Un palazzo e i suoi ministeri
Pubblicato un volume sul Palazzo alla Giornata
Il Palazzo alla Giornata, la sede del Rettorato, è un magnifico edificio del Lungarno, finito di costruire ai primi del ‘600. Il suo nome deriva da un’enigmatica iscrizione sull’architrave del portone d’ingresso. Sul suo significato, sulla storia del palazzo e del suo proprietario si favoleggia da almeno quattro secoli. Un gruppo di ricercatori, coordinati da Lucia Tomasi Tongiorgi, ha cercato di sollevare il velo sui molti misteri che il palazzo custodisce. I risultati di questa ricerca, che spazia dalla storia politica e sociale, alla storia dell’arte, dal medioevo alla contemporaneità, sono stati pubblicati nel volume Il Palazzo alla Giornata. Storie e memorie della sede del Rettorato dell’Università di Pisa, edito da Plus.
Insegna di Palazzo alla Giornata
Invitato a presentare questo bel volume sul Palazzo alla Giornata - libro di Storia e memorie della sede del Rettorato dell’Università di Pisa, come recita il sottotitolo - desidero in primo luogo ringraziare coloro che hanno contribuito a realizzarlo: chi ha avuto e promosso l’idea di farne la strenna d’Ateneo di quest’anno, e dunque il rettore Marco Pasquali e il prorettore vicario Lucia Tomasi Tongiorgi (che lo ha anche direttamente curato), gli autori che lo hanno costruito, la casa editrice Plus, i vari studiosi ed esperti consultati, il molto partecipe fotografo, Bruno Sereni, che lo ha illustrato - da appassionato dilettante, così si definisce, ma certo con ottimi risultati.
Non sono ringraziamenti di convenienza. Per via della instabile Torre della Piazza del Duomo, Pisa può vantarsi di stare ben salda tra le immagini universali del nostro mondo ridotto - come usa ormai dire - a villaggio globale. Sono poi quelli che a Pisa lavorano e vivono, ma anche coloro che vengono e passano almeno una volta con attenzione per le sue strade, a sentire e scoprire che la identità della città storica e d’arte è ben più ampia e complessa, diffusa in tutto il tessuto urbano antico. Senonché - per chi vi abita come per i visitatori meno superficiali - quell’identità risulta spesso alla fine dei conti pur sempre tutta riunita in una rappresentazione relativamente semplice, sinteticamente collocata tra la solenne monumentalità del complesso del Duomo, la teatralità delle quinte di piazza dei Cavalieri e il fascino dello sguardo portato sui Lungarni.
A molti capita poi di percepire (sono in diversi a dichiararlo in queste pagine) che - sui Lungarni e dai Lungarni - il Palazzo alla Giornata si affaccia e protende con il muto ed eloquentissimo orgoglio di chi aspira ad imporsi quale punto focale di ogni sguardo prospettico lanciato sulla città. Questo libro serve a comprendere quanto quella prepotente ambizione non debba riposare solo su sensazioni meramente estetiche, ma possa anche essere nutrita e legittimata da una posizione tutta particolare, di vero e proprio luogo della memoria urbana.
Altri palazzi pisani e non solo dei Lungarni hanno avuto negli ultimi decenni l’onore di un libro destinato a illustrarli e a rivelarli di nuovo alla cittadinanza (si pensi solo al palazzo Lanfranchi). Ma qui la miscela di motivi - artistici, storici ed istituzionali - che è infine possibile collegare al luogo risulta davvero singolare e di particolare efficacia. Il libro ha il merito di riportarli tutti in primo piano. Con il risultato di farci scoprire quanto parziale fosse finora la nozione di ciò che il palazzo può rappresentare: per quel che riesce ad incorporare del passato medievale e moderno della città e della storia delle famiglie che ne furono per secoli protagoniste, ma anche per ciò che oggi ospita del passato più prossimo e dell’identità presente di Pisa, città d’arte e di studio.
Innanzitutto è assolutamente particolare il luogo. Come sottolinea all’inizio del suo contributo Gabriella Garzella, siamo perfettamente al centro dell’ansa dell’Arno fra il ponte nuovo costruito in capo a via Santa Maria a fine XII secolo e quello vecchio in capo al Borgo. Era qui, dagli ultimi secoli altomedievali e poi sempre più intensamente dal Mille in avanti, la cerniera cruciale tra città, fiume e mare. Di questa area insediativa urbana, Gabriella Garzella ripercorre la storia a partire dall’emergere nei documenti medievali pisani della singolare concentrazione di luoghi di culto e chiese per lo più ormai scomparse; una concentrazione significativa, perché di per sé già testimonianza della densità demografica e del fervore delle dinamiche economiche e sociali che - nei secoli della grande crescita ed espansione medievale dell’occidente latino - proiettavano le navi, le armi e gli affari dei cittadini nello intero spazio mediterraneo. Qui si profila dal XII secolo il ruolo eminente della discendenza dei Lanfreducci, insediati tra San Nicola e la chiesa, di cui detennero il giuspatronato, di San Biagio - dal tardo Duecento detta “alle Catene”, forse per i frammenti di catene da porto, oggi nel palazzo e che la Garzella ci suggerisce possibile frutto di qualche impresa di mare. Fu in questo agglomerato di case torri, chiassi e piccole corti interne (compresa una piazzetta pubblica collegata alla chiesa, dunque nell’attuale cortile interno), che si ritagliò nel tempo sul fronte dell’Arno il complesso di tre edifici nella prima metà del ‘400 accorpate in una casa sola. Battista di Bondo approfittava della situazione straordinaria creatasi a Pisa dopo la prima conquista fiorentina del 1406. In una città segnata dall’emigrazione e dal fuoriuscitismo di molti appartenenti al vecchio ceto dirigente tardocomunale, il nostro Lanfreducci si faceva forte dei suoi buoni rapporti con Firenze e del suo ritrovarsi unico erede del patrimonio edilizio familiare.
Acquistò altre case lasciate da esuli ed edificò sul Lungarno quel che potremmo definire il prototipo del palazzo seicentesco. A una bella immagine riprodotta nel libro è affidata la suggestiva ricostruzione grafica (realizzata da Federico Andreazzoli con l’aiuto del computer e di Michele Berretta) di come doveva presentarsi l’edificio quattrocentesco.
Giovan Battista Tempesti, Il trionfo di Paride, affresco sala Galileo
Quanto il luogo, risulta dunque densa, e paradigmatica, pure la vicenda familiare. Nella storia dei Lanfreducci (ripresa anche in altri contributi e illustrata nell’albero genealogico ragionato elaborato da Andrea Addobbati, in appendice al suo saggio sul fra Francesco promotore ed edificatore del palazzo attuale) può leggersi un perfetto compendio della trasformazione delle strutture familiari e delle identità aristocratiche pisane tra medioevo e fine dell’antico regime. Emerso a fianco degli altri grandi protagonisti della Pisa comunale, nel XII secolo già al culmine della sua parabola di sviluppo, nel Duecento il casato costituito dalla discendenza maschile di un eponimo Lanfreduccio dava luogo a un largo e irrequieto - come era allora normale - clan di potenti capifamiglia, una solidale cerchia di uomini - padri, figli, fratelli, cugini - dediti alle armi, ai traffici, alla competizione politica. Dopo il definitivo affermarsi di gente nuova e dei loro governi, poco tolleranti verso la iattanza degli antichi potenti, i “nobili” Lanfreducci impiegarono un secolo prima di farsi nel 1352 di “Popolo”, riacquistando così l’accesso alle maggiori magistrature comunali. Una formidabile contrazione demografica - tra la epidemie e la crisi politica urbana - avrebbe frattanto ridotto la consistenza della famiglia, al punto di affidar tra XV e XVI secolo la sopravvivenza della linea maschile a un solo e fragile ramo. Il Battista di Bondo sopra ricordato avrebbe reagito al rischio di estinzione sposandosi due volte e generando nove figli, con lo scarso risultato di vedere due su tre dei maschi morire di peste mentre si avviavano alla mercatura, l’uno a Valenza e l’altro a Palermo. Il superstite Andrea non ebbe miglior fortuna del padre: undici figli, ma alla fine gli sopravvisse dei maschi solo il “bastardo” (così nelle lettere del tempo) Alessandro, nato dalla relazione con una schiava di casa e che per anni aveva trascinato la sua vita di mercante al servizio d’altri pisani in Sicilia tra fine ‘400 e primo ‘500. Da lui sarebbe nato il Francesco cavaliere gerosolimitano, stavolta quarto di sette fratelli maschi e diverse sorelle, al quale dobbiamo il palazzo “alla Giornata”. Caduto in mano ai mori nell’assedio di Malta del 1565 e condotto schiavo a Tripoli e Algeri, riscattato dalla famiglia dopo sei anni, tornato alla carriera nell’ordine fino a divenirvi cavaliere di Gran Croce e titolare del priorato d’Ungheria, quando tornò a Pisa - dove morì nel 1617 - si preoccupò di dare nuovo lustro alla dimora degli antenati ordinandone il restauro e il rifacimento della facciata. Scelte e forma di vita di quella generazione - tre uomini d’arme e un dottore in legge, un solo mercante, gli altri semplici proprietari fondiari - segnalano la trasformazione rispetto al mondo degli antenati medievali: dai mercanti e cavalieri della potente città che si confrontava direttamente con gli altri Comuni e con l’islam e Bisanzio, Genova e i Normanni, agli uomini d’armi, d’onore e di uffici di un Mediterraneo conteso tra spagnoli e ottomani, a partire da una città ritratta in se stessa, animata dallo studio e dominata da un patriziato preoccupato innanzitutto di perpetuare il proprio nome. Una quarantina d’anni dopo, per l’estinguersi della linea maschile del casato, patrimonio e palazzo passarono a un nipote nato Lanfranchi, che iniziò la famiglia Lanfranchi-Lanfreducci. Ancora un centinaio di anni e nel 1768 - alla rovescia - l’ultimo Lanfranchi-Lanfreducci si trovò erede universale dello zio materno a patto di assumerne il cognome Upezzinghi.
Attraverso la storia della famiglia si ripercorre così la storia della città. Ne erano perfettamente consapevoli i Lanfreducci stessi, che su questa coincidenza basavano la loro pretesa di irrevocabile appartenenza alla nobiltà urbana. È nel saggio di apertura, di Roberto Bizzocchi, che si svelano le rappresentazioni mentali e culturali sulle quali riposavano il decoro del palazzo e la solennità della sua facciata marmorea. La costruzione e l’esibizione della genealogia familiare, se data alle stampe, potevano valere quanto il monumento di pietra. Ma anche semplicemente manoscritti tra le carte di casa (e i nipoti di fra Francesco si curarono di approntarne almeno un paio), i trattati sulle radici lontane e più o meno mitiche del lignaggio, con i nomi di tutti i maschi succedutisi attraverso i secoli, e il ricordo delle loro imprese, cariche e pubblici onori, serviva a legittimare una preminenza urbana vissuta nel presente, vagheggiata e fondata nel passato, proiettata indefinitamente nel futuro. Del resto, a forza di frugare tra vecchi documenti e di rimestare parole e discorsi nobilitati dalla patina del tempo, accade pure a noi - smaliziati postmoderni - di sorprenderci a sentire vivi e attuali alcuni di questi personaggi. Così è per fra Francesco, che scopriamo osservare lucidamente e pragmaticamente il conflitto mediterraneo nei termini di un prosaico contrasto di imperi e non di religioni, sì che quel che contava era semplicemente combattere il dominio ottomano sui mori di Barberia, per poter riavere con essi libertà di amicizia e commerci. O anche per il nipote Alessandro, il quale nel rifare la storia di famiglia lamentava il danno al bene comune originato dalle vendette infinite e dalle discordie che le solidarietà dei clan gentilizi duecenteschi introducevano nello stato cittadino.
Ritrovare dietro la fisicità del Palazzo lo scorrere delle vite individuali e del più lontano passato urbano, non significa mettere in secondo piano la sua importanza artistica, il suo passato più recente, la sua funzione attuale.
Barometro, Studio del Rettore
È nel libro questo l’oggetto dei bei contributi sugli aspetti architettonici e artistici sei e settecenteschi, di Francesco Pilati e Rita Romanelli, di Lucia Tongiorgi, di Cinzia Sicca e Alberto Ambrosini. A me spetta almeno ancora menzionare rapidamente le vicende recenti, richiamate da Massimo Dringoli e ancora Pilati: le distruzioni subite nell’ultima guerra, che fecero da preludio all’acquisizione da parte dell’Università, per l’opera del rettore Mancini e del sovraintendente Sampaolesi. L’essere sede del Rettorato ha consentito nel tempo, dopo i nuovi danni inferti dall’alluvione del 1966, di procedere ad operazioni di restauro e risistemazione, culminate con l’intervento sulla facciata del 2001. Il contributo conclusivo di Manuela Marini e del prorettore per l’Edilizia Mauro Sassu ci spiega cosa è oggi il palazzo. Nella “Giornata” sono anche nel tempo confluiti oggetti e manufatti che hanno un non trascurabile valore simbolico per la identità dell’Ateneo e della città: i mappamondi tardo seicenteschi, qui studiati da Mara Miniati, le imprese delle accademie universitarie, di cui ci parla Lucia Tongiorgi Tomasi, i cherubini - la cui storia è oggetto del saggio di Gigetta Dalli Regoli - le mazze rettorali, che Antonella Capitanio identifica con quelle menzionate nello statuto di rifondazione cinquecentesca dello Studio da parte del duca Cosimo I. Infine, ma non ultimo, lo stendardo tricolore di Curtatone e Montanara, del quale Romano Paolo Coppini decifra puntualmente leggenda e vicende reali. La bandiera non fu affatto sul campo di battaglia insieme agli studenti pisani e toscani, ma - ad essi donata dai cittadini e dalle gentildonne di Reggio - non è per questo meno degna di memoria. Coppini ci spiega quanto poi fosse in realtà problematico coltivarne il mito, non solo nel decennio post-quarantottesco, ma pure dopo l’Unità. Il culto vero e proprio risale al fascismo - ovviamente - e alla sua rifunzionalizzazione della retorica risorgimentale, ma non si può trascurare la rilegittimazione della memoria della impresa e della bandiera venuta nel 1948. Nel centenario la bandiera, come si ricorda nel “Bollettino storico pisano” di quell’anno, fu insignita della medaglia d’oro e venne idealmente affidata (almeno quel poco che ne resta, dopo il consumarsi negli anni) agli studenti dell’Università pisana.
Ed infine, in questa veloce rassegna dei motivi - il monumento e il luogo, la famiglia e la storia - per i quali a partire da questo volume siamo un po’ tutti chiamati ad appropriarci della “Giornata”, non può mancare l’aura di enigma e di mistero che accompagna da sempre l’edificio. A rievocarla è innanzitutto il bel saggio di Anna Bertuccelli, che ci richiama all’immagine levantina ed esotica - l’orientalità di Pisa - costruita per la nostra città dai viaggiatori e dalla cultura soprattutto ottocentesca, ma che traeva radici e materiali più risalenti, già presenti nel diario di viaggio di Montaigne. Su questo tessuto fiorirono subito le fantasticherie ricamate intorno al laconico motto che fra Francesco volle apposto sul portone e dal quale il palazzo prende nome, e poi anche intorno ai tre anelli di catena che pendono dalla chiave di volta dell’arco. Il contributo di Andrea Addobbati si fa carico del compito di spazzare via quelle invenzioni, ma senza incrinare il fascino che attraverso il motto e la sua più plausibile storia resta pure sempre attaccato alla figura del vecchio cavaliere pisano. Senza fondamento la leggenda del voto formulato durante la prigionia tra i barbareschi, così come la pretesa del D’Annunzio a spasso per Pisa di dare una nobilitazione epicurea all’invocazione, che per lo più viene prosaicamente letta nel senso corrente dell’espressione - il vivere così come viene. Superflua anche la tesi che nella catena vede un riferimento alla demolita chiesa di S. Biagio, piuttosto che - molto banalmente - agli anelli a cui era appesa una lanterna. La soluzione deve venire dal riconoscimento che “alla Giornata” non è un motto legato all’edificio pisano, ma una “impresa” collegata al Lanfreducci, che la fece scolpire su tutti i suoi palazzi, compreso quello di Malta. Quanto alla “giornata”, basta individuarvi il francesismo penetrato nel lessico militare rinascimentale, fin da Machiavelli. Era semplicemente la battaglia risolutiva in campo aperto, a cui si affidavano le sorti della guerra e l’onore degli eserciti e dei condottieri chiamati a combatterla. Per intendere l’impresa occorre così far rivivere il contesto discorsivo, all’interno del quale queste vite cinquecentesche di uomini d’arme e di avventurieri si mettevano in gioco e si rappresentavano, davanti a sé e agli altri; ma anche riscoprire la vicenda individuale del cavaliere ingannato dagli intrighi di confratelli senza scrupoli nei giochi di potere interni all’Ordine e invece senza reputazione alcuna sul piano del valore militare. “Alla Giornata” era l’impresa con cui - per gli iniziati, per chi sapeva - fra Francesco si richiamava alla tensione ideale della vera cavalleria, il modo per lui di risarcire l’onore tradito da rivali indegni. Per consolarci delle interpretazioni perdute, Addobbati ci sfida - per puro divertimento - a ricominciarne il gioco. Poiché sul nostro eroe gravò anche il sospetto di essere stato in segreto sostenitore della tesi detta dei “Tre Impostori” (per la quale le tre religioni monoteiste erano il falso racconto di Mosé, Gesù e Maometto), perché non immaginare che i tre anelli si riferissero agli anelli della novella del Boccaccio nel Decamerone e la “giornata” alla vittoria finale dell’ateismo sulla fede? Prospettiva vertiginosa, dichiaratamente assimilata alla logica argomentativa di un Dan Brown, giusto per ricordarci quanto sottile sia il crinale, nel mestiere di chi pratica storia e memoria, tra ricostruzioni attendibili e ricostruzioni arbitrarie.
A noi resta questo bel lavoro a più mani, che offre all’Ateneo e a Pisa un patrimonio di memorie e un luogo al quale potere legittimamente collegare parte dell’identità e della tradizione insieme dello Studio e della città. Una “strenna” perfetta per tutti.
Giuseppe Petralia
docente di Storia medievale g.petralia@mediev.unipi.it