L’umanità racconta i suoi segreti
Una riflessione sulla narrativa di Cerami
Al professor Francesco Orlando, docente di Teoria della letteratura della facoltà di Lettere e filosofia, è stato affidato il compito di pronunciare la Laudatio a Vincenzo Cerami. Il professor Orlando, insigne studioso ed esperto, tra gli altri, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ha svolto il suo compito con indiscusso rigore e sorprendente modestia, evidenziando la straordinaria coralità e pluralità di registri che Cerami è capace di declinare.
Il Prof. Francesco Orlando pronuncia la Laudatio
Mi sia permesso spendere pochi minuti a spiegare perché mi considero in qualche modo inadeguato all’occasione, e all’onore che si è voluto farmi incaricandomi di pronunciare questa Laudatio. Potrei limitarmi a ricordare che non sono né italianista né contemporaneista - non fosse che così inquadrerei in modo troppo restrittivo la straordinaria pluralità degli interessi operativi di Vincenzo Cerami, che abbraccia quasi tutto lo spazio della comunicazione artistica nel mondo moderno. Una pluralità tale da mobilitare, chiunque sia a parlarne, una serie di competenze che io sono ben lontano dall’avere. Ma non è tanto per una questione di competenze che dicevo di considerarmi inadeguato, bensì per quello che è, da sempre, il mio curioso rapporto con l’attualità: un rapporto obliquo, sghembo, direi un rapporto da presbite, che ci vede male da vicino. Mio primo modello d’intellettuale da ragazzo fu un lontano cugino letterato (oltre che studioso credo davvero illustre, e professore, di Diritto romano), il quale paradossalmente amava dire che perché valga la pena di leggere un libro bisogna aspettare dieci anni da quando è uscito. Certo, Vincenzo Cerami i suoi dieci anni di prova, di purgatorio, li ha abbondantemente passati con ben più d’un libro. E a me il cattivo rapporto con l’attualità non ha impedito in passato di studiare singoli scrittori, fra i pochi che avevo conosciuto personalmente da vicino: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Carmelo Samonà. A presentarmi difficoltà insormontabili sarebbe il compito di seguire anno per anno, di tenere sotto controllo, un quadro incessantemente mobile e spalancato da tutte le parti. D’altra parte il mio mestiere di storico letterario m’insegna che solo entro quel quadro si precisano, d’uno scrittore, se non la grandezza che può venire riconosciuta anche retrospettivamente, l’originalità, la fisionomia, le svariatissime scelte fra tradizione e innovazione.
Purtroppo, quindi, io non ho letto tutto di Vincenzo Cerami, e tanto meno sono informato a fondo sull’importantissima parte della sua attività che riguarda il cinema, il teatro, i giornali, la radio. In ogni caso, credo che gli farei torto a non cominciare dalla sua opera, dalla sua statura, di narratore. E poiché le motivazioni “oggettive” della laurea sono già state adeguatamente dette dal mio preside e amico Alfonso Maurizio Iacono, farei male a non dire subito che cosa lo fa amare da me - come senza dubbio da mille, centomila altri lettori. In primo luogo, la sua moderna e solidissima referenzialità. La vanto volentieri oggi, quando siamo da decenni insidiati dal sinistro pregiudizio inverso, che la letteratura debba essere autoreferenziale, che possa e debba parlare soltanto di se stessa (pensate che noia!), oppure di un altro mondo (ma quale?), oppure di niente (ma come?). Ecco, Vincenzo Cerami per fortuna ci parla sempre di qualche cosa, qualche cosa che non può non trovarsi nel nostro mondo, l’unico che esista: ci parla del nostro mondo. Non intendo altro con la parola referenzialità - se la parola riuscisse difficile a qualcuno dei presenti non letterati. Una referenzialità tanto più solida quanto più è ancorata, uno al quotidiano, e due al soggettivo: cercherò di spiegarmi meglio. Al quotidiano, nelle ambientazioni sociali. Sì, immagino bene quanto Vincenzo possa andar fiero del giudizio di Pasolini che sta in una riga nella quarta di copertina di Un borghese piccolo piccolo, il romanzo che per primo gli ha dato fama: “Un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce”. Posso capire che a un uomo della generazione di Pasolini, più anziano di me, quella scelta piccolissimo-borghese sembrasse echeggiare un certo momento non lontano della storia letteraria italiana. Ma per me né quella prima ambientazione, né le successive per quanto conosco, hanno niente di “crepuscolare”: è la realtà, è la società che ci circonda ad essere prevalentemente così, o per meglio dire a poter ispirare un narratore che la racconti così.
Inoltre, una referenzialità ancorata, dicevo, al soggettivo. Il lettore viene immediatamente installato all’interno di una coscienza, fa esperienza di un’intimità umana necessariamente non identica o addirittura molto diversa dalla propria.
E ciò, quale che sia il grado di simpatia, d’identificazione che può riscuotere da parte nostra il tale o il tal altro personaggio, e sulla loro scorta il tale o il tal altro romanzo; basta soltanto leggere, basta non aver la minima voglia di chiudere il libro. La coscienza in cui entriamo corrisponde a uno sguardo sul mondo, e Cerami che possiede così bene la scienza detta narratologia (ne riparleremo) lo sa: a partire da Henry James, questa riproduzione di una coscienza-sguardo, coi limiti rigorosi che pone all’informazione dei personaggi e coi conseguenti dispiegamenti di bravure tecniche degli autori, è diventata a lungo andare, diciamolo francamente, un po’ meccanica o scolastica. Non così in Cerami, che sa arrivare all’autentica ricreazione della visione propria di un individuo immaginario, ma sa farlo esentandosi da ogni obbligatorio atteggiamento sperimentalista.
Da quegli atteggiamenti che nel corso del Novecento ci hanno lasciato, per un Joyce o per un Faulkner, per pochi altri genii o maestri, tanti testi atti a fare scandalo ma destinati a rivelarsi abbastanza presto datati. Perché c’è questo guaio: lo sperimentalismo, né più né meno che la più umile delle poetiche bollate in suo nome come tradizionali, dura artisticamente solo quando le scelte che impone risultano in profondità motivate, quindi, ogni volta, rimotivate.
Vorrei indicare dopo la referenzialità, come mio secondo motivo di amare la narrativa di Cerami, la qualità della sua lingua. Una lingua capace di rendere, nei frequenti, copiosi, vivissimi dialoghi, qualunque sfumatura che caratterizzi classe, ceto, cultura, regione, sesso, età dei parlanti. Ma anche questo elogio è per me la contropartita di un difetto evitato, di una tendenza a cui si è resistito, e qui penso a mode più recenti e più devastanti dello sperimentalismo. La caratterizzazione precisa e minuziosa mi sembra cioè in Cerami, almeno nella voce d’autore, esente da ogni compiacenza verso il particolarismo. Verso mode che oggi hanno i loro avalli più ufficiali negli Stati Uniti, precisamente nella cultura che, in un paese anche culturalmente egemone, si vuole d’opposizione. Rivendicazioni sociali e sessuali minoritarie o maggioritarie; ideologismo vendicativo dei cultural studies; preferenza a priori per tutto ciò che divide gli esseri umani rispetto a tutto ciò che li unisce; voluto screditamento di quel che ancor oggi dovrebbe poter chiamarsi senza falsi sensi di colpa l’universale. In Italia, poi, questa ventata può andare a sposarsi a un regionalismo di diversissima marca, derivato all’origine dalla lezione di Carlo Dionisotti: il maestro che dimostrò quanto c’era di arbitrario nell’idea di una unità costante della nostra lingua e letteratura, in un paese diviso nei secoli. Ma un conto è che siano gli studiosi a dirci cos’era centripeto e cos’era regionale in ciò che i testi italiani ebbero di vivo prima (e dopo) l’unità nazionale, un altro conto è che i narratori si compiacciano di tenersi lontani da ogni lingua che possa immediatamente esser compresa dal maggior numero possibile di lettori. Saper praticare una tale lingua è assai più difficile dei più scaltriti mimetismi locali e gergali, ed è uno dei più grandi meriti civili di cui possa gloriarsi un artista. Sentite dal mio tono di voce che, come mi succede sempre appena parlo di universale e di particolare, non ho tardato ad arrabbiarmi; ma leggendo Cerami non mi sono arrabbiato mai.
Torno velocemente al piano dei temi, dei contenuti, e confido a Vincenzo una mia personale tipologia del tragico. (Non senza l’imbarazzo d’una imprevista coincidenza casuale; per farlo, secondo i miei appunti, avrei dovuto affermare o negare che “la vita è bella”: tale e quale il titolo del film di Roberto Benigni a cui Cerami ha collaborato, ma io non prevedevo che Benigni oggi sarebbe stato con noi; per evitare equivoci dirò che “il mondo è bello”...). Si tratta di distinguere due tipi di tragico, forse i due soli possibili. Ce n’è uno, mi pare, il quale sottintende che il mondo è bello, ma che la bellezza di esso non può essere goduta; tragedia è allora precisamente questo, il sottinteso dell’impossibilità di goderne, che a sua volta sottintende la bellezza stessa. Sentirete immediatamente quanto è diverso l’altro senso possibile del tragico, il quale sottintende invece che il mondo non è, non può essere bello, che anzi è in sé brutto, meschino, cattivo.
Chi abbia una qualche cultura letteraria potrà capirmi se suggerisco che i due maggiori prototipi sono le due opere vertice del teatro moderno, a esclusione della tragedia greca: Fedra di Racine, Amleto di Shakespeare. Di che cosa è innamorata Fedra se non della bellezza? potrebbe mai dirlo in modo più commovente? E splende il sole al di sopra della scena, dal momento che proprio al sole Fedra si rivolge, e intuiamo intorno a lei un mondo straordinariamente luminoso: solo che una condanna fatale, la condanna in cui consiste la tragedia, vieta che di questa bellezza del mondo si possa godere. Di contro vedrei il pallido, nevrotico principe Amleto, per il quale il mondo è nauseabondo, il sesso letteralmente schifoso; mondo e sesso sono paragonati nel primo monologo di lui a un giardino non sarchiato che va in seme, tutto posseduto da cose lussureggianti e grossolane. Qui non è che il desiderio sia frustrato, è piuttosto pervertito e impedito alla radice, e tragedia è a priori questo impedimento. Non credo che la nausea del sinistro principe danese sia più tragica dello strazio della solare regina greca, e nemmeno viceversa. Fra i due prototipi non c’è da scegliere, contano poco le sensibilità personali, ma è chiaro che la narrativa di Cerami corrisponde al secondo prototipo, non al primo. C’è soltanto un contrappeso indiretto di non poco conto: la razionalità stessa con cui sono gestite quella coscienza-sguardo, quella lingua.
Prendo un unico spunto. Il tema delle azioni antisociali, gratuitamente e ferocemente aggressive è ricorrente in questa narrativa. E ciò - lo attestano le date - prima che nella realtà sociale italiana si arrivasse all’atrocità dei massi gettati contro le macchine in autostrada, non si sa perché, per ammazzare non si sa chi; ricordo il fatto di cronaca perché sono convinto che la letteratura, quella buona, conosca intuizioni profetiche. In Un borghese piccolo piccolo Giovanni, il padre del ragazzo ucciso per un violento assurdo caso, rinuncia totalmente a servirsi della giustizia ufficiale che pure è andata a cercarlo, se la farà da sé la giustizia, e in quale terribile modo! In Ragazzo di vetro Stefano, il giovane protagonista, è tentato senza ombra di motivo di uccidere quel vecchio signore che secondo lui somiglia ad Aschenbach, al personaggio di Thomas Mann - prima di capovolgere l’aggressività, nel giro di due facciate, dall’esterno verso l’interno e altrettanto immotivatamente suicidarsi. In Tutti cattivi, più di passaggio, abbiamo il piccolo Giustino che fa iniezioni velenose a un alberello di fico. E fa da sottotema la crudeltà verso gli animali: nel primo di questi tre romanzi s’insiste sull’orrendo strazio inflitto a un pesce ancora vivo, nel secondo sul minuto di pazza sopravvivenza d’una gallina senza testa. Far comprendere dall’interno d’una coscienza di personaggio le tentazioni della crudeltà e dell’antisocialità ha un alto valore precisamente sociale, perché soltanto di fronte a ciò che preferiamo non comprendere siamo del tutto indifesi e impotenti.
Infine, desidero chiudere sui Consigli a un giovane scrittore. La materia che insegnavo fino a pochi mesi fa, all’Università di Pisa, si chiama Teoria della Letteratura: esiste da un ventennio e non va confusa con la tradizionale Estetica. Questo libro di Cerami rientra a buon diritto, e degnissimamente, nell’ambito della bibliografia relativa. Potrebbe far parte delle letture consigliate per un esame, e ciò anche come modello di chiarezza razionale nella scrittura; per me è stato un vero paradiso di confronti, convergenze, scoperte, sui quali non la finirei presto. Cerami narratologo è affidabile nel tentativo di accostare in una serie omogenea concetti nati, rispettivamente, per l’analisi del racconto letterario fatto con sole parole, e di quello cinematografico fatto con immagini più colonna sonora. È affidabile perfino nel tentativo, ancora più ardito, di fondere qua e là concetti nati per l’analisi dell’uno e dell’altro. E c’è nel libro un senso costante di quella dialettica fuori dalla quale per me non si ha comprensione dei fenomeni artistici, la dialettica, come amo dire, fra mimesi e convenzione: fra l’istanza immancabile di una qualche realtà rappresentata, e l’istanza non meno immancabile di un qualche patto fra l’artista e il pubblico, che deve accettarlo per capire. Trovo (a pagina 134 della nuova edizione ampliata) una perfetta spiegazione del perché la semplice registrazione di una conversazione fra amici non sarebbe mai teatro o arte; e poi: “Se vogliamo, invece, restituire quella conversazione come si è svolta, bisogna riscriverla tutta secondo le convenzioni del teatro. Il vero si può riprodurre solo con il falso”.
Anche nella raccolta di brevissimi racconti La gente c’è un pezzo di grande interesse teorico, che ha per titolo la famosa scritta di Magritte sotto una pipa perfettamente disegnata, Questa non è una pipa: ma certo! dice Cerami trasformando in ovvietà rigorosa il paradosso, ma certo che il disegno d’una pipa non è la pipa stessa!
Il Prof. Francesco Orlando pronuncia la Laudatio
Tornando ai Consigli (122-123), cito il più lungamente che posso (non potendo citarla per intero) una pagina splendida: sul monologo teatrale come ritorno del represso per eccellenza, rispetto ai rapporti fra parola e silenzio nella vita di noi tutti. Mi pare giusto che, così, resti affidata a Cerami stesso la più degna chiusa: “se ognuno di noi contasse il tempo in cui parla con gli altri nel corso di una giornata, si accorgerebbe che si tratta di minuti e non di ore. Supponiamo, con molta generosità, di concentrare in un’ora il nostro ‘parlato’ di un intero giorno, a disposizione del silenzio ce ne restano ventitré. Se otto le passiamo dormendo, per ben quindici ore non usiamo la parola. Passiamo insomma il novanta per cento della nostra vita senza dire niente, chiusi in noi stessi. Ma quante cose succedono in quel silenzio. Quasi tutto. Agiamo, prendiamo decisioni, pensiamo. Ma facciamo anche cose di cui neanche ci accorgiamo. [...]. Dentro il silenzio diventiamo più bambini oppure ci confessiamo l’inconfessabile, ci rivolgiamo a Dio, non ci vergognamo dei nostri impulsi, non siamo terrorizzati dai tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci vien voglia di uccidere, di fare all’amore, di scappare. E tutto questo avviene quando siamo seduti nel vagone della metropolitana, mentre attraversiano una strada, prendendo un caffè al bar, nelle sale d’aspetto, davanti allo specchio con il pettine in mano, accendendoci una sigaretta. [...].
Uno scrittore non può fare a meno di attingere a questa zona muta dei suoi personaggi. In fondo il suo mestiere è proprio questo: far emergere in superficie quanto gli uomini rimuovono. Il suo sembrerebbe quasi un ruolo terapeutico. L’umanità racconta i suoi segreti solo attraverso l’arte”.
Francesco Orlando
docente di Teoria della letteratura