Itinerari, dalla Sapienza allo schermo
Un percorso artistico che si completa tornando nello stesso edificio, il Palazzo della Sapienza di Pisa, da dove era cominciato quasi
sessant’anni fa con la regia di un documentario sulla battaglia di Curtatone e Montanara.
Partendo dai ricordi legati a questo luogo,
simbolo dell’Ateneo pisano, si è snodata la lezione che Paolo e Vittorio Taviani hanno tenuto a termine del conferimento della laurea
honoris causa da parte dell’Università di Pisa. L’intervento di Paolo e Vittorio Taviani è stato anche, e non poteva essere diversamente,
una grande lezione sul cinema e sulla loro concezione di cinema. In particolare, la loro analisi si è soffermata sul rapporto tra cinema
e verità storica e su quello tra linguaggio dell’arte e linguaggio della politica.
Ma prima dobbiamo confessare una certa inquietudine, senso di colpa misto a orgoglio, nell’accettare una laurea che non avremmo mai immaginato. Invece siamo qui. Coincidenze? Chissà. Tutto può accadere nella vita e nei romanzi - diceva Dickens - anzi le coincidenze, forse, sono la legge della vita.
Questa Università ci ha ispirato Curtatone
e Montanara, uno dei nostri primi
documentari andato perduto, uno dei
pochi da noi amato. Una mattina di sole,
con la nostra piccola troupe, occupammo
il cortile della Sapienza per piazzare
i binari di un lungo carrello. “Mancini”
- si chiamava il mitico carrello di legno
usato dal cinema di allora. Anche i binari
erano di legno - l’agile steady cam non era
stata ancora inventata - e il lavoro dei
macchinisti era complesso e fragoroso.
Quel fragore era musica di Mozart per
le nostre orecchie. Ci passavano accanto
studenti e professori. Alcuni di loro, in
passato, avevano incoraggiato la nostra
scelta, così irregolare, di fare cinema.
Altri avevano scosso la testa e il tono della
nostra voce sfiorava la provocazione
quando gridammo: “Azione!”. Il carrello
corse a ritroso, abbandonò le logge della
Sapienza per avventurarsi verso le strade
di Pisa, le piazze, i lungarni. Iniziava così
il viaggio degli studenti quarantotteschi
verso il nord. Attraversava le campagne
toscane e lombarde, si soffermava sulle
sponde del Po, e finalmente si arrestava
sui prati e le valli di Curtatone e
Montanara, teatro della battaglia contro
gli austriaci. Noi due inventammo una
lunga soggettiva: “la macchina da presa
- ci dicevamo con la giovanile ebbrezza delle prime intuizioni - diverrà l’occhio
degli studenti rivoluzionari alla scoperta
del mondo della libertà, alla scoperta di
se stessi e le loro voci, in colonna sonora,
leggeranno le lettere inviate a casa, i
commenti, i pensieri più segreti dettati
dal viaggio.
Quel lungo carrello aumentò
la sua forza espressiva quando in moviola
aggiungemmo la musica. Raggiunse l’acme
col dilagare del coro “Guerra, guerra!”
dalla Norma di Bellini.
Tornavamo a
casa eccitati dalla scoperta - ovvia forse,
ma non per noi alle prime armi - delle
possibilità inesplorate nel rapporto immagine
- suono.
Ci confidavamo di provare - come dire - la sensazione di un aumento della nostra energia inventiva. Provammo la stessa emozione quando, anni dopo, in San Michele aveva un gallo, usammo ancora il “Guerra, guerra!”. Ancora su un interminabile carrello irrealistico che si allontana da Giulio, il protagonista, invade e dilata la cella in cui è prigioniero e la trasforma in un teatro d’opera immaginario. Fin dagli inizi presentivamo l’importanza che la musica avrebbe avuto per noi nel fare cinema. Musica intesa non come commento umilmente parallelo alle immagini, ma come struttura stessa del film. Per noi, l’abbiamo detto altre volte, il cinema è l’erede - a vent’anni dicevamo la summa! - di tutte le forme d’arte che l’hanno preceduto. E quella più vicina a noi è la musica.
Perdonate il tono un po’ agiografico: i ricordi fanno questi scherzi.
Il documentario, che per noi fu importante, sicuramente presentava i limiti di due registi che avevano troppo da dire e poco tempo a disposizione (per legge un documentario non poteva durare più di dieci minuti).
Ecco, oggi possiamo finalmente rivelare un piccolo segreto: quelle lettere scritte dagli studenti, non esistono in nessun archivio storico, le abbiamo inventate. Tutte. Erano lettere che avremmo scritto noi due alle fidanzate, agli amici, ai maestri più amati. Nessuno osò metterne in dubbio l’autenticità, nemmeno alcuni storici, stupiti di fronte a quel materiale inedito e forse vergognosi della loro innocente ignoranza. Noi pensavamo e pensiamo che quelle lettere riportassero in vita gli studenti pisani, rendessero attuali i loro pensieri, ci dessero la possibilità di far diventare contemporaneo quell’avvenimento del 48.
Un falso, sì. Ma già da qui potrebbe nascere un’indicazione del nostro modo di lavorare, una risposta alle domande di tanti giovani che vogliono sapere di noi, fare e scrivere cinema. Non pochi nostri film sono ambientati in epoche passate, alcune volte la scelta è dovuta al caso, altre alla ricerca di un’età storica affine al presente. Usiamo storie di ieri per interrogarci su quelle di oggi: la ricerca della verità non significa farsi condizionare dall’attualità, dalla cronaca riduttiva a cui ci costringe la televisione. La necessaria ricerca storica che precede la scrittura del film, ci ha dato e ci dà l’eccitante possibilità di leggere e studiare documenti e testimonianze dell’epoca in cui agiscono i personaggi del film, di sprofondare nel passato.
Poi dimentichiamo. Vogliamo dimenticare tutto durante la sceneggiatura e la lavorazione. Di più: la verità storica viene spesso tradita in nome di un’altra verità. Quella del film, quel microcosmo rappresentato dal nostro racconto.
“Non mostrerò questo film ai miei studenti, voi non aiutate a capire la storia del nostro paese” - così ci rimproverò una volta un insegnante, e non è stato l’unico, durante un dibattito dopo la proiezione, ci sembra, di Allonsanfan - che bisogno c’era d’inventarvi la storia? Voi, così, create una gran confusione”. La sua protesta era sincera e accorata. Non ce la sentimmo di aggredirlo - la voglia era tanta - e chiedemmo aiuto a quegli autori che probabilmente lui insegnava a scuola, i grandi maestri che ci hanno indicato la strada dei falsi storici. Ricordammo, come esempio, le rappresentazioni, le più diverse, del personaggio storico di Giovanna D’Arco: strega per Shakespeare in Enrico VI, ribelle e popolare in Brecht, orgogliosa in Bresson, fino alla Giovanna tutta occhi, impaurita e vincente in Dreyer. Qual era la vera Giovanna? Tutte e nessuna. Ogni autore le ha affidato i propri sentimenti, l’ha usata per rappresentare il suo tempo.
Anche i personaggi storici dei nostri film assumono spesso le fisionomie di uomini e donne della nostra vita. Di ognuno di loro costruiamo le biografie, dalla nascita al presente, oroscopi compresi. Non immaginate che sensazione di libertà fare indossare il costume agli amici, ai nemici, che tornano a vivere alcuni frammenti della loro vita e a viverne un’altra, quella che diamo a loro.
Quel breve documentario - ce ne rendiamo conto oggi - era un’inconsapevole anticipazione delle successive opere della maturità, a cui lo unisce l’impazienza di futuro, dei protagonisti, il disagio di vivere in un presente meschino, anacronistico, il desiderio di felicità in un mondo diverso.
La commissione dei premi di qualità bocciò il lavoro. Motivazione: troppo astratto. Concreta fu la nostra delusione… e una certa vergogna di noi stessi: che abbiano ragione? Eravamo convinti d’aver espresso qualcosa di diverso, di bello forse. Nel nostro donchisciottismo non avevamo dubbi che avrebbe trovato un’eco in chi lo vedeva. Chi poteva immaginare, allora, quanti avversari “naturali” avremmo incontrato sulla nostra strada, allergici allo stupore per ogni lampo di novità.
Abbiamo detto che le nostre riflessioni,
oggi, avranno tutte il loro avvio qua,
dentro queste mura della Sapienza.
Manteniamo l’impegno e così ci troviamo
sul portone centrale, alle una di
una domenica di più di cinquanta anni
fa. Avevamo visto Germania anno zero di Rossellini nell’aspra copia in tedesco.
Una proiezione abbastanza anomala
dell’Università Popolare, qui per quel
giorno ospite. Con un certo disagio ci
decidemmo a prendere la strada di casa.
Ma c’era qualcosa che ci feriva la vista.
Attraversammo la città deserta, tagliata
da luci e ombre come in una tela di De
Chirico. Amavamo l’enigma delle sue
piazze toscane, ma oggi la luce rifiutava
ogni mediazione culturale, perché era
una luce cattiva, senza pietà. Era la luce
di certe sequenze del film che avevamo
visto, il suo bianco segno rivelatore. Nel
film di Rossellini la luce non accettava
mediazioni perché il nostro mondo aveva
conosciuto l’abisso, il non umano e
ora noi dovevamo fissarlo, rifiutando
ogni zona d’ombra, perché mai più fosse
dimenticato. D’altra parte già nel precedente
Roma, città aperta, nella sequenza
della morte della Magnani, insieme
al suo grido e al suo braccio proteso, il
bianco accecante della tonaca da chierichetto
del figlio che dentro quel bianco
scalcia e urla, rimane il segno più forte della sequenza, uno sgomento che ad
ogni visione si rinnova.
Tornando alla lontana domenica di
Germania anno zero anche quella mattina
nostra madre ci aspettava. Con lei
avevamo uso di parlare di quanto avevamo
visto o letto. Ma quella volta le
dicemmo…scusaci…con le parole non
riusciamo a dirti…a farti capire…a farti
vedere. C’era in noi quel tanto di esaltazione
morbosa che accompagna la convinzione
di una nuova scoperta; e noi
due ora sapevamo che nel linguaggio del
cinema uno dei primi segni è la luce.
Dopo più di trenta anni, nella nostra maturità di registi, sentimmo che era venuto il momento di far riemergere il passato di sangue e in particolare quell’estate del 44 sui colli della nostra San Miniato, che vide la strage del Duomo e il nostro esodo verso i liberatori. Ci rendemmo subito conto come il tempo e la coscienza popolare avevano elaborato i molti lutti e il senso di una vittoria sempre da difendere. Il racconto orale aveva trasformato quel passato in una specie di chanson de geste o di una fiaba. Gli occhi di una bambina sono spesso gli occhi del film. Il tempo della pietà era tornato, e la luce non poteva essere quella cattiva del film di Rossellini. Nel nostro film la luce cerca una mediazione tra il paesaggio, gli eventi e la natura umana, una riconciliazione nel segno di una pacata luminosità. Pur su scene di quotidianità feroce, la luce tende a quella limpidezza che è anche promessa di futuro, e si permette perfino un’ambiguità scherzosa: “Piove e c’è il sole”, dice la giovane donna con il suo bambino in braccio. È stata appena liberata e ora guarda stupita e divertita quella strana luce tra sole e pioggia che brilla sulla sua gente in festa.
Se la luce di un film è il primo segno visibile del suo senso, il senso della Notte di San Lorenzo era rivolto in modo particolare ai giovani di quegli anni ottanta, che nella palude di una società dai fremiti oscuri, consumavano la loro vita “vivendo e vivendo a metà” come dice Eliot. Avevano bisogno, avevamo tutti bisogno di far riemergere la figura dell’uomo in tutte le sue possibilità. Per questo abbiamo sempre sentito il nostro film non come un film storico o di memoria - tantomeno di nostalgia - ma come il più contemporaneo che in quegli anni potessimo tentare di fare.
“La luce è il cinema. Stop.” Fellini è
categorico. A noi è capitato di parlarne
una volta con Michelangelo Antonioni,
coinvolto con noi in uno strano caso.
Tanto lui che noi avevamo trovato ispirazione
nelle isole Eolie, uno dei paesaggi
più assoluti del mondo. Un paesaggio
soprattutto come protagonista dei nostri
due film: stesse immagini, stessi scogli,
stessa profondità del mare, stesso orizzonte.
Eppure la luce così diversa nei due
film fa di loro due pianeti diversi, due
opposti luoghi dell’anima. Non è questione
di bianco e nero (L’avventura) o
di colore (Kaos).La luce grigia nell’indimenticabile
film di Antonioni incupisce
le cose e le persone. Le linee fantasiose
degli scogli si trasformano in oscure masse
acuminate, il mare in nemico di cui
diffidare. Il giorno sembra ridotto a essere
la vigilia della notte, quando nell’ora
più ambigua lo sgomento diventa certezza
della propria estraneità a se stesso
e al mondo. In Kaos le stesse immagini,
gli stessi spazi: ma il cielo si è spalancato
e la luce rende più azzurro l’azzurro del
mare, più bianco il bianco delle pomici.
È questa esplosione di luce che spinge i
piccoli fuggiaschi, che sulla barca vanno
verso l’esilio, a scendere sulla spiaggia e
dalla cima dell’altura volare giù dentro il
mare. Un viaggio di lutto che inaspettatamente
si trasforma in un momento di
felicità: solo per pochi istanti, forse, ma
quanto basta a quei bambini a riprendere
con più forza il loro viaggio.
In questo ultimo anno abbiamo amato in particolare un film di Clint Eastwood Lettere da Iwo Jima. Anche questo è un film che si fissa nella memoria e rivela il suo senso nel rapporto con la luce. Ma questa volta come sottrazione della luce, quasi fino alla sua negazione.
È in un mondo di tenebre infatti che sono condannati a vivere i soldati giapponesi - molti sono giovani - che difendono il colle di Iwo Jima contro l’avanzata sanguinosa e vincente degli americani.
Sono penetrati nelle viscere del terreno, dove hanno costruito grotte, trincee, cunicoli. Hanno ricevuto un unico ordine: combattere comunque, finché l’ultimo di loro avrà trovato in quelle tenebre la sua tomba. Ci viene in mente un detto che la saggezza popolare ha fissato nel linguaggio. Suona così: la luce è speranza, togli la luce, togli la speranza. Senza speranza, nell’oscurità i giovani giapponesi si ostinano a scrivere le loro lettere d’amore e di addio, sapendo che non avranno mai risposta. È un film nel segno del lutto, che Eastwood e il suo sceneggiatore affidano alla nostra pietà. Facciamo un passo indietro.
Questa è stata la nostra Università perché
qui, ancora ragazzi, scoprimmo la Storia
del cinema di Pasinetti. Scoprimmo che il
cinema aveva una sua storia come la letteratura,
la pittura, le altre arti studiate al
liceo. In quegli anni - pensate - ci davano
ancora temi come “il cinema può essere
arte?”. Fa sorridere la nostra ignoranza
della letteratura cinematografica passata,
ma erano gli anni del dopoguerra e le
nuove riviste specializzate vennero dopo.
Hollywood era l’unico rotocalco che si
occupava di cinema, di attori, di gossip.
Pubblicava anche recensioni dei lettori
e uno di noi era tra quelli. Il volume di
Pasinetti divenne il nostro vangelo cinematografico:
occhi avidi scorrevano le righe
che ci parlavano di EisenŠtein, Ford,
Renoir. La mattina entravamo in questa
Università insieme agli studenti veri.
Nel silenzio della biblioteca studiavamo
con serietà, una serietà lieta, sentimento
sconosciuto nell’indolenza dei banchi di
scuola. La ricerca di sé, così viva e spesso
angosciosa in un ragazzo, aveva trovato
una sua strada. Trascrivemmo tutto il
libro o quasi…forse in qualche nostra
cantina esiste ancora il manoscritto.
La nostra fratellanza si saldò. Iniziava il viaggio insieme. Due nature diverse. Un unico sogno. Un dono del caso, misterioso a noi stessi, ribelle ad ogni tentativo di razionale spiegazione.
Col desiderio struggente di entrare in
confidenza con la famiglia del cinema,
ci iscrivemmo al cineclub pisano fondato
da un pioniere, Mario Benvenuti, e
animato spesso dagli interventi appassionati
di Valentino Orsini che diverrà
il nostro grande amico e collaboratore.
Contavamo i giorni che mancavano alle
proiezioni, come si aspetta l’appuntamento
con una innamorata. Sì, ci siamo
innamorati di tutti i film che vedevamo e dei registi che già consideravamo padri,
fratelli. Ci davano la consapevolezza di
vivere rispecchiandoci in loro. Verrà più
tardi il desiderio di misurare se stessi su
quei maestri. Diciamo la verità, non tutti
i film erano così belli, così assoluti, ma
quando si scopre un mondo non ci sono
vie di mezzo. Il nostro entusiasmo alcune
volte ci mise in imbarazzo: proiettarono
al cineclub Gli ammutinati dell’Elsinore di Pierre Chenal. Non era un gran film,
ma noi riuscimmo a scovare alcune inquadrature
da amare. In quei giorni al
cinema Astra veniva programmato Gli
ammutinati del Bounty con Clark Gable
e Charles Laugthon. Un film di grande
impatto spettacolare che travolse il
pubblico e anche noi. Ma nel paragone
tra i due film, durante furiose discussioni,
noi difendevamo con accanimento
Chenal contro il Bounty. Mentivamo a
noi stessi senza rendercene conto. Oggi,
quando amici della nostra generazione ci
chiedono: “come fate a sopportare certi
giovani critici e registi, l’arroganza che
mettono nel mandare all’inferno o in
paradiso questo o quel film?”, rispondiamo:
“Sarebbero insopportabili se noi,
alla loro età, non fossimo stati peggio di
loro!”.
La conoscenza del cinema ci fece traditori. Traditori di ogni forma d’arte che non fosse cinema. Ci proiettava oltre la cultura umanistica, pur grande e amata, ma degradata secondo noi a scolastico, logorato patrimonio borghese. Si aprivano nuovi orizzonti. Perfino l’aspetto tecnico legato all’arte cinematografica, ai suoi strumenti: macchina da presa, pellicola, obiettivi, luci, rappresentava una novità rivoluzionaria. Anche oggi le nuove generazioni sono attratte dalle più avanzate tecnologie. Si infiammano, esagerano anche. Ma la fantasia, se c’è, avrà la forza di dominarle.
Vivevamo di cinema e basta. Pisa e la sua solare architettura - così presente nello stile dei nostri film, come hanno sottolineato alcuni critici - in quei giorni si confondeva con un’idea irriverente della città: le piazze, le strade erano legate per noi all’ubicazione delle sale cinematografiche. I Lungarni al Supercinema, piazza San Paolo all’Odeon, corso Vittorio al Cinema Italia, piazza Carrara al Cinema- Teatro Rossi, qui, a pochi passi dall’Università. Proprio al Rossi vedemmo Ladri di biciclette. Pioveva quel pomeriggio. Avevamo il viso bagnato di pioggia, ma anche di lacrime. “Lacrime estetiche!” ci scherzavano i nostri amici, commossi come noi.
Di De Sica ci affascinava la novità di linguaggio tra documento e finzione, la cruda tenerezza con cui ci parlava della tragedia del ladro di biciclette, mediata a sprazzi dall’innocente comicità del bambino e dal formicolio dei personaggi: un’umanità prima d’allora mai apparsa sullo schermo, un coro che cammina accanto ai due protagonisti, commenta, ironizza, piange con loro. Forme nuove per rappresentare la tragedia, non sulle tavole del palcoscenico, ma su quelle della realtà quotidiana, suggerendo, a suo modo e senza enfasi, l’urgenza di un rinnovamento sociale.
A Orson Welles, genio shakespeariano dalla violenta espressività cinematografica, così lontano dall’autore italiano, fu chiesto: “Il regista europeo che più ami?”. “De Sica” rispose senza esitazioni. Gli farà eco anni dopo Woody Allen: “il film della mia vita? Ladri di biciclette”.
Vedemmo e rivedemmo il film. Lo andavamo a cercare, in bicicletta, nelle sale dei paesini nei dintorni di Pisa. Volevamo appropriarci della sua verità nascosta. In quegli anni non esistevano i dvd. Decidemmo di riscrivere a memoria i dialoghi e i movimenti di macchina: era l’unico modo per far parte del lavoro di De Sica e di Zavattini, condividere le loro intuizioni. Quando confrontammo la nostra ricerca con una nuova visione del film, restammo spiazzati dalla poetica semplicità delle soluzioni, in contrasto con la nostra esagerazione, nel tentativo di riprodurre una sequenza di particolare suggestione emotiva. Ricordiamone una. Bruno, il figlio, ma più che figlio, l’amico dolce e brontolone del padre alla ricerca della bicicletta, è esausto. La giornata è stata lunga e senza risultato. Il padre si è allontanato. Gli occhi del bambino improvvisamente sono attratti da qualcosa che sta accadendo, qualcosa di insopportabile. Cosa vedono? Un ladro che sta rubando una bicicletta, i passanti lo inseguono, lo afferrano, lo picchiano. Quel ladro è suo padre. Un lungo, lunghissimo carrello corre intorno al primo piano di Bruno, la macchina da presa esalta così lo stupore straziato del bambino…Abbiamo detto un lungo carrello. Questo annotammo. No, il carrello è breve, brevissimo: la nostra commozione, nel ricordo, aveva dilatato il tempo dell’inquadratura. Fu una lezione di regia: studiammo con più cura la sequenza, la scansione delle inquadrature, le rime interne, l’inseguirsi delle emozioni, il loro montaggio, fino all’esplosione di quel carrello, di quel primo piano, con cui De Sica ha raggiunto il cuore degli spettatori di tutto il mondo, senza ricorrere a virtuosismi della macchina da presa. Con un carrello, sì, ma di pochi metri.
Molti giovani apprendisti di cinema ci
chiedono: voglio fare il regista, da dove
comincio? Aiutatemi, datemi un consiglio. È impossibile fornire ricette e non
siamo adatti a fare i maestri. Voi - ed
è una conquista, impensabile nei nostri
anni giovanili - i maestri li avete qui,
nell’Università e amano il cinema come
voi l’amate. Ma, ripensando alla nostra
esperienza, un suggerimento lo possiamo
offrire, uno fra tanti. Un possibile inizio.
Questo: scegliete tre o quattro film che
più amate. Vedeteli e rivedeteli. E rivedeteli
ancora: come ladri che spiano i movimenti
di una banca da derubare. A poco
a poco, ad ogni nuova visione scoprirete
alcuni segreti del vostro amato regista.
Non esitate ad abbandonarvi all’ammirazione:
è un sentimento umile e forte,
vi aiuterà a capire. Poi ricominciate tutto
da capo, disfacendo e rifacendo il già fatto.
Cercate in voi stessi. Noi chiediamo
di essere stupiti dal nuovo che la vostra
età vi porta in dote. Affronterete una
lunga fatica, appassionata quanto aspra.
Vi accorgerete che per realizzare un documentario,
un film, non basta essere
poeti, dovrete trasformarvi in uomini
d’affari, cercare i finanziamenti, usare
furbizia e menzogne, incontrare umiliazioni
e guai. Affrontateli senza vergogna.
Amerete questo mestiere, questo gioco,
perché fare spettacolo è anche gioco. Ci
dà la possibilità di continuare i giochi
dell’infanzia, ricchi di mistero e fantasia.
Noi due lo amiamo questo mestiere,
oggi, dopo tanti anni, forse più che ieri.
Fa soffrire, certo, ma ne vale la pena, per
vivere quegli attimi di felicità in cui si
vede nascere, dalle proprie mani, una
sequenza più coinvolgente, per audacia
e verità, di come era stata immaginata. E
siate pronti: non vi fate sorprendere dal
puntuale, inesorabile sentimento di relatività
che ogni regista avverte di fronte al
film finito. Ricordate il proverbio: non si
viaggia per arrivare, ma per viaggiare.
E per l’ultima volta torniamo qui, nella nostra Università. È l’alba di un giorno del 1953, in una delle aule che danno sul cortile. L’aula, trasformata in seggio elettorale, è gremita di gente eccitata ed esausta. Giovani staffette popolari corrono attraverso la città a portare nei vari seggi la notizia ancora non ufficiale: la legge elettorale voluta dal potere non è passata. Il tentativo autoritario di relegare la sinistra in un angolo è stato sconfitto. Una vittoria relativa certo, ma pur sempre una vittoria. Anche qui, in questo seggio, euforia. Uno di noi due è tra questa piccola folla, come rappresentante di lista del Partito Comunista.
E ora, dopo tre giorni corre finalmente fuori per portare la notizia. Bagnato da una pioggia fitta che lo rinfresca fin dentro le ossa, attraversa le vie deserte, ma che al suo orecchio risuonano delle voci di una comunità che veglia per salutare il nuovo giorno, come una conquista di libertà. Lui si sente parte di quel coro, di quella comunità, ed è felice. Ugualmente bagnato e felice gli va incontro suo fratello, che ha appena terminato lo stesso lavoro al suo seggio.
Ecco: abbiamo rievocato quell’alba del 1953, con l’impeto un po’ ingenuo di certi movimenti collettivi, perché così possiamo tornare a parlare di cinema, del nostro cinema, e del rapporto così spesso equivocato tra cinema e politica.
Noi, al di là delle teorie, vogliamo qui rendere testimonianza della nostra esperienza personale, che è già anomala alla sua partenza: è stato il cinema - e non viceversa - a portare noi due, di famiglia mazziniana ma pur sempre borghese, ad aprire lo sguardo sull’universo rosso e sul suo popolo. Sfidiamo il paradosso precisando che più che dai singoli film la spinta ci è venuta dalla forza misteriosa del loro linguaggio. D’altra parte, negli anni del nostro dopoguerra guerreggiato, era tutto un po’ paradossale. In quel clima succede che un giorno noi due, giovani come tanti altri, aperti ad ogni possibilità di nuovo, ci troviamo di fronte a una immagine come questa: su una grande distesa bianca di neve, sei cavalli dalle grandi criniere, ripresi ora in primo piano, ora in un carrello sempre più veloce - è la sequenza di un vecchio film muto - trasportano una barella su cui, circondato dai suoi compagni, sta morendo un combattente della rivoluzione: ha chiesto di essere sepolto nella sua terra che non rivede da anni. Il tempo è poco e i compagni incitano i cavalli: bisogna arrivare in tempo, muore un nostro eroe della rivoluzione. Correte, correte. Immagini di impronta realistica. Ma improvvisamente lo scarto: i cavalli parlano, rispondono. “Vi capiamo”. C’è nobiltà e consapevolezza, mentre le didascalie ripetono: “Vi capiamo, nostri padroni e fratelli”. La loro corsa si fa ancora più violenta: “Voliamo con tutte le forze delle nostre ventiquattro gambe”. Corrono perché la rivoluzione li chiama a onorare in morte un loro fratello. La sequenza si fa fantastica, folle, in nome di una commozione che unisce uomini e animali.
Un altro film, un’altra immagine: questa volta è un piccolo cavallo bianco, attaccato a una carretta che sta cercando disperatamente di attraversare il ponte apribile nel centro di Pietroburgo: una Pietroburgo squassata dalle ondate di rivolta e dalla brutalità della repressione. Non si può più passare, perché il ponte si è aperto e le due parti stanno salendo sempre più in alto. La carretta, staccatasi dal cavallo, scivola giù in acqua. Dall’alto scivolano giù uomini e cose. Solo il cavallo bianco, chissà come attaccato a una trave, rimane lassù, sulla parete a picco. Nelle strade intorno al ponte si ripetono le inquadrature di corpi umani che uccidono, vengono uccisi. A contrasto, più volte, in campo lungo riappare la tenera figura del cavallo bianco, solo sulla cima della parete deserta. Un’immagine tragica e assurda: anche questa è rivoluzione. Poi il cavallo precipita e scompare nell’acqua del fiume.
Un po’ sbalorditi ci interrogavamo sull’impeto che aveva potuto ispirare tanta forza fantastica nell’animo di giovani uomini che facevano i registi, in un sodalizio dove l’uno si riconosceva nell’altro: erano i figli della terra di Tolstoj e Dostoevskij. Dallo schermo ci arrivava, insieme alla conferma del linguaggio estremo del cinema, la testimonianza della forza dell’utopia che stava correndo nel mondo, l’utopia comunista.
Intanto i grandi film del neorealismo rendevano più impaziente il nostro bisogno di fare cinema e insieme sollecitavano la nostra responsabilità di cittadini: ci riconoscemmo nel popolo di sinistra. Non ci siamo mai nascosti però che questo empito giovanile poteva portare a una esaltazione acritica delle nostre scelte artistiche e politiche. Il cinema ci è venuto ancora incontro con Rossellini, proponendoci il limite, l’ambiguità della condizione umana. Molti di noi ricordano il finale di Paisà: da una parte i corpi dei partigiani con le mani legate dietro la schiena e la macchina da presa che sta accanto a loro mentre vengono gettati in acqua, e ogni tonfo è una ferita acustica; dall’altra il silenzio indifferente del paesaggio selvaggio della palude, che la macchina da presa stenta a riprendere in totale: cielo e terra si confondono all’orizzonte, il presente si dissolve nel passato. L’immensità della natura e l’ambiguità del tempo ridimensionano le vicende umane, anche queste evocate da Rossellini. Abbiamo voluto usare le parole alte che avrebbe potuto pronunciare un nostro maestro, grande e schivo. Abitava a pochi passi da qua in via Santa Maria. Siamo passati davanti alla sua casa, ieri. La casa di Sebastiano Timpanaro. Ci avevano colpito nel profondo il confronto, il contrasto che lui stabiliva tra i ritmi frenetici dell’uomo storico e il ritmo dell’uomo biologico, così lento da apparire inesistente. I due ritmi convivono in noi: qui forse una delle ragioni della fatica e del dolore del vivere.
Qualcuno ha detto che probabilmente anche per questo nei nostri film si scontrano due esigenze opposte ugualmente pressanti: la prima è la complicità con l’uomo, la fiducia e lo stupore per la sua creatività, nel bene e nel male, per il mistero e l’unicità di ogni destino individuale; e questo significa per noi che la macchina da presa sta addosso ai personaggi, ne fissa il volto, ne ascolta il respiro. L’altra esigenza nasce dalla consapevolezza della sua fragilità, della sua piccolezza nei confronti di una realtà più complessa e per molti versi sconosciuta, e questo significa cercare di ridimensionare visivamente i nostri personaggi, inquadrandoli in campi lunghi e lunghissimi.
Da queste contraddizioni e dalle molte altre che si consumano vivendo - noi crediamo - nascono le nostre storie. Ma nascono solo quando qualcosa di imponderabile, certe volte al di là della nostra volontà, accende quel motore segreto che si chiama “lo spirito del racconto” e che lascia che la fantasia si muova in libertà.
Per chiudere il discorso sui nostri cosiddetti “film politici” ci verrebbe voglia di rispondere scherzando: sono figli del caso. Lo scorrere della storia ha continuato a farci conoscere tragedie e resurrezioni; per noi due la tragedia più brutale perché più imprevedibile - vogliamo qui ricordarlo - fu la rivelazione del vero volto del socialismo reale, un volto di sangue. Ci sono voluti tempo e dolore per ricostruire dentro di noi un rapporto forte con il mondo, nella consapevolezza ora che in certi momenti della storia l’utopia può assumere i contorni di una beffa.
In anni relativamente più recenti abbiamo visto un certo tipo di politica assumere un ruolo privilegiato: il riferimento al 68 e oltre è d’obbligo. Soprattutto tra i giovani, il rapporto con la politica si era trasformato in fatto di conoscenza o scelta esistenziale, oggetto di desiderio, crescita interiore o imbarbarimento. Questa umanità si è mossa intorno a noi e ha chiesto di essere guardata, di essere raccontata. Abbiamo cercato di raccontarla. Con emozione: lo spirito del racconto si era acceso.
Ma come spesso succede, qui può nascere l’equivoco: i personaggi del film, le loro scelte politiche vengono identificate con le scelte degli autori stessi. Noi abbiamo ben radicata invece la coscienza della diversità dei due linguaggi: quello dell’arte e quello della politica. Sono contigui, certo, ma l’arte, fedele alla vita, è ambigua, mentre la politica, fedele a un mandato, se è ambigua tradisce se stessa. Per essere ancora più semplici, al di là dei contenuti di un film, è nel linguaggio dell’autore che si rivelano la sua visione del mondo, le sue scelte, la sua ambiguità e la sua innocenza. Si rivela il senso più segreto del film.
Abbiamo finito, ma prima vorremmo dire un’ultima cosa. Tornando a Pisa, qui nell’Università, abbiamo raccolto vecchi e nuovi pensieri: questo ritorno per noi, come sempre, è anche una partenza per nuove avventure, se la fortuna ci aiuterà. Molte avventure abbiamo vissuto perché molti sono i nostri anni - più di 150 in due - e molti, ora qui lo sentiamo con commozione, sono anche i volti, le persone che ci hanno accompagnato nel nostro cammino e che ora non sono più. Volti di famiglia, compagni di vita, amici, collaboratori umili o determinanti….
Ombre care, perché anche per loro, per le loro attese, la loro fiducia noi due ogni volta abbiamo lavorato e la loro complicità ci aiutava e ci confortava. Ora siamo più soli, com’è giusto alla nostra età, e proviamo malinconia. Ma quelle ombre - lo vogliamo credere - ci stanno qui intorno ed è come se sentissimo il loro bisbigliare. Alcune parole giungono sino a noi. Dicono: imparate a guardare le cose anche con gli occhi di chi non c’è più. Vi sembreranno più sacre e più belle.
Paolo e Vittorio Taviani