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Tra natura e storia
La salute e le differenze di genere

Le differenze di genere come prodotto di fattori biologici, ma soprattutto sociali. L’interazione tra i geni, gli ormoni e l’esperienza come base per spiegare le diversità tra donne e uomini. Il ruolo della dimensione di genere nel campo della medicina e della salute. Sono questi i temi approfonditi nel convegno“Da Esculapio a Igea. Un approccio di genere alla salute”, che si è svolto per iniziativa del Comitato Pari Opportunità dell’Ateneo lo scorso 20 gennaio in Sapienza. Athenet pubblica la relazione introduttiva tenuta dal presidente del Comitato, Rita Biancheri.

foto convegno

 

Nelle scorse settimane si è svolta a Roma una serie di incontri, a cui hanno partecipato i più grandi scienziati, dal significativo titolo “Sconfinata mente”, che ha posto all’attenzione l’ampio dibattito sui temi che riguardano il nostro convegno e che attengono alle differenti posizioni che vanno dal determinismo biologico - che possiamo sinteticamente legare al nome di Dawkins, che nel suo libro Il gene egoista afferma che noi siamo macchine per la sopravvivenza, ciechi robot programmati al solo scopo di trasmettere le egoiste molecole note come geni - alle posizioni di chi distingue cervello, mente e persona sostenendo che nessuno può far derivare le azioni e il comportamento da una specifica e determinata natura umana. Il noto aforisma di Crick, “non sei altro che un ammasso di neuroni”, ci permette di spiegare come avvengono i cambiamenti nel sistema sociale? O per parafrasare il famoso genetista Gary Marcus, “come può un piccolo numero di geni creare la complessità del pensiero umano?”.

Rose sostiene che questo tipo di analisi sono soltanto descrittive e non esplicative. Cioè rilevano gli eventi cerebrali implicati, ma per una spiegazione si deve ricorrere alla psicologia, all’etologia e alla sociologia. Noi, infatti, siamo liberi di agire e di condizionare il nostro destino, anche se su esso agiscono situazioni non di nostra scelta - sostiene il noto scienziato - e quindi in base a questa interpretazione valutare anche le determinanti sociali diventa un approccio da non trascurare.

Su tali assunti teorici si inserisce un’ulteriore domanda fondamentale che pone il problema dell’incidenza dei fattori culturali e naturali nel determinare le differenze tra uomo e donna. Ritenere che esse siano principalmente conseguenze di una costruzione sociale e ambientale, invece di affidare un ruolo preminente al patrimonio genetico, comporta delle conseguenze analitiche che si riflettono su tutte le discipline, ma che hanno anche ampie ripercussioni nella sfera politica e familiare a partire dalla distinzione aristotelica tra polis e focolare domestico e dall’esclusione, fatta da Rousseau, delle donne dal contratto tra uguali per la loro funzione biologica; per cui all’ambito privato non si applicano i principi ritenuti validi per la sfera pubblica e per la democrazia in generale.

Per lungo tempo le caratteristiche biologiche, e quindi il sesso, hanno rappresentato il destino sociale delle donne perché considerate come immutabili, ma un approccio di genere ha dimostrato l’influenza della cultura anche sulle stesse modificazioni genetiche oltre a sottolineare che anche la definizione di ciò che appartiene all’ambito naturale deve essere “rivista” alla luce dell’esperienza femminile. Ad esempio, dare alla luce un bambino è qualcosa di esclusivamente naturale o è un progetto umano; l’organizzazione di una colonia di formiche come si colloca rispetto al governo di una nazione? Questa distinzione, inoltre, comporta un ordine gerarchico? La risposta è scontata, in quanto molte affermazioni relative al riconoscimento delle differenze, in un contesto di “dominio maschile” - per parafrasare Bourdieu - nelle diverse discipline sono state lette anche come inferiorità nelle capacità mentali e nel loro funzionamento. Non sono molto lontani i tempi in cui era opinione diffusa che le donne mancassero della regione cerebrale in cui si diceva fosse situato l’intelletto e che l’esercizio del cervello femminile avrebbe danneggiato l’utero. Ma molti altri stereotipi e pregiudizi, anche recenti, possono essere citati (fra cui le presunte difficoltà che incontrano le donne nelle materie “scientifiche”) dove a sostegno si porta la presunta “oggettività” dei risultati provenienti dai test di intelligenza, che invece dipendono in larga misura dal modo in cui sono stati strutturati questi strumenti, come del resto non sono mai imparziali gli assunti teorici e le interpretazioni dei risultati della ricerca.
Infatti, frutto del pensiero dualista, che contrapponeva umano/naturale, pubblico/ privato e uomo/donna è stata la divisione dei ruoli nella dimensione quotidiana, ma nello stesso tempo, in quella scientifica, si riconosceva come categoria neutra, e quindi generale, quella maschile sul cui “punto di vista” è stata costruita la storia del pensiero di cui il linguaggio è la sua espressione più evidente. Il concetto di uomo razionale si è contrapposto alla femminilità/sentimento, la distinzione tra forma e materia è quella esistente tra maschile, ciò che è umano, e femminile, ciò che è naturale; tra pubblico, ambito in cui si crea la storia umana e lo sviluppo, e privato, luogo della riproduzione biologica (Held 1997).

Anche gli ideali di libertà, giustizia e uguaglianza sono conseguenti a tali impostazioni, per cui la cittadinanza femminile resta debole, piena di paradossi e contraddizioni da cui derivano evidenti asimmetrie nella distribuzione dei carichi domestici, svantaggi nel mercato del lavoro e nelle carriere e scarsa rappresentanza nei luoghi decisionali e nella sfera politica. Non serve ricordare i dati statistici e i risultati di molte ricerche per supportare quanto l’evidenza empirica dimostra se la si legge con categorie appropriate che assumano il genere come fattore discriminante al pari dell’etnia e dell’appartenenza geografica o della classe per l’analisi marxista.

Quanto sostenuto brevemente non vuole non riconoscere le differenze esistenti, sia biologiche che culturali, ma al contrario valorizzarle in un contesto dove non entrino giudizi di valore per stabilire gerarchie e soprattutto all’interno di discipline in grado di rivedere i loro paradigmi e le conseguenze che alcune analisi hanno prodotto, anche in termini di potere, sia per le donne che per altre etnie diverse dall’uomo bianco occidentale (sessismo ed etnocentrismo sono le conseguenze più evidenti). Il determinismo genetico, secondo alcuni studiosi, non è un caso che sia ritornato in voga proprio negli anni Settanta, quando le femministe chiedevano di realizzare una maggiore parità di diritti nella società.

Molti studiosi ritengono che le differenze sessuali nelle strutture e nelle funzioni cerebrali debbano necessariamente implicare una causa genetica, con una scarsa influenza dei processi di apprendimento. Esiste, infatti, una consolidata tradizione in base alla quale si crede che le differenze tra donne e uomini siano perciò immutabili e tale convinzione è stata utilizzata per supportare l’inferiorità femminile anche nel contesto sociale. Le nuove tecnologie e lo sviluppo delle ricerche in questo settore hanno dimostrato che, affinché un risultato sia attendibile, bisogna prendere in considerazione i vari fattori interagenti - quali i geni, gli ormoni e l’esperienza - per comprendere le cause delle differenze tra i sessi.

Il favorire maggiormente le cause “interne” rispetto a quelle “esterne”, o viceversa, è dipeso dalla scarsa collaborazione interdisciplinare. Spesso le differenze sociali sono state considerate come una conseguenza “naturale” di quelle biologiche, mentre è possibile sostenere l’opposto, cioè che spesso si possono avere differenze biologiche come risultato dell’influenza esercitata dagli ambienti sociali (Rogers 2000). Finora si sono confrontati soggetti femminili e maschili, ma il risultato non può essere la spiegazione delle cause, ma solo la rilevazione delle differenze esistenti che derivano sia dal contesto sociale che biologico dove il contributo di uno e dell’altro è impossibile da identificare. Molte ricerche hanno evidenziato che si dovrebbe poter osservare la tendenza a cercare “cose” diverse da apprendere, anche se le opportunità loro offerte dall’ambiente educativo fossero esattamente le stesse e se entrambi fossero incoraggiati in modo uguale a dare le migliori prestazioni svolgendo gli stessi compiti. Ciò significherebbe che le differenze di sesso dovrebbero rimanere le stesse anche se agli individui di entrambi i sessi si fornissero esattamente le stesse opportunità di sviluppare abilità e interessi propri. Si hanno prove che, in realtà, tutto questo non accade proprio perché sono mutati gli atteggiamenti nel valutare quali carriere sono più appropriate per le ragazze e quali per i ragazzi.
“Sembra perciò improbabile che le differenze sessuali nelle prestazioni legate ad abilità spaziali, matematiche o verbali vengano ereditate e di conseguenza inserite immutabilmente nella biologia delle ragazze e dei ragazzi Al contrario, queste differenze sono il risultato del prevalere dei valori sociali tipici di un determinato periodo... Se alle femmine e ai maschi si danno pari opportunità per accedere a tutte le forme di educazione e se, al tempo stesso, si riducono le attese di vederli operare secondo atteggiamenti sessuali tipici, la maggioranza dei ragazzi non ricerca le situazioni di apprendimento che consentano loro di sviluppare abilità matematiche o spaziali superiori ...” (Rogers p. 49).
Sono le aspettative sociali che tendono a esaltare il divario tra il cervello femminile e quello maschile. La sola conoscenza della natura e delle differenze non ci dice nulla sulle cause di queste differenze.
Spesso l’atteggiamento scientifico è stato quello del “riduzionismo”, cioè spiegare la complessità del comportamento umano attraverso un solo elemento (atomi o molecole del cervello). Come abbiamo visto, per quanto riguarda la depressione nelle donne si dice che è provocata da uno squilibrio ormonale se si verifica appena prima delle mestruazioni, dopo il parto o nella menopausa. Fattori psicosociali che potrebbero essere altrettanto importanti non sono tenuti in conto, se la complessità di un fenomeno come la depressione viene ridotta all’azione di particolari molecole all’interno del cervello. I farmaci agiscono secondo processi che non hanno nulla a che fare con le effettive cause della depressione.

Mentre alcuni scienziati sempre di più riconoscono la dinamicità e flessibilità della biologia una branca della sociologia, la sociobiologia, ad esempio, fa risalire le diverse abilità e caratteristiche ai ruoli ben definiti svolti dai nostri antenati. L’aggressività è determinata dal fatto che i maschi facevano la guerra e lottavano l’uno contro l’altro, mentre le femmine si occupavano delle abitazioni curando i bambini e stabilendo scambi verbali. Su questa base si determina anche ciò che è naturale e ciò che non lo è. Come rileva Rogers: “la nozione stessa del legame causale tra geni e differenze sessuali ha più a che fare con gli atteggiamenti sociali che con le prove scientifiche” (p.66). Dobbiamo pertanto ritenere che i tre fattori - geni, ormoni ed esperienza - sono fra loro correlati; se ci si concentra solamente su un fattore non si tiene conto delle complesse interazioni e si ricade nel dominio delle ideologie in quanto le ipotesi sono modellate in base ad una certa idea della società. “L’esperienza può alterare la biologia del cervello in termini di struttura e funzionalità cellulare, proprio come l’effettiva secrezione di ormoni, mentre fattori biologici possono influire sul modo in cui le esperienze vengono recepite ed elaborate. In ogni stadio dell’ontogenesi si hanno interazioni complesse tra fattori specifici o modificabili in termini di sviluppo” (Rogers, p.161). Lo sviluppo del comportamento è complesso perché molti fattori interagiscono e ad ogni stadio di questo processo sono coinvolti sistemi dinamici in continuo cambiamento. Un qualsiasi studio dello sviluppo delle differenze sessuali avrà una maggiore validità se si terrà conto di tutti i principali fattori in grado di contribuire allo sviluppo delle differenze stesse. Secondo alcuni studiosi, le interazioni fra fattori biologici e ambientali sono da considerare in termini di “effetto moltiplicatore”. Infatti differenze genetiche e ormonali determinano una diversificazione sessuale dei genitali e del cervello nella vita intrauterina, portando però a una diversità relativamente limitata per quanto riguarda il comportamento immediatamente dopo la nascita. In seguito le differenze di comportamento sono incrementate dalle successive interazioni tra individuo, ambiente e cultura.

Anche l’approccio alla salute, considerata semplicemente come assenza di malattia dall’approccio biomedico, diventa un concetto complesso e multidimensionale nel più attuale modello bio-psico-sociale. Di conseguenza, assieme agli elementi genetici, si deve considerare la complessa interazione di più fattori ascrivibili alla posizione socio-economica, al grado di istruzione, al livello professionale e all’appartenenza di genere. Ne consegue che la dimensione sociale deve entrare a pieno titolo nella riflessione sui modelli interpretativi della ricerca e della cura delle malattie ma anche, più in generale, nella definizione del concetto di benessere. Per quanto attiene all’appartenenza di genere, secondo alcuni studi la disparità della “doppia presenza”, famiglia e mercato del lavoro, la diseguaglianza nella distribuzione delle risorse materiali nel sistema produttivo e riproduttivo, le asimmetrie nell’accesso alle politiche di welfare e ai diritti di cittadinanza, determinano condizioni che mettono a rischio la qualità della vita delle donne. Tematizzare queste differenze, anche nelle conseguenze sulla salute, è importante non solo per un migliore approccio medico, ma anche per fornire elementi di conoscenza per la programmazione delle politiche sanitarie e sociali sia in termini di cura che di prevenzione. Per cui, se alcune patologie hanno un’incidenza in termini di appartenenza biologica e quindi sessuale, altre derivano dagli stili di vita, cioè dal genere che è appunto la costruzione sociale dell’identità maschile e femminile.
Per esempio, le statistiche evidenziano che anche se le donne hanno un’età media superiore a quella maschile e i comportamenti più a rischio sono quelli maschili, sono però più vulnerabili rispetto a patologie di tipo cronico o invalidante. Le donne inoltre sono più propense alla prevenzione, alla consultazione dei medici, subiscono più operazioni e accertamenti diagnostici, sono maggiormente ospedalizzate ed è più probabile che assumano farmaci anche non prescritti. È anche accertata la maggiore incidenza di malattie a carattere depressivo, così come è sicuramente più elevato il tasso di patologie nervose e di disturbi mentali. Uno dei fattori che più inciderebbe, su queste differenze, è proprio quello del ruolo di cura svolto dalle donne all’interno della famiglia, delle difficoltà di redistribuire il carico domestico e dell’isolamento che spesso ne deriva; inoltre le donne mostrano maggior sensibilità verso gli eventi familiari e quindi risultano più esposte alla violenza non solo sessuale ma anche psicologica.

Questo evidenzia come la costruzione sociale dei ruoli eserciti una consistente incidenza sullo stato di salute e sul significato che la malattia assume per i singoli individui. Finora le indagini empiriche degli epidemiologi hanno esaminato soltanto gli aspetti superficiali dei fenomeni, non considerando il ruolo eziologico della struttura sociale. Ne consegue che l’interesse per la dimensione di genere, come indicatore per la salute, non può riguardare solo l’aspetto legato alla riproduzione e mentre prima molta attenzione era riservata al tipo di occupazione, oggi diventa meno rilevante rispetto all’incidenza degli altri elementi descritti. L’entrata e la permanenza in una condizione di malattia sono dunque eventi fortemente correlati all’appartenenza di genere, per cui è necessario assumere la diversità delle problematiche (in quanto diversi contesti culturali, sociali ed economici sviluppano determinate sindromi); monitorare attraverso statistiche di genere le malattie; promuovere strategie e programmi di ricerca con l’inserimento della dimensione di genere nei modelli interpretativi della ricerca iniziando dalla fase di progettazione. Si apre così la possibilità di considerare la cura in una “rete di prospettive” per favorire un dialogo fecondo, attraverso nuovi strumenti di analisi, tra le diverse discipline e rispondere alle più complesse esigenze di benessere.

Rita Biancheri
presidente del Comitato Pari Opportunità biancheri@dss.unipi.it