Matusa in cattedra
Uno studio sul reclutamento del personale docente
nel nostro Ateneo a partire dal 1965
È sotto gli occhi di tutti l’elevata età media che caratterizza il ceto dirigente del nostro Paese. Anche il mondo universitario non fa eccezione, come dimostra una ricerca di lungo periodo del professor Paolo Rossi, direttore del dipartimento di Fisica “Enrico Fermi”. Lo studio si incentra sull’Università di Pisa, ma le conclusioni possono essere estese all’insieme degli atenei italiani.
L’innalzamento dell’età media della popolazione italiana è sicuramente uno dei fenomeni demografici e sociali più significativi del ciclo iniziatosi una volta esaurite le conseguenze del baby boom degli anni Sessanta. Si tratta di un processo dalle numerose e spesso pesanti ricadute, a partire dalla sfera economica e da quella dell’organizzazione sociale. Uno degli effetti forse meno evidenziati finora dagli analisti è tuttavia quello del rallentamento delle dinamiche sociali e culturali. Un Paese “vecchio” è anche un Paese che cambia lentamente, e che trova difficoltà a inserirsi rapidamente in tutti i processi a carattere innovativo che si manifestano in un contesto ormai largamente globalizzato.
Si è ormai detto e ripetuto molte volte che il sistema universitario dovrebbe essere uno dei motori dell’innovazione, e molti hanno cercato di evidenziare, tra le numerose criticità del sistema, quelle che tendono maggiormente a ostacolare la dinamica dell’innovazione.
Noi riteniamo che una di queste criticità sia da individuarsi nel fenomeno di lungo periodo che ha portato a un drammatico innalzamento dell’età media alla nomina dei docenti per ciascun livello della carriera universitaria (ricercatore, professore associato e ordinario).
Torneremo nel seguito sulle conseguenze di questo fenomeno, ma nella prima parte di questo breve saggio vorremmo innanzitutto presentare una dettagliata analisi quantitativa del fenomeno, fondata su una base di dati geograficamente limitata ma sufficientemente ampia ed estesa nel tempo. Oggetto specifico della nostra analisi è stato il reclutamento del personale docente universitario nell’Università di Pisa a partire dal 1965. Abbiamo preso in considerazione le carriere di oltre duemila docenti nell’arco di quarant’anni. Più in particolare, tenuto conto del fatto che uno stesso docente può aver avuto fino a tre distinte nomine nel corso della propria carriera, abbiamo esaminato 744 nomine a ordinario, 985 nomine ad associato e 964 nomine a ricercatore o assistente (mentre abbiamo escluso dalla nostra analisi un ristretto numero di nomine a ricercatore di ex tecnici laureati a seguito di concorsi riservati, considerando anomali gli effetti anagrafici di questo meccanismo di reclutamento). Abbiamo trovato che l’età media alla nomina è aumentata in modo costante, di circa 5 mesi all’anno per gli ordinari, 3 per gli associati e 2 per i ricercatori.
Riteniamo che le nostre conclusioni siano abbastanza solide da poter essere generalizzate alla gran parte delle istituzioni universitarie italiane, e in particolare all’insieme delle Università “storiche” che hanno condiviso i meccanismi di reclutamento e avanzamento di carriera (anche per il carattere nazionale dei concorsi universitari) almeno fino a tempi che possiamo considerare molto recenti rispetto alla scala della nostra indagine. Sarebbe certo molto interessante estendere l’analisi al corpo accademico dell’intero sistema universitario italiano, ma i dati necessari sono pressoché inaccessibili ai ricercatori, ad eccezione di pochi dati aggregati relativi alla distribuzione dei docenti delle differenti fasce per classi d’età (senza tuttavia l’indicazione dell’età media alla nomina).
Il raffronto tra il dato nazionale e il dato pisano ci ha comunque permesso di verificare la perfetta corrispondenza della distribuzione anagrafica della docenza pisana alla distribuzione nazionale, e questo fatto, ancorché a rigore non conclusivo, ci conforta ulteriormente nella nostra già ferma convinzione che i risultati presentati si ritroverebbero senza significative variazioni in un’indagine che si estendesse all’insieme delle Università italiane, o anche a uno qualunque dei maggiori atenei.
Dalle nostre elaborazioni risulta che, negli ultimi 40 anni per gli ordinari e negli ultimi 25 anni per associati e ricercatori, l’età media alla nomina è aumentata in modo assolutamente costante. La velocità di crescita può essere espressa in mesi per anno, e i valori ottenuti dalla regressione sono riportati nella Tabella 1.
Età | Ordinari | Associati | Ricercatori |
---|---|---|---|
Età media alla nomina (1965) | 35,8 ±3,8 | -- | 29,6 ±2,9 |
Età media alla nomina (1980) | 42,0 ±4,8 | 39,5 ±4,8 | 31,8 ±3,5 |
Età media alla nomina (2005) | 52,2 ±6,6 | 44,7 ±6,5 | 35,5 ±4,5 |
Crescita dell’età media (mesi/anno) | 5,0 ±0,2 | 2,8 ±0,2 | 1,8 ±0,2 |
Un altro fenomeno degno di nota è l’aumento costante della dispersione in età alla nomina, misurato dalla crescita dello scarto quadratico medio dalla media. Notiamo che lo Sqmm, che negli anni Sessanta era di solito compreso tra i tre e i quattro anni per gli ordinari, e addirittura inferiore ai tre anni per gli assistenti, alla fine del periodo considerato vale tra i sei anni e i sette anni per gli ordinari e gli associati e tra i quattro e i cinque anni per i ricercatori. Quest’effetto, se verso il basso compensa l’aumento dell’età media alla nomina producendo una crescita moderata dell’età minima (che nel 2005 vale circa 45 anni per gli ordinari, circa 38 per gli associati e circa 31 per i ricercatori), verso l’alto esso si somma all’aumento dell’età media, producendo un innalzamento impressionante dell’età massima alla nomina, che nel 2005 vale quasi 59 anni per gli ordinari, circa 51 anni per gli associati e circa 40 per i ricercatori.
In conclusione, possiamo dire che il costante aumento dell’età media dei docenti alla nomina, del quale abbiamo prodotto l’evidenza empirica nel caso dell’Ateneo pisano, è un fenomeno macroscopico e di lungo periodo che, per quanto alla lunga insostenibile, non mostra a tutt’oggi alcun segnale di rallentamento. Tale processo ha forti implicazioni di natura sociologica ed economica e va inevitabilmente a incidere anche sulla psicologia e sulle motivazioni degli interessati.
Sul piano della sociologia della ricerca, abbiamo già segnalato il fatto che un sistematico invecchiamento, in particolare del gruppo dirigente (i professori ordinari), che è proprio quello più pesantemente toccato dal processo, comporta un affievolimento della spinta innovativa che il Paese si attende proprio in particolare dai suoi ceti intellettuali e dai settori più vocazionalmente dedicati alla ricerca scientifica. Si deve considerare in particolare un elemento di feedback positivo che tende a perpetuare il fenomeno in esame: la selezione dei nuovi ordinari viene effettuata dagli ordinari in servizio, i quali tendono naturalmente a conoscere e ad apprezzare maggiormente i colleghi più prossimi a loro per età e per esperienze condivise, Di conseguenza un corpo di ordinari sempre più anziani tenderà a reclutare nei propri ranghi colleghi a loro volta sempre più anziani, in una spirale il cui limite sembra essere ormai soltanto quello dell’età massima pensionabile.
Addirittura drammatico nei suoi effetti (e solo un poco più lento) è l’innalzamento dell’età media d’ingresso nel ruolo dei ricercatori, che priva il sistema della ricerca della possibilità di far esprimere in condizioni di sufficiente autonomia materiale e intellettuale le sue forze più vive. La perniciosità di una prolungata condizione di precariato ai fini dello sviluppo della ricerca è un dato ormai acquisito dai più recenti studi internazionali in materia.
Sul piano economico non si può non rilevare che il fenomeno evidenziato è alla lunga palesemente incompatibile con la normativa salariale e previdenziale in vigore dal 1980 e non sostanzialmente modificata dalla legge 230/05. La regola vigente, secondo la quale il numero di anni di attività pregressa che viene riconosciuto all’atto della ricostruzione della carriera non può essere maggiore di otto, finisce per penalizzare fortemente chi arriva alla nomina dopo un numero di anni di attività effettiva che, per un ordinario, può ormai agevolmente superare la ventina. Nozioni come quelle di straordinariato e di fuori ruolo, figlie di epoche in cui la carriera dei docenti universitari aveva cadenze temporali del tutto diverse da quelle attuali, sono ormai totalmente anacronistiche e contribuiscono ad accorciare ulteriormente la stagione di pienezza professionale del docente universitario, mentre si riduce sempre più il livello salariale massimo raggiungibile nel corso della carriera, e di conseguenza il livello del trattamento pensionistico. Un piccolo paradosso può forse bastare a esemplificare la situazione: con un’età media d’accesso all’ordinariato pari a 52 anni, e con un’età massima di pensionamento ormai ridotta a 70 anni, non sarà più possibile in futuro attribuire il titolo di professore emerito, che richiede per legge vent’anni di servizio in qualità di ordinario.
Ci paiono non trascurabili anche le conseguenze sulla psicologia individuale. Assistiamo a una sorta di paradosso di Zenone, per cui la tartaruga della piena maturità scientifica continua a sfuggire al ricercatore-Achille. Ma nel campo della ricerca, e in particolare di quella più innovativa, che non sempre si può tradurre rapidamente in risultati concreti e remunerativi, la motivazione del ricercatore risiede spesso, oltre che nella curiosità, anche nel riconoscimento (accademico) del merito, che porta maggiore autonomia e maggiore spazio per il dispiegamento della creatività. Tarpando questa prospettiva e lasciando non riconosciuto, o comunque non adeguatamente premiato, questo merito, si rischia di inibire uno dei meccanismi più potenti tra quelli che possono oggi indurre un giovane di talento, al quale la società propone ben altri modelli di realizzazione individuale, a spendere le proprie energie e le proprie capacità nella realizzazione di un progetto scientifico e culturale.
Paolo Rossi
docente di Fisica teorica, modelli e metodi matematici
paolo.rossi@df.unipi.it