Di cosa va in cerca lo storico?
"Da nessuna parte, anima mia, si trova quel passato che ti è caro"
A gennaio l’Ateneo pisano, su proposta della facoltà di Lettere e filosofia, ha conferito la laurea specialistica honoris causa in Storia e
civiltà alla storica francese Christiane Klapisch-Zuber.
Studiosa dagli interessi più vari, che spaziano dalla storia economica alla storia
dell’arte, dagli studi demografici a quelli di genere, Klapisch-Zuber ha intrattenuto fin dagli anni giovanili un continuo rapporto di
collaborazione scientifica e umana con i ricercatori dell’Università di Pisa e della Scuola Normale.
In queste pagine proponiamo al
lettore la Lectio Magistralis, tenuta in occasione della cerimonia di conferimento della laurea, nella quale la studiosa ha ripercorso
le tappe salienti della sua avventura intellettuale.
È un grande onore che oggi ricevo dall’Università di Pisa: ringrazio, dal profondo del mio cuore, il Magnifico Rettore, il Preside della Facoltà di Lettere e filosofia, il Direttore della Scuola di Dottorato in Storia, e l’Università tutta. Potrò finalmente essere chiamata “Dottoressa Klapisch” e non più semplicemente “la Klapisch”. E per una francese, il cui paese, dopo la rivoluzione, non ama più le titolature, neppure quelle repubblicane, né gli appellativi che le accompagnano, potete credere che si tratta di un piacere tutto particolare.
Ma è soprattutto una grande gioia trovarmi qui tra amici e in una città che da lungo tempo mi ha aperto le sue porte e le sue istituzioni, il suo sapere e i suoi tesori, e forse anche il suo cuore.
È per l’appunto a Pisa e nei suoi dintorni che, all’inizio degli anni sessanta, ho compiuto le mie prime ricerche in archivio, luogo privilegiato degli storici. Fino ad allora avevo sì fatto ricerca nell’ambito dei progetti del Centre de recherches historiques della Sesta Sezione dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, dove ero entrata da poco. Ma queste ricerche, che per un anno furono dedicate alla storia economica dell’XI e XII secolo e per altri due anni ai villaggi abbandonati in Italia, si basavano su fonti a stampa. Non mi ero ancora mai trovata a combattere con i manoscritti medievali.
È merito di Ruggiero Romano se mi sono avventurata in quel giardino di delizie che sono gli archivi italiani. Nel 1963, mi propose come argomento di tesi la produzione del marmo a Carrara tra Medioevo e Rinascimento. Gli avevo chiesto di indirizzarmi verso una ricerca legata alla storia dell’arte italiana, per la quale nutrivo una passione segreta, fin dall’adolescenza. Ruggiero Romano, da buono storico dell’economia moderna, mi immaginò a contare i carichi di marmo, a calcolare pesi e misure, entrate e uscite. Temo di averlo deluso. Mi buttai coraggiosamente negli archivi dei porti di Livorno e Genova, ma ne restai a mia volta delusa. Ruggiero Romano credeva che lì avrei trovato molti libri di conto di artisti; in realtà le fonti furono un po’ avare, da questo punto di vista. Ma al di là dei tonnellaggi e delle navi da carico dei marmi, cosa avrei potuto scoprire?
Degli uomini, ovviamente, e più precisamente degli artisti, ma anche cavatori di marmo, tagliatori di pietra, vetturini, marinai, notai, e infine, a coronamento di tanti sforzi, i dirigenti dei grandi cantieri, i ricchi e notabili committenti di oggetti, decorazioni, sculture in marmo, che i traffici del commercio portuale rivelavano solo a fatica.... Ammetto che il panorama della ricerca, allargandosi a questi attori e a queste comparse della vita artistica, divenne ben più interessante che non il calcolo delle navi, delle carrate e delle tonnellate.
Ho dunque trascorso i miei primi anni di ricerca d’archivio, tra il 1963 e il 1968, a Pisa, a Massa e a Carrara, a Lucca e anche a Firenze. Pisa diventò la mia retrovia. Qui fui accolta da un gruppo di giovani storici della Normale e dell’Università, molto seri ma al tempo stesso allegri e vivaci. È impossibile ricordare tutti i nomi di coloro che mi procurarono alloggio, mi offrirono del buon vino e degli ottimi piatti di pasta, mi aiutarono nelle ricerche, mi mostrarono le meraviglie del luogo. Fu una vera e propria immersione in un’Italia che conoscevo solo attraverso i libri. Fu anche un po’ un ritorno alla vita studentesca che avevo lasciato da poco, ma in un clima di cordialità che mi era mancato a Parigi nel regime austero e pudìco dell’Ecole normale supérieure des jeunes filles.
In un certo senso oggi ritorno al mio punto di partenza: a Pisa. In un certo senso il cerchio si chiude. Una lunga divagazione mi ha tenuta lontana per decenni dalle mie prime ricerche sulla storia della produzione artistica, ma oggi altri interessi mi riconducono lì, al punto di partenza. Qualche parola sui percorsi di ricerca intermedi. Nel corso dei tre decenni 1970-1990 sono stata presa dalla storia demografica e dalla storia sociale. Ho per di più “tradito” Pisa per la “Dominante”, Firenze... Una lunga collaborazione con lo storico americano di Pisa e di Pistoia, David Herlihy, e l’utilizzazione di una fonte documentaria straordinaria, il catasto fiorentino del 1427, mi ha indotto a privilegiare, negli anni tra il 1966 e il 1978, le dimensioni quantitative e statistiche delle informazioni che quella fonte ci offriva. Contare, misurare, comparare tutto per arrivare a comprendere le strutture profonde della società del primo Rinascimento: se posso riassu mere in maniera grossolana, era questo il mio credo di quegli anni.
La digressione dalle mie prime ricerche proseguì negli anni successivi alla ricerca franco-americana sul catasto, allorché cominciai a interessarmi di storia della famiglia e della parentela, focalizzando l’attenzione su Firenze. Cercai a lungo di delinearne i caratteri attraverso la lettura dei numerosi libri privati lasciati dalle famiglie, che in Toscana rappresentano un insieme documentario di incredibile ricchezza. Questi “libri di famiglia”, sovente indicati col termine più restrittivo di “ricordanze”, mi fecero penetrare (almeno così credevo) nell’intimità del gruppo familiare. Difatti essi consentivano di andare oltre l’analisi delle strutture sociali e familiari dominanti, iniziata con lo studio del catasto, e di cogliere le relazioni intrattenute con l’entourage, la posizione dell’individuo nel gruppo della parentela allargata. Di più, i libri di famiglia permettevano di indagare le reazioni dei contemporanei di fronte agli eventi del ciclo di vita, e i significati che essi attribuivano al proprio agire.
Christiane Klaplisch-Zuber giā dalla tesi si č occupata di storia italiana, scrivendo un volume sulla produzione di marmo a Carrara tra Medioevo e Rinascimento. In questa immagine tratta dal libro I maestri del marmo, il disegno di un macchina di sollevamento del 1519.
Devo ammettere che questi studi mi posero in un’ottica meno quantitativa, perché meno fiduciosa nei grandi numeri, e anche più incerta: era infatti proprio un dubbio, magari suscitato da una situazione singolare, da un dettaglio atipico, o ancora da un lapsus linguae, a indurmi sovente a rimettere in questione gli schemi generali, le serie, i comportamenti medi, le aggregazioni attorno alle medie, ai quali ero stata fino allora fedele. Certo, i libri di famiglia, distribuiti lungo l’arco di due buoni secoli, si prestavano anch’essi all’osservazione dei mutamenti e delle tendenze di lunga durata, per esempio nel caso dei rituali del matrimonio o della nascita, della scolarizzazione dei bambini, degli scambi di doni; non c’è dubbio che essi offrivano un’occasione unica per calcolare con precisione i comportamenti demografici delle famiglie della borghesia fiorentina che scrivevano le proprie ricordanze. Mi pareva tuttavia che le realtà del passato potessero essere meglio illuminate, più che dal numero dei fatti, dai discorsi che i loro attori sviluppavano intorno a quei fatti, o dal silenzio che avvolgeva un problema, una situazione difficile di cui non si poteva parlare neppure nel segreto di uno studio, dove il padre di famiglia era solito scrivere e mettere in ordine i propri libri.
Molti di questi silenzi riguardavano le
donne della casa o della famiglia allargata.
In genere la loro apparizione sotto la
penna dello scrittore avveniva in occasione
dei rituali familiari cui ho accennato
poco fa. Ma era proprio la ritualizzazione
delle relazioni tra uomini e donne a permettere
ai redattori dei libri di famiglia di
non parlare degli argomenti più delicati
o dei punti di frizione inevitabili in una
società che alle donne non lasciava quasi
nessun spazio sulla scena pubblica e le
teneva a distanza dalla produzione culturale
e dalla vita commerciale. I comportamenti
femminili giudicati trasgressivi
venivano descritti con parole allusive,
talvolta del tutto elusi, al fine di non
minacciare l’onore degli uomini, e il loro
ruolo nella città. Si possono interpretare
questi silenzi come pudore, che obbliga
a tacere nei momenti difficili.
Nessuna
fonte dice tutto: le ricordanze, non diversamente
da altre fonti, nascondono
altrettanto di quel che rivelano, e sovente
è proprio perché tacciono o cancellano
che attirano di più la nostra attenzione.
Ma le dimenticanze o le omissioni
rispondevano anche a una strategia, al
calcolo degli interessi dominanti, che
erano prevalentemente maschili.
In effetti, i libri di famiglia aprivano
delle prospettive di ricerca sulle relazioni
di genere a Firenze. Le mie ricerche
sulla società fiorentina e sulla massa di
documenti che aveva lasciato traevano
impulso non solo dalla lunga tradizione
francese di storia della famiglia, demografia
storica e antropologia storica, ma
anche dalla storia delle donne e dagli
studi di genere che cominciavano a diffondersi
in Europa. Non mi sono mai
considerata una “specialista” della storia
delle donne e degli studi di genere; la
scelta dei miei temi di ricerca non è stata
guidata dall’ambizione prioritaria di dare
un contributo a questo tipo di studi.
Tuttavia, che fosse per coscienza femminista
della posizione delle donne nelle società di oggi o del passato, o che fosse
per curiosità verso gli enigmi posti dalle
tracce documentarie del passato, sta di
fatto che mi sono rapidamente persuasa
che gli storici si amputavano di una
chiave di comprensione indispensabile
quando pensavano di poter fare a meno
del concetto di genere nella loro analisi
dei fenomeni storici.
Il lavoro su questi temi che a Parigi ho condiviso con storiche, sociologhe e antropologhe mi fece accettare con entusiasmo (e devo ammettere, con una certa incoscienza dei rischi e dei limiti dell’impresa) il progetto della casa editrice Laterza di tentare- eravamo alla fine degli anni ottanta- una prima sintesi della storia delle donne in Europa. Si è trattato di una collaborazione tra storiche di periodi, nazionalità e orientamenti scientifici e politici i più diversi e di una collaborazione con editori eccezionali, che ha profondamente segnato coloro che vi hanno preso parte.
Tra i “discorsi” tenuti dai notabili fiorentini
della fine del Medioevo che attiravano
la mia attenzione, mi era capitato
di incontrare anche delle immagini; immagini
a se stanti o riferite a degli oggetti
che affollavano le case dei notabili
e venivano contemplati e manipolati da
loro e dai membri meno eloquenti della
famiglia: le donne, i bambini, i servitori.
Per l’uso che ne veniva fatto, per
i discorsi che suscitavano o che ad esse
si riferivano, queste immagini mi apparivano
rivelatrici, al pari se non più di
altre fonti documentarie.
Oggi noi consideriamo
opere d’arte e collochiamo nei
musei oggetti che nel passato abitavano
i luoghi domestici ed erano considerati
di uso comune, indipendentemente dal
loro significato sacro o dalla loro pretesa
estetica.
Queste immagini, situate quotidianamente
sotto gli occhi della famiglia,
donne e bambini compresi, potevano
essere interpretate o reinterpretate
alla luce dello specifico contesto storico
e sociale che i libri di famiglia avevano
rivelato. Con grande piacere e interesse
ho dunque preso nuovamente in esame
oggetti come i cassoni nuziali, o i deschi
da parto ricevuti alla nascita di un bambino,
o le statuette del Bambin Gesù e le
sante bambole che compaiono nelle doti
di spose laiche o di religiose: questo “arredo”
domestico acquisiva significato non
solo, come comunemente si pensava, in
relazione alle diatribe di un predicatore
come Savonarola o di un teologo come
sant’Antonino, oppure a confronto con le opere d’arte dei maggiori artisti, come
Desiderio da Settignano, di cui non potevano
che essere una forma in qualche
modo degradata.
Gli atti notarili e le
scritture private, che precisavano i trasferimenti
di questi oggetti da una famiglia
all’altra e la loro utilizzazione familiare,
restituivano loro una vita propria.
L’analisi dei legami e delle preferenze
affettive, delle relazioni e delle solidarietà
decifrabili nei libri di famiglia metteva
in luce alcune strutture profonde
della parentela e i modi di esprimerle.
La gente del Medioevo era appassionata
non solo di genealogie, ma anche di
schemi e grafici. Da tempo si utilizzava
un semplicissimo repertorio di segni grafici
per far capire visivamente, con un
solo colpo d’occhio, o per analizzare in
profondità gerarchie e concatenamenti
di eventi, idee e concetti. Il mondo della
parentela, con le sue ramificazioni e
suddivisioni, si prestava particolarmente
a questo tipo di rappresentazione. Me ne
sono resa conto studiando qualche schema
di genealogie fiorentine del XIV e
XV secolo. Rimasi colpita dal carattere
sistematico delle loro scelte e delle loro
omissioni. Analizzandole bene, si scopre
che i Fiorentini operavano una selezione
dei dati genealogici e li inserivano nei
loro schemi sbandierando chiaramente
le loro preferenze: preferenze per il sistema
di filiazione e successione dei beni
patrilineare, per la rappresentazione discreta
se non nulla delle donne, e per la
rappresentazione delle discendenze dei
lignaggi per fratrie di individui uguali.
Cercai allora al di fuori della Toscana
i criteri alla base delle rappresentazioni
genealogiche della stessa epoca, e a piccoli
passi arrivai a concludere una lunga
indagine, nel tempo e nello spazio, sulla
storia e la geografia delle immagini genealogiche
nell’Europa del Medioevo e
del Rinascimento. Scoprii come, e cercai
di capire perché, questo periodo aveva
arricchito i suoi schemi austeri integrandoli
con una figura chiave del suo immaginario:
l’albero.
Il va e vieni fra le rappresentazioni figurate della parentela- dagli schemi più aridi alle immagini più ricche di invenzioni visuali- e i discorsi esplicativi dei loro princìpi informatori non erano l’aspetto meno interessante di questa storia millenaria. E qui, mi sono di nuovo sorpresa a meditare con più piacere davanti a uno schema o a un’immagine genealogica che davanti a un testo scritto quale una lista d’antenati riportata da qualche cronista o storico di famiglia. Mi è parso che il disegno, la figura schematica o ornata, dovessero essere letti nel loro peculiare linguaggio, un linguaggio che può suggerire, con i suoi vuoti, le sue elisioni e i suoi legami, delle cose che il testo non può o non vuole dire.
Oltre alle manipolazioni delle genealogie concrete, che generalmente pretendevano di corroborare o demolire la linea di successione o la leggenda fondatrice di una dinastia, le immagini genealogiche mi sono sembrate un magnifico terreno in cui studiare le concezioni medievali e rinascimentali del tempo e della storia.
Le figure delle genealogie di Cristo, per esempio, caratterizzate dall’attesa escatologica, dalla preparazione alla fine dei tempi, hanno tuttavia subìto un’evoluzione fra il decimo e il diciottesimo secolo: dai diagrammi alquanto indifferenti alla coerenza del vocabolario grafico tipici dell’epoca carolingia, e dalle rappresentazioni segmentate dello svolgimento temporale, a delle immagini dotate, a partire dal Duecento, di una chiarezza magnifica e di una logica grafica senza difetti; ciò che rivela che allora i chierici e le élites laiche prendevano coscienza del fatto che la storia sacra e la storia umana sono inseparabili e che la seconda è il prolungamento necessario della prima. In effetti, è da questo momento che la storiografia comincia a fondarsi sulla genealogia, e che, per esempio, i prìncipi d’Europa rivendicano origini non solo troiane ma anche bibliche. Le immagini genealogiche delle casate principesche e regie che si moltiplicano da quella data devono dunque essere considerate nel loro contesto cristiano e sacrale.
In seguito, il mio interesse per la coscienza
di sé nutrita dalle famiglie medievali,
rivelata da fenomeni vari, quali
le forme dei nomi e cognomi, i rituali
domestici, la genealogia e la memoria
familiare, mi ha spinto a dedicarmi a
un’altra lunga ricerca di storia sociale e
politica, da cui erano per una volta assenti
il privato, l’intimità domestica, le
donne e le immagini. Essa ha riguardato
un gruppo dell’aristocrazia cittadina e
rurale, politicamente emarginato nella
Firenze del Tre e Quattrocento, che veniva
allora designato e anzi stigmatizzato
come quello dei “magnati”.
Partendo da
un fatto particolare ma illuminante- i
loro cambiamenti di nome al momento
del reintegro nella comunità politica- ho
percorso un campo che mi era ancora
relativamente sconosciuto: l’ambito del politico, nelle sue diverse componenti,
quali le strutture del potere, l’organizzazione
delle competenze giurisdizionali,
l’uso di categorie discriminatorie o integratrici,
ma anche le speranze, i comportamenti,
i progetti dei cittadini desiderosi
d’impegnarsi appieno negli affari
pubblici. In tempi come i nostri, che
troppo spesso favoriscono, nel migliore
dei casi, l’ignoranza reciproca fra “civiltà”,
e nel peggiore l’insulto, il rifiuto e la
rabbia assassina, non è stata- credo- una
forma di fuga dalla realtà la scelta d’interessarsi
alle dinamiche dell’esclusione e
della marginalizzazione operanti in una
società del passato.
Attualmente, è un altro gruppo sociale che ho cominciato a studiare, almeno in alcune sue caratteristiche correlate alla parentela. Gli artisti hanno avuto un ruolo pressoché nullo nella vita politica dei Comuni italiani, ma il loro influsso sul nostro immaginario è stato lungo e cospicuo. Mi pare che l’analisi delle linee di filiazione e di trasmissione, materiale e artistica, descritte da Vasari per il mondo degli artisti fra Trecento e Cinquecento offra l’occasione di tornare sulla dimensione “spirituale” (nel senso cristiano) della parentela, un tema spesso evocato da quell’autore. E così, dopo ampie deviazioni per la storia della famiglia, delle donne, della parentela, e delle rappresentazioni figurate e dell’impatto politico di quest’ultima, eccomi tornata agli uomini- ben poche donne anche qui!- che attirarono la mia attenzione ai miei esordi.
Non so ancora quanto mi addentrerò nel puro regno delle immagini. Medito comunque di farlo per uno studio di più ampia portata su un tema iconografico, quello del Calvario, che certo pone interrogativi sui rapporti fra testo e immagine, tradizione e innovazione iconografica, committenza e libertà dell’artista; ma rinvia anche ad aspetti più propriamente storici. Infatti esso riguarda il posto del soggetto religioso nei contesti politici del Rinascimento, in specie quanto all’evoluzione delle pratiche giudiziarie, e investe il problema delle attese del pubblico dei fedeli e degli insegnamenti che gli si volevano impartire attraverso le immagini.
Mi perdonerete di aver parlato così a lungo di me stessa, spero- fra l’altro- senza cadere troppo nell’autocompiacimento. Per concludere, aggiungerò qualche notazione che va al di là del mio percorso personale.
Perché, direte forse, dov’è lo spirito unificatore di questo guazzabuglio di ricerche diverse? Queste deviazioni errabonde hanno, almeno per me, un senso? Ho messo le mie riflessioni sotto l’insegna di quel verso di Lucrezio che illustra la ricerca impossibile dello storico, quando cerca nel tempo, nello spazio, o nella propria coscienza un punto d’appoggio al quale fissare con sicurezza il proprio oggetto: “Da nessuna parte, anima mia, da nessuna parte, si trova il passato che ti è caro”. Quel passato che non chiama a raccolta altri che dei morti, dei fantasmi, trattati dallo storico come se fossero degli esseri viventi… Quel passato che nessuna immagine, nessun documento, nessuna traccia materiale saprebbe circoscrivere o contenere nella sua impossibile totalità… Quel passato che lo storico ricostruisce alla luce d’interessi e anche di passioni molto attuali… Cosa cerca dunque lo storico quando tenta di richiamare in vita il passato?
La fase della lizzatura in una immagine tratta dal libro I maestri del marmo.
Ci si può domandare se la ragione di tale ricerca sia da individuare nel piacere della ricerca stessa, il piacere fin troppo egoistico della degustazione antiquariale del passato, che per altro gli stessi storici raramente osano invocare come giustificazione del loro lavoro. Non sorridete, studiosi di altre discipline, del fatto che il vostro collega storico trovi la sua felicità nella decifrazione degli sgorbi tracciati tanto tempo fa su di un manoscritto ormai consumato; che si diverta a mettere sottosopra vecchi archivi polverosi; che si commuova nel raccogliere qualche granello di sabbia con cui uno scrivano, forse al tempo della Peste Nera, asciugò il suo inchiostro; e che s’incanti davanti a una caricatura, un ghirigoro, un fantastico disegno animalesco che una volta aiutò un compunto notaio a sopportare la noia che lo assaliva nell’atto di verbalizzare una seduta di governo, o di copiare un dotto trattato di scienza. La ricerca è fatta anche di questi piaceri minuti. Ma bisogna confessarlo: lo storico arriva a gioire soprattutto quando, frugando fra i mazzi delle vecchie carte, s’imbatte nel documento inatteso, o troppo a lungo atteso.
Queste felicità, anche minuscole, sono un aspetto della ricerca storica che non si deve prendere alla leggera! Ma- diciamolo seriamente- pongono pure il problema della costituzione dei “fatti” storici e della natura del lavoro dello storico, con le importanti domande che ne conseguono. Innanzi tutto, se il passato di cui egli va alla caccia risieda nel suo stesso apparato di documentazione, cioè in un luogo lucrezianamente da lui stesso definito, e da dove pretenderebbe di poter disseppellire delle particelle significative di vita vissuta. E poi, se in quel luogo lo storico, aggiungendo senza tregua il tassello mancante all’una o all’altra delle sue serie di fonti, al suo racconto degli avvenimenti, alla sua ricostruzione di una biografia, oppure scoprendo il documento contenente la spiegazione convincente e definitiva di un problema, possa non solo placare la sua sete personale di conoscenza e alimentare un dialogo fecondo coi suoi simili, ma anche finalmente dimostrare addirittura la sua utilità sociale.
Vale la pena, infatti, domandarsi se il nostro storico cerchi di dialogare coi suoi predecessori o i suoi contemporanei, sull’esempio dei filosofi che intrattengono attraverso i secoli una conversazione senza fine. Ma rari sono gli storici che sappiano riprendere il gioco impostato da altri. I dialoghi fra storici si riducono spesso ad aggiungere una pietra a un edificio più antico, senza metterne in discussione le fondamenta; essi sono spesso frammentari, parziali ed effimeri.
Non si può neppure dire che il luogo dello storico, se non si trova né nelle tracce del passato né nei dibattiti che egli suscita, risieda nei modelli epistemologici che egli costruisce. I lavori degli storici sono infatti di tipo cumulativo e, per loro natura, se non incompiuti, almeno non definitivi. Bisogna forse rassegnarsi al fatto che il passato ricostruito dagli storici si profili, non senza fatica, attraverso le loro approssimazioni successive, la molteplicità dei loro possibili approcci. Oggi gli storici hanno rinunciato a racchiudere il passato entro schemi interpretativi forti, entro modelli indiscutibili: sentono infatti che se pretendessero d’imporre schemi e modelli, i loro edifici cadrebbero troppo presto sotto i colpi della critica e anche semplicemente del tempo.
E allora, di cosa va in cerca lo storico?
E quali sono gli aspetti salienti del suo
lavoro e i risultati dei suoi sforzi?
Non
sarebbe difficile- ammettiamolo- descriverne
alcuni in termini limitativi e perfino
negativi: la vana rincorsa di ombre
lontane, che non hanno più nulla da
dirci sul nostro mondo; la lotta inutile
contro l’impossibilità di una spiegazione
ultima delle cose; la fatica di Sisifo
nello sforzarsi di illuminare momentaneamente
qualche raro punto in una
massa di oscurità; l’esercizio disinteressato
ma elitario di una curiosità intellettuale
priva di ogni verificabile effetto
positivo sulla condizione degli uomini
nel mondo; e addirittura, il gusto di una
professione divertente per i suoi adepti,
ma costosa, benché meno di altre, per le
finanze pubbliche degli Stati.
Non si può negare che nella ricerca
storica ci siano anche tali componenti.
Eppure, dobbiamo porci una semplice
domanda, più forte di tutti questi dubbi
e di tutte queste obiezioni: possiamo
davvero vivere senza il nostro passato?
Lascio decidere a voi se quel passato “che
ci è caro” non risieda prima di tutto nel
nostro bisogno esistenziale, ineliminabile,
di continuità e di trasmissione. Senza
di esse, la nostra coscienza rischierebbe
di ridursi a qualcosa di simile a un arido
deserto.
Christiane Klapisch-Zuber