma in questo caso ad essere colpito è stato un edificio di poca rilevanza per la sicurezza, collocato a centinaia di metri di distanza dai reattori.
La IAEA al sito Update 12 – IAEA Director General Statement on Situation in Ukraine | IAEA fa un resoconto dettagliato della situazione aggiornato a Sabato 5 Marzo. Immagino che nei prossimi giorni vi saranno ulteriori aggiornamenti. La situazione appare completamente sotto controllo con due unità su sei funzionanti. Una preoccupazione sembra essere la programmazione dei turni di lavoro in centrale in questa situazione di guerra. Sapremo di più nei prossimi giorni ma, al momento, non mi pare ci sia nulla da segnalare.

2. Come sono gli attuali livelli di radioattività?
Il resoconto al sito di cui sopra riporta testualmente “radiation levels remained normal at Ukraine’s largest nuclear power plant”. Nulla di anormale da segnalare.

3. È vero che i reattori sono dello stesso tipo di quello di Chernobyl?
Come si può verificare al sito del sistema PRIS della IAEA, PRIS – Country Details (iaea.org) IAEA, PRIS – Country Details (iaea.org), i reattori sono di tipo PWR, VVER in particolare, radicalmente diversi dagli RBMK di Chernobyl. La loro struttura è molto simile a quella dei reattori di tipo occidentale ad acqua leggera più diffusi nel mondo, per cui, per esempio, non è possibile alcun incendio della grafite (che non c’è). Peraltro, anche le conseguenze dell’incidente di Chernobyl, pur gravissimo ed evitabile, sono state amplificate rispetto alla realtà che ne è restata nell’immaginario collettivo.
Aggiungo che raggiungere parti vitali dell’impianto dall’esterno non è semplice, per la struttura e la robustezza degli impianti. Salvo nuove notizie, quindi, la vicenda sembra si sia conclusa con il reattore in condizioni di sicurezza. Dalla descrizione dei fatti, parrebbe non ci sia stato mai un vero pericolo, visto che l’attacco e l’incendio non hanno coinvolto i reattori.
Ovviamente, nulla può resistere a qualunque azione di persone con cattive intenzioni, per cui è necessario vigilare che a nessuno vengano in mente cose strane, e fa bene il DG della IAEA a volersi recare di persona a vedere cosa succede, se gli verrà permesso.

4. È vero che le misure di sicurezza sono obsolete perché i reattori sono di epoca sovietica? la centrale può esplodere?
Nessuna centrale al mondo può “esplodere” se si intende con questo un’esplosione nucleare. Le esplosioni viste a Fukushima, restate nell’immaginario collettive, sono state esplosioni chimiche dovute all’idrogeno formatosi durante la degradazione del nocciolo. I reattori nucleari hanno feedback che ne limitano le escursioni di potenza. A Chernobyl vi fu una escursione di potenza, ma il rilascio di energia, per quanto elevato, non si può paragonare a quello di esplosioni nucleari. Su questo è bene tranquillizzare chi non conosce la tecnologia nucleare.
L’unico pericolo legato ad incidenti che portino al danneggiamento del nocciolo è l’eventuale fuoriuscita di radioattività. A Fukushima, con reattori ad acqua leggera del tipo ad acqua bollente, sebbene siano state coinvolte ben tre unità di reattore, i rilasci sono stati un ordine di grandezza inferiori a quelli di Chernobyl e l’impatto radiologico dell’incidente di Fukushima è considerato molto basso se non irrisorio (si veda il sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Radiation: Health consequences of the Fukushima nuclear accident (who.int) ). I reattori VVER sono stati oggetto di attente verifiche nell’ambito di progetti internazionali; non mi sentirei di dire che si possano additare criticità specifiche, nonostante la loro progettazione sia stata inizialmente fatta oltre la cortina di ferro. La Russia è un peraltro un attivo costruttore di impianti nucleari in vari paesi del mondo.

5. può quindi succedere uno scenario “stile Chernobyl”?
L’esagerazione che circola in rete e sui giornali circa lo scenario di un disastro planetario è certamente una proiezione veramente catastrofista. Nemmeno Chernobyl è stato un disastro planetario e non si vede perché l’eventuale coinvolgimento di più unità debba essere considerato un apocalittico aggravamento della situazione. Come dicevo, a Fukushima, con tre unità di reattore messe in crisi da un terremoto apocalittico e da uno tsunami eccezionale, i rilasci sono stati decisamente molto più limitati rispetto a quelli di Chernobyl (circa un decimo). La “narrazione” che circola e che, indebitamente, mi è stata attribuita da un giornale locale (al quale ho chiesto una smentita) è un’assoluta esagerazione che in tempo di guerra sembra fatta apposta per preoccupare più di quanto si debba. Le preoccupazioni della IAEA, che è l’ente che ha i dati più certi per esprimere giudizi al riguardo, mi sembrano su questo punto rivolte più ad assicurare una gestione continua e senza perturbazioni degli impianti che non a voler scongiurare ipotetici scenari incidentali. La guerra non è un buon ambiente per nessuna tecnologia, ma eviterei allarmismi quanto facili sottovalutazioni della situazione.

6. c’è la possibilità quindi di una contaminazione radioattiva che possa raggiungere l’Italia?
I materiali radioattivi possono essere riconosciuti a grande distanza per la loro “firma” in termini di particelle prodotte anche nel caso in cui arrivino in tracce di nessun conto dal punto di vista dell’impatto sulla salute. Questo contraddistingue gli incidenti nucleari con rilascio di materiale radioattivo da ogni altro incidente: nessuno riconoscerà un atomo di cloro non radioattivo sversato dall’altra parte del mondo, perché esso è simile a tutti gli altri già presenti in qualunque luogo. Ma non si deve dare l’impressione che la gravità dei rilasci di materiali radioattivi sia necessariamente maggiore rispetto a sversamenti di altri materiali nocivi che avvengono anche quotidianamente. Secondo la Commissione Europea (si veda ad esempio la Comunicazione “A Clean Planet for All” del novembre 2018) ogni anno muore circa mezzo milione di persone nell’Unione Europea per cattiva qualità dell’aria dovuta a vari fattori, tra cui l’uso di combustibili fossili in campo energetico. A fronte di un dato di questo genere anche le valutazioni più pessimistiche sulle conseguenze di Chernobyl, localizzate principalmente nell’ex-Unione Sovietica e minime al di fuori di essa, impallidiscono. Ciò che può raggiungere l’Italia in caso di un incidente, quindi, rappresenta una frazione che ci si attende irrisoria di quanto potrebbe venire rilasciato in un incidente ad un impianto nucleare in Ucraina, come già visto con Chernobyl.
In ogni caso non si può parlare di possibile disastro planetario, perché i problemi del pianeta sono ben altri da quelli che può creare la radioattività di un impianto nucleare, tra cui il riscaldamento globale, secondo quanto sottolinea quotidianamente l’IPCC. Insomma, non facciamo del nucleare uno spauracchio perché abbiamo ben altri problemi.- Indubbiamente, il vaso di Pandora dell’energia nucleare per scopi militari e pacifici è stato aperto: sta a noi indirizzare l’utilizzo di questa forma di energia a fin di bene (ad esempio per la decarbonizzazione del settore energetico).

fisica particelleOltre 150 studentesse e studenti quest'anno partecipano alle Masterclass internazionali di fisica delle particelle in Toscana, coordinate a livello nazionale dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e organizzate a Firenze e a Pisa dalle sezioni INFN in collaborazione con l’Università di Pisa e l'Università degli Studi di Firenze.

Saranno accompagnati da ricercatori e ricercatrici in un viaggio alla scoperta delle proprietà delle particelle e delle loro applicazioni, ed esploreranno direttamente i segreti dell'acceleratore LHC (Large Hadron Collider) del CERN, analizzando i dati reali degli esperimenti.

Martedì 8 marzo, si parte con la prima Masterclass organizzata dalla sede di Pisa, a cui seguiranno le date del 10 e 17 marzo. Mentre a Firenze si terranno due giornate di seminari teorici, il 7 e l’8 marzo, e la giornata di Masterclass sarà il 9 marzo. Quest’anno tutti gli appuntamenti toscani saranno interamente da remoto a causa della pandemia di Covid-19.

L’8 marzo, a Pisa, si svolgerà la prima edizione pisana di Masterclass in Particle Therapy per far scoprire agli studenti e alle studentesse le applicazioni in medicina della fisica delle particelle. Oltre ai seminari e alle esercitazioni, gli studenti parteciperanno a un video-collegamento con il CNAO - Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica per una lezione sull’adroterapia e, nel pomeriggio, si collegheranno con il GSI di Darmstadt insieme agli altri partecipanti alla Masterclass in Particle Therapy dal Marocco e dal Messico. 

Le altre giornate di Masterclass, dedicate al CERN, prevedono attività divise tra seminari introduttivi ed esercitazioni al computer su uno degli esperimenti dell’acceleratore LHC di Ginevra, all’interno del tunnel di 27 km, a 100 metri sottoterra, dove le particelle si scontrano quasi alla velocità della luce. Le studentesse e gli studenti potranno scoprire il mondo delle particelle e tutte le loro caratteristiche, analizzando in prima persona i dati di LHC provenienti dagli esperimenti ATLAS e CMS.

Alla fine di ogni giornata, proprio come in una vera collaborazione di ricerca internazionale, ci sarà un video-collegamento con il CERN e i giovani partecipanti alle Masterclass di tutto il mondo per discutere insieme i risultati emersi dalle esercitazioni.

L’iniziativa, giunta alla 18° edizione, fa parte delle Masterclass internazionali organizzate da IPPOG (International Particle Physics Outreach Group) e, in Italia, dall'INFN. Le Masterclass si svolgono contemporaneamente in 60 diversi paesi, coinvolgono oltre 200 tra i più prestigiosi enti di ricerca e università del mondo e più di 13.000 studenti delle scuole secondarie di II grado. Per l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare quest'anno sono presenti le sezioni di Bari, Bologna, Cagliari, Cosenza, Ferrara, Firenze, Genova, Lecce, Milano Bicocca, Milano, Napoli, Padova, Parma, Pavia, Perugia, Pisa, Sapienza Università di Roma, Roma Tor Vergata, Roma Tre, Salerno, Torino, Trieste, Trento e Udine, e i Laboratori Nazionali di Frascati (LNF).

Contatti locali:

PISA (8 marzo Particle Therapy, 10 marzo ATLAS, 17 marzo CMS)

Masterclass in Presenza/Online 

Dove: INFN Sezione di Pisa Largo B. Pontecorvo 3, Aula 131 edificio C. 

Pagina web per Masterclass in Particle Therapy: https://indico.cern.ch/event/1122799/

Contatti: dott. Lorenzo Bianchini (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ) tel. 050 2214244; dott. John Walsh (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) tel. 347 1168 132; dott.ssa Monica Verducci (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ) tel. 328 1830 062; dott. Antonio Paladino (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) tel. 328 652 2297, dott.ssa Aafke Kraan (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ) tel. 050 2214879.

Sabato, 05 Marzo 2022 10:44

Filologia, Letteratura e Linguistica

Dalla terra per la Terra: Percorsi di descrizione e traduzione intorno a linguaggi per usi speciali

Referente: Valeria Tocco

Percorso multilingue sui linguaggi di energia rinnovabile, risorse green, enogastronomia e turismo, con laboratori di francese, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, romeno, russo, per migliorare la competenza in italiano e nelle lingue straniere in relazione all'uso scritto e orale di terminologia, fraseologia e metafore legate all’ambito dell’ambiente, della sostenibilità e dell’enogastronomia. A conclusione, sarà elaborato un Glossario plurilingue con il lessico affrontato durante il corso.

 

Bloggers e Redattori Inerba

Referente: Daniela Pierucci

Il ciclo di seminari Bloggers e Redattori Inerba si propone l'acquisizione di competenze base nell'ambito dell'editoria digitale (creazione di e-book in formato e-pub e pdf interattivi e stampabili), nell'uso di wordpress e di Uxdesign, da spendere nel mondo del lavoro ma anche nei tirocinii presso la nostra rivista Inerba e per la gestione del suo blog.

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