Homo instabilis
Una riflessione sulla sociologia della precarietà
A settembre è uscito il volume Homo Instabilis. Sociologia della precarietà, curato da Mario Aldo Toscano, direttore del dipartimento di Scienze sociali. Il testo, edito da Jaca Book, raccoglie una serie di ricerche, sia empiriche che teoriche, svolte nel quadro di un progetto di rilevante interesse nazionale, cofinanziato dal Mur e dalle Università di Pisa, Lecce e Palermo, volto all’analisi del tema del lavoro nel nostro paese e più in particolare delle varie forme di precarietà. Il professor Toscano ha approfondito l’argomento con Stefania Milella, che ha partecipato alla stesura del libro scrivendo un saggio.
Come spiega il professor Toscano,
coordinatore scientifico del progetto,
in una recente intervista:
“ci siamo ritrovati intorno ad una proposta
di ricerca che avesse come tema
la flessibilità e la precarietà declinata in
diverse maniere: nell’ambito del lavoro,
ma con variazioni tipiche delle diverse
unità di ricerca e convogliate verso un
progetto unico, come si vuole nell’ambito
di un Prin. Cosicché nel Salento, i
colleghi salentini si sono occupati della
flessibilità/precarietà nel mondo del lavoro
legato alle condizioni agricole e dei
servizi. Nel caso di Palermo il tema invece
è quello dell’inserimento nell’ambito
della precarietà dei lavori - ultraprecari e
ultraflessibili - assegnati agli immigrati e
ai cittadini provenienti dai paesi del cosiddetto
Terzo e Quarto Mondo, e abbiamo
costruito questi itinerario comune”.
“Homo Instabilis”, un voluminoso testo
di più di mille pagine in cui sono
raccolti i contributi di numerosi giovani
ricercatori dell’Università di Pisa, pone
al centro della riflessione il problema del
lavoro, nei suoi sviluppi odierni e nelle
sue molteplici forme di flessibilità e di
precarietà. Nell’indagine sono stati seguiti
diversi percorsi empirici e teorici
riguardo al tema della flessibilità, che è
stato analizzato in relazione a molteplici
contesti, tra cui: la scuola, l’Università,
l’ambito portuale, il settore del cuoio.
Si tratta di un tema di indubbia attualità,
anche se l’ipotesi di ricerca proviene da
stimoli lontani che si sono accumulati
nel tempo: “il tema della flessibilità-precarietà
è un tema che ha una sua
particolare e fondamentale attualità, ma
nello stesso tempo è un tema che ha, nel
contesto filosofico e sociologico della
modernità, una sua radicale rilevanza,
anche a prescindere dalla condizione attuale
con cui abbiamo discusso nel nostro
volume, riguardante il nostro paese.
Sotto questo punto di vista, le più remote
stimolazioni concettuali vengono da
un libro che ho scritto nel 1988: “Marx
e Weber. Strategie della possibilità”…
quindi, l’idea della precarietà e flessibilità,
in particolare quest’ultima, possono
essere declinate all’interno della questione
delle possibilità e delle progettualità
di vita”.
In quel lavoro veniva adottata un’idea positiva del concetto di flessibilità, che non era ancora del tutto collegabile all’idea di precarietà, e si legava piuttosto al concetto di possibilità all’interno del progetto di vita degli attori sociali: “la flessibilità può essere un valore positivo da inserire nella progettualità propria dell’esistenza di ciascuno di noi, la precarietà al contrario è un valore negativo della stessa flessibilità se si vuole che rende qualsiasi disegno di vita pressoché impossibile. La precarietà significa che siamo sottoposti ad una fluidità eccessiva, e le nostre mete sono continuamente discusse e ridiscusse tanto da diventare alla fine invisibili al nostro orizzonte…”.
Nell’orizzonte della ricerca, il tema della precarietà è stato collegato anche ad un’altra sollecitazione teorica proveniente dalla letteratura sulla modernità, ossia l’idea di fluidità, di liquidità e precarietà dell’esistenza, temi ricorrenti in autori come Bauman, Beck, Giddens.
Date queste premesse concettuali, nella ricerca il focus è posto sui fenomeni di flessibilità e di precarietà che investono oggi i diversi ambiti del mondo del lavoro nel nostro paese, tra cui lo stesso mondo accademico: “nella nostra esperienza immediata abbiamo continue espressioni della precarietà; in ambito universitario, tra l’altro, la precarietà dei giovani studiosi - che possono non essere davvero “giovani” - è eccezionalmente elevata”.
Nell’indagine non è stato assunto alcun
punto di vista pregiudiziale, lasciando alle
concrete analisi l’opportunità di esprimere
tutto il loro potenziale conoscitivo
e costituire pertanto fonti originali per
una riflessione aperta e non convenzionale.
Come spiega Toscano: “il tipo di
obiettivo che si intendeva perseguire era
quello di una conoscenza più approfondita
di questa tematica, con il rifiuto di
qualsiasi tipo di retorica, di ridondanza; tutti amano parlare della precarietà, ma
la precarietà è chiaro, ha delle espressioni
individuali, bisogna andare a vedere che
cosa noi possiamo cogliere da un punto
di vista propriamente sociologico”:
“abbiamo percorso una strada che non
molti sono riusciti a fare, anche perché è molto semplice parlare delle esperienze
personali di flessibilità e precarietà, e non
di porre in un quadro corretto i riferimenti
teorici ed empirici. Siamo riusciti
a porre una linea di lavoro convergente
e nello stesso tempo dotato di variazioni.
Credo che il progetto sia stato condotto
a conclusione nel migliore dei modi, e
non avrebbe potuto esserlo se non avesse
visto la partecipazione di molti giovani
studiosi che hanno condotto analisi
molto accurate nei settori di elezione.
Non sto qui a citare il nome dei giovani
studiosi che onorano l’Università di Pisa
e che purtroppo sono tra coloro i quali
soffrono della precarietà di cui ci siamo
occupati dal punto di vista dello studio
e della riflessione…”.
La ricerca, di cui il coordinatore sottolinea il carattere innovativo, è stata realizzata con particolare riferimento al contesto toscano, ma anche con una serie di elaborazioni che riguardano la tematica propria della flessibilità nel quadro della cultura del lavoro moderna e della precarietà come un prodotto sistemico di alcune particolari condizioni: “il nostro paese è noto per aver vissuto una stagione particolarmente ampia e lunga di lavoro fisso: il passaggio alla precarietà può essere effettivamente destabilizzante. Ma non parliamo soltanto del punto di vista soggettivo, anche dal punto di vista del sistema sociale in quanto tale; perché se è vero che la precarietà è sofferta dagli individui, gli effetti di medio periodo della precarietà sono effetti che si riversano su tutto il sistema sociale”.
Nella ricerca, ciò che resta fermo è il presupposto della centralità del lavoro anche in un’epoca che sembra far di tutto per ridurne il senso, minimizzarlo o dissolverlo. Per la generalità degli individui, al contrario, il lavoro continua ad essere una risorsa assolutamente imprescindibile e un traguardo da raggiungere per la realizzazione del proprio progetto di vita.
Ma anche il lavoro cambia; cambiano le modalità pratiche, cambiano gli stili, cambiano gli schemi, cambiano le relazioni. Il mondo del lavoro deve essere dunque storicizzato e reinterpretato alla luce di nuovi fattori che agiscono sulle situazioni globali e su quelle locali.
Centrale in questo mutevole e variegato paesaggio rimane il tema dei diritti, oggi in vario modo minacciati fino a mettere in serio pericolo l’intero sistema delle garanzie sociali che formano il patrimonio di civiltà più rappresentativo della cosiddetta modernità avanzata: “potremmo dire che la flessibilità è il destino delle economie moderne, ma le economie moderne che lascino degenerare nella precarietà la flessibilità iniziale sono destinate a subirne pesantemente le conseguenze negative. Che cosa comporta tutto questo? Comporta che, per avere un lavoro flessibile che non produca effetti disastrosi sia sulla persona sia sul sistema sociale, abbiamo bisogno di una serie di fattori di vantaggio sotto il profilo del cosiddetto “welfare state”, della politica sociale, ossia della cittadinanza. Dobbiamo rafforzare la cittadinanza, dobbiamo sentirci in primo luogo cittadini per poter perseguire un lavoro flessibile e finanche permetterci di poter essere senza lavoro per un cerco arco di tempo e alla ricerca di un nuovo lavoro, nella misura in cui queste soluzioni di continuità, queste fratture nel tempo di vita del soggetto, vengano colmate da una condizione che fa sentire il soggetto cittadino della sua comunità, e non un soggetto che in certo senso viene considerato di secondo livello per il fatto che è in corso una situazione di disoccupazione non voluta…”.
Nella ricerca è stata mantenuta una connessione fondamentale tra lavoro e condizioni di vita: “homo instabilis” rimanda alla nozione di un individuo che vive in un mondo denotato da elevata complessità e instabilità, nel quale anche il lavoro diventa instabile.
Nel passato il lavoro era massimamente stabile, e contribuiva alla “stabilizzazione” del soggetto, dei valori, del mondo; oggi, la precarietà rappresenta un fatto individuale e generale, un fatto “eminentemente sociologico”.
Allo stato attuale non è più possibile tornare all’utopia del posto fisso, ma nello stesso tempo è necessario che la precarietà venga ridotta, nel rispetto del valore fondamentale della dignità del lavoro: “la lezione fondamentale è che non si può tornare indietro verso il posto fisso, perché le economie moderne non lo permettono… ma il punto nodale è che la dignità del lavoro continua ad essere un valore enorme di cui sono portatori i lavoratori, e questo deve moltiplicare gli sforzi di una comunità che, mettendo in primo piano il lavoro, mette anche in primo piano il lavoratore… ciò significa che naturalmente la precarietà deve essere ridotta, e può essere fortemente ridotta nei suoi effetti negativi dalla presenza di una comunità vigile, che non perde mai i contatti con i suoi membri, e che riesce anche a programmare il reinserimento quando le condizioni contingenti obbligano a sospendere le attività o a rinunciare al lavoro in un determinato contesto”.
La sfida del lavoro odierno, attraversato dalle dinamiche della flessibilità spinta fino a degenerare nel precariato, impone dunque alla società un’assunzione di responsabilità, che non è possibile demandare alle capacità individuali e alle risposte del singolo: “a maggior ragione quando la minaccia dell’instabilità e della precarietà impone scatti di consapevolezza e risposte non divaganti date all’altro che incombe con le sue domande cruciali”.
“Homo instabilis, dunque; ma naturalmente incline alla stabilità che tutti gli esseri associano ad una vita degna”.
Stefania Milella
s.milella@adm.unipi.it