Cultura carceraria e sperimentazioni accademiche
L’anno scorso la casa editrice dell’Università, la PLUS, ha pubblicato il racconto “La domandina” all’interno del volume Scrivere di carcereche trae le sue radici, con stile letterario, da un’esperienza didattica svolta anni fa, quando il Polo universitario penitenziario era appena agli inizi. Nel frattempo quest’ultima attività si è consolidata, grazie soprattutto all’infaticabile lavoro del compianto Renzo Corticelli, in una direzione che tende principalmente a favorire lo studio universitario dei detenuti. Il professor Giuseppe Sica sviluppa la riflessione sul tema, sottolineando l’importanza di un approccio critico alla presenza dell’Università nel “pianeta carcere”.
La mia esperienza didattica e di ricerca nel campo della sociologia della devianza in particolare, mi ha dato più volte occasione di riflettere sui temi legati a questa disciplina. Vorrei perciò condividere la proposta per una più incisiva partecipazione dell’Università al cosiddetto “pianeta carcere”, possibile se, oltre all’organizzazione dello studio degli studenti detenuti e alla lodevole reiterazione di momenti accademici di incontro svolti dentro il carcere pisano, assumesse la responsabilità di una presenza scientifica e sperimentale, insomma critica. Ad esempio insistendo perché ai seminari svolti dentro il carcere possano partecipare anche studenti “liberi”, o altri interessati. E magari promuovendo iniziative “esterne” aperte anche ai detenuti.
Non dico questo perché desideroso di organizzare eventi, ma perché sono convinto, come cercherò di argomentare, della necessità sociale di aprire il carcere e di aprirsi al carcere. Si tratta di una vera e propria esigenza scientifica, apertamente destinata a contestare l’istituzionalizzazione carceraria e l’ideologia da cui muove. Come si sa, di carcere si muore. Perciò la presenza dell’Università nel carcere non può che assumere il ruolo di un incontro critico; culturale in senso alto: in grado di comunicare possibili aspirazioni di vera libertà.
Evidentemente per realizzare questi obbiettivi non basta sostenere lo studio di alcuni detenuti o aprire le porte del “Don Bosco” ai professori di buona volontà. Questo può essere solo un primo passo per innescare un processo di deistituzionalizzazione, che per sua natura ha bisogno di tempi lunghi. La generazione che li avvia non potrà mai vederne gli esiti 1. Ciò non toglie che si deve pur cominciare, come dimostra l’esperienza efficace, sebbene anch’essa non priva di ombre, di Basaglia e i suoi in campo manicomiale.
Sono lieto che alcuni studenti detenuti al “Don Bosco” abbiano ottenuto il titolo accademico per cui hanno studiato; probabilmente ora sono disoccupati come i loro colleghi universitari non detenuti. A differenza di questi ultimi, però, lo studio ha costituito una più incisiva esperienza di riscatto perché ha dato loro la possibilità di mettere a frutto capacità personali che hanno cominciato a farli uscire dal ciclo dell’esclusione che li aveva introdotti nel circuito carcerario. Mi chiedo tuttavia se la scuola (in termini più chiari: l’università) abbia saputo a sua volta cogliere l’occasione per imparare da questi studenti detenuti, dando loro la parola in modo effettivo e facendo sì che potessero valorizzare le loro risorse di creatività, dando insomma loro la consapevolezza di essere protagonisti di un’esperienza di riscatto istituzionale.
Giulio Salierno, scomparso due anni fa, 2 ha dimostrato con la sua vita e i suoi scritti quali fossero le necessità e le difficoltà di questo riscatto. Com’è noto, da ergastolano ha ricevuto la grazia dal Presidente Pertini ed è finito in cattedra come professore di Sociologia a Teramo, continuando da lì la sua battaglia contro il carcere. Ho avuto modo di collaborare con Salierno dal 1968.3 È anche venuto a Pisa e ha lavorato sostenendo la pubblicazione de La domandina. La sua ipotesi scientifica è diventata anche la nostra. Egli partiva dall’analisi del sistema carcerario per dimostrarne la sua inutilità, e anche la sua dannosità per il sistema economico sociale in cui conviveva e/o da cui è contenuto.
Abbiamo immaginato che l’uso del racconto e del teatro fossero uno strumento formidabile per entrare nel sistema carcerario, 4 insieme prenderne consapevolezza critica e cominciare a renderlo meno disumano. Evitando esiti riduttivi e contestando un ruolo meramente spettacolare del “teatro in carcere”- che pure può essere apprezzabile come dimostra l’esperienza volterrana - abbiamo avviato una sperimentazione nelle istituzioni totalizzanti che privilegia la consapevolezza del detenuto o ex detenuto coinvolto attraverso la pièce a ripercorrere la propria storia di vita.5 A Pisa abbiamo teso a mettere in contatto e in confronto studenti universitari detenuti e liberi.6 Abbiamo lavorato insieme dando vita ad una performance presso il Cinemateatro Lux.7 Si tratta di iniziative svolte in sintonia con l’allora delegato del Rettore per il Polo penitenziario, che hanno tuttavia proceduto su binari paralleli; inevitabilmente destinati a non toccarsi mai.
La nostra collaborazione con Giulio Salierno è continuata negli anni successivi, fino alla sua morte; e auspicabilmente proseguirà ancora attraverso l’istituzione di una Fondazione che vorrebbe raccoglierne l’eredità culturale e scientifica. Vorremmo dar vita a un centro multimediale sul sistema carcerario internazionale. Intanto a Roma è già stata costituita una biblioteca 8 in espressa continuità col lavoro svolto dall’Associazione Papillon, quale espressione partecipativa diretta di detenuti.
Esiste insomma una presenza complessa dell’Università di Pisa nel “pianeta carcere” che non si riduce al solo Polo penitenziaro, che pure emerge per la sua valenza istituzionale. Desidero dar voce attraverso le pagine di Athenet a questa esperienza meno conosciuta, col desiderio di avviare un tentativo di incontro tra la prospettiva istituzionale perseguita dal Polo penitenziario e quella scientifica e sperimentale che perseguo tra mille difficoltà. Ad esempio il libro Scrivere di Carcere, appena edito dalla Plus, non ha potuto giovarsi della richiesta collaborazione dei colleghi impegnati nel Polo penitenziario: probabilmente poco interessati ad avviare un confronto sul merito dei problemi della vita carceraria. Per parlar chiaro, ho l’impressione che prevalgano logiche pietistico caritative (per non dire assistenzialpunitive) esattamente funzionali al “pianeta carcere”. Questa possibile deriva fa correre il rischio di una prevalenza dei contenuti e dei metodi dell’istituzione carceraria sui contenuti e i metodi di quella universitaria. Del resto è difficile fare pulizia delle incrostazioni culturali che ci pervadono. I nostri pregiudizi fanno parte dei nostri processi decisionali ed è sempre complicato avviare uno sforzo autocritico.
La mia speranza è che in questo caso Athenet possa fungere da trampolino di lancio per discutere della presenza dell’Università nel pianeta carcere: in qualche aula, magna o non, vecchia o nuova, attivando comunque un processo di discussione che coinvolga la nostra comunità scientifica, del quale mi rendo disponibile sin d’ora volentieri quale promotore.
Giuseppe Sica
docente di Processi culturali e comunicativi
sica.giuseppe@epii-gn.org
Note al testo
- Dopo decine di anni, ancora, qualcuno dubita sulla sanità dell’apertura dei manicomi, come se fosse un fenomeno variabile solo dall’interno che, per i non addetti ai lavori, potrebbe essere decodificabile spettacolarmente citando il nome della rosa di Umberto Eco.
- Lunedì 27 Febbraio 2006.
- Cioè da quando fungeva da mio docente in un Seminario, sulle istituzioni totali, autogestito durante l’occupazione della Facoltà di Sociologia in Trento.
- Vedere Salierno G., 2004, La Gabbia: il carcere come metafora della violenza quotidiana, Sapere 2000, Roma, pp. 142.
- Stiamo proponendo il varo di un Laboratorio teatrale permanente per il gioco del sintomo nei sistemi carcerari http://www.epii-gn.org/ssati/Laboratorio/consuntivocascina.htm
- Per esempio con il Seminario diritti umani in carcere tra continuità e multiculturalismo c/o lo stesso carcere di Don Bosco in Pisa, Giovedì 13 Marzo 2003 dalle ore 11 alle 16.
- Quale prima sperimentale messa in scena di La Gabbia.
- 23/VI/06.