Lo studente Elio Toaff
L’ex rabbino capo rievoca i suoi anni all’Università
Oltre sessantacinque anni non sono riusciti a cancellare dal cuore di Elio Toaff la sua Università: lo ha ammesso lui stesso in Sapienza prima di ricevere lo scorso 19 ottobre il “Campano d’Oro”, conferito dall’Associazione dei Laureati dell’Ateneo Pisano. Accompagnato dall’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e dalla sua consorte, Toaff ha ricordato Lorenzo Mossa, il docente che gli consentì di laurearsi nonostante le leggi razziali. Proponiamo ai lettori il testo del discorso che Elio Toaff ha tenuto a braccio.
Elio Toaff accompagnato dall'ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e dalla sua consorte
Sono veramente molto commosso per la manifestazione di stima e di affetto che avete voluto concedermi. Io non so come potrei contraccambiare questo sentimento che voi oggi mi fate sentire così caldo e così pieno di stima e allora vi dirò che, entrando nell’Università in cui ho passato momenti felici e anche momenti dolorosi, ho rivissuto l’atmosfera indefinibile che nell’Università di Pisa si sente, che è ancora qualche cosa di vivo, qualche cosa che mi sorprende per la profondità del sentimento.
Quando sono entrato in questo luogo, dico la verità, non avevo provato niente che mi attirasse, che risvegliasse qualche cosa nel mio intimo, che veramente mi facesse sentire a casa mia. Ho sbagliato: perché poco dopo mi sono sentito a casa mia, ho sentito veramente, attraverso le vostre espressioni e l’applauso che mi avete tributato, che c’è qualche cosa che ci lega, come il ricordo del professor Lorenzo Mossa, a cui debbo molto.
Nel 1938 nessuno voleva assegnarmi la tesi di laurea e quindi non avrei potuto laurearmi. Allora il professor Mossa mi invitò a casa sua e mi chiese: “Lei ha abbastanza coraggio?”. Risposi: “Penso di sì”. Allora Mossa propose: “Guardi, potrebbe fare una tesi sul conflitto legislativo in Palestina fra la legislazione ottomana, quella inglese e quella ebraica”. Io accettai e così feci la mia tesi di laurea. Alla discussione, con Mossa, c’erano un altro professore di cui non ricordo il nome e il presidente della commissione Cesarini Sforza. Mossa mi presentò dicendo che avrei parlato di un paese che si stava avviando ad avere un destino felice e continuò su questo tono. A un certo punto, Cesarini Sforza si tolse la toga, la gettò sul tavolo e se ne andò. Io guardai stupito Mossa, non sapendo come si potesse procedere, e lui reagì a quello sguardo dicendo: “Vabbé, si farà in due, è lo stesso”. Così continuammo la discussione della tesi di laurea e alla fine lui mi propose: “G - uardi 110 non glielo posso dare, si accontenta di 105?”. “Anche troppo”, replicai io. E lui: “Allora le darò 103!”. Accettai felice.
Questi sono ricordi che non si possono cancellare e che si conservano per tutta la vita, finendo per far parte della stessa personalità di un individuo. Per questo debbo riconoscere che entrando in questa Università - ma non in quest’Aula dove non ero mai stato perché mi tenevano fuori - ho sentito risvegliare qualcosa in me, cioè il ricordo di quegli insegnanti che, al di là di ogni pregiudizio razziale, mi avevano trattato come tutti gli altri allievi.
Una volta, quando andavo dal professor Mossa, gli raccontai quello che mi era capitato durante il viaggio che facevo da Livorno per venire all’Università a Pisa. Alcuni giovani fascisti mi avevano fermato, mi avevano fatto distendere in uno scompartimento, mi avevano spogliato e avevano scritto delle frasi ingiuriose sulla mia pancia. Gli mostrai le scritte e lui ribattè: “Non lo cancelli! Si faccia fotografare, perché questo oltraggio deve rimanere per dimostrare fino a che punto si può arrivare con la politica”. Era questa la politica che il fascismo insegnava ai giovani e questo il modo con cui essi dovevano comportarsi con gli ebrei. Bene, io possiedo ancora quella fotografia, perché mi sono sempre detto che non avrei mai dovuto dimenticare.
In questo mio breve ricordo, posso però aggiungere un episodio di segno opposto, legato al custode della Sapienza. Un giorno mi vide entrare e poco dopo mi affrontò chiedendomi di seguirlo. “Venga con me e non faccia discorsi”, disse con tono perentorio. Mi portò in uno stanzino, mi chiuse all’interno con le chiavi e mi disse: “Le spiegherò”. Solo dopo un’ora il custode si decise finalmente a riaprire. “Non mi ringrazia nemmeno?”, chiese. Veramente io non vedevo alcuna ragione per ringraziarlo di avermi rinchiuso in uno sgabuzzino. Ma lui si spiegò: “lo sa perché l’ho rinchiusa? C’erano quattro fascisti che erano venuti a prenderla”.
Fu una dimostrazione di fratellanza che non mi sarei aspettato e debbo dire che nel dopoguerra ho avuto modo di sdebitarmi con lui. Il custode era ormai anziano, aveva lasciato il posto di lavoro e se la passava male, così cercai di fare in modo che se la passasse un po’ meglio.
In conclusione voglio ringraziarvi per avermi dato la possibilità di ricordare pezzi della mia vita qui con voi, in modo semplice e immediato, senza fare un discorso con la “d” maiuscola. Ho solo voluto parlare come uso fare di solito, senza salire in cattedra, cercando di arrivare con quelle espressioni che, uscendo dal cuore, entrano nel cuore.
Elio Toaff