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La nuova centralitā del cibo

Durante gli ultimi due anni il settore agro–alimentare è stato colpito da uno shock di proporzioni gigantesche. I prezzi dei prodotti alimentari di base sono piÙ che raddoppiati, e il numero di persone sottonutrite è aumentato a dismisura, creando anche fortissime tensioni sociali in molte parti del mondo. La crisi è diventata uno dei punti principali dell’agenda politica globale e ha richiamato a un forte impegno sia nel breve periodo – per mitigarne l’impatto – che nel medio e lungo periodo – per andare alle sue cause. Il dibattito che ne è scaturito ha fortemente allargato i propri confini, uscendo dai ristretti ambiti settoriali che lo avevano caratterizzato in precedenza. In particolare, è emersa con forza la necessità di dare al concetto di “sicurezza alimentare” – che fino a poco tempo fa si riteneva che per il Sud significasse “sicurezza di mangiare” e per il Nord “sicurezza nel mangiare” – un significato coerente per tutti i contesti. È oggi maggiore la consapevolezza che al Nord gruppi sempre più consistenti di cittadini stentano a procurarsi il cibo sufficiente per qualità e quantità a mantenersi in salute, mentre al Sud si manifesta un’adesione crescente a modelli alimentari, importati dall’Occidente, che come da noi sono causa di disfunzioni e di degrado ambientale.

Oggi sappiamo che la sicurezza alimentare, al Sud come al Nord, è legata non solo alla disponibilità di cibo, ma anche alla capacità di accesso al cibo da parte di individui e gruppi sociali, e dunque al reddito, alle modalità di distribuzione che, ad esempio, rendono molto oneroso fare la spesa se non si ha un’auto.

Di fronte alla crisi energetica diventa inoltre fondamentale l’attenzione alla continuità dei sistemi di approvvigionamento. I processi di produzione, distribuzione e consumo di cibo sono oggi largamente dipendenti dal petrolio, dal commercio a lunga distanza, da una stretta interdipendenza tra soggetti su scala globale: cosa succederebbe se il petrolio venisse a mancare? Quali ripercussioni produrrebbero sulla continuità degli approvvigionamenti?

Le politiche alimentari riguardano dunque non solo l’agricoltura, ma la salute, l’ambiente, l’energia, sebbene esistano approcci molto differenti sul modo in cui queste politiche potrebbero essere integrate.

Durante tutto il XX secolo gli approcci al cibo sono stati dominati dal paradigma produttivista, secondo il quale il rapporto tra cibo e salute è legato fondamentalmente all’abbondanza. In questo paradigma non c’è spazio per i problemi ambientali, negati o ritenuti secondari. Secondo questo paradigma, la chiave di tutto sta nel produrre di più.

L’evidenza empirica accumulatasi negli anni ha sollecitato tutti ad una riflessione sul rapporto tra cibo e salute. Sistemi alimentari industrializzati e globalizzati sono andati fuori controllo per periodi più o meno lunghi a causa della comparsa di cibo avariato, inquinato o proveniente da animali malati, costringendo le autorità a correre ai ripari e a mettere in atto giganteschi e costosi sistemi di controllo, spesso aggirati.

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La mostra fotografica Twelve, uno sguardo tra i popoli del mondo a mezzogiorno e dintorni

Comportamenti alimentari errati, ma ormai largamente diffusi socialmente, promossi dall’alleanza tra industria, distribuzione e ricerca scientifica, sono alla radice di quelle che vengono oggi considerate vere e proprie malattie sociali, come mostra il dato secondo cui nel mondo gli obesi hanno superato come numero coloro che dispongono di insufficienti quantità di cibo.

La crescente preoccupazione per questi aspetti ha indotto alcuni osservatori normalmente fiduciosi nelle forze di mercato, come l’Economist, a osservare che “qualcosa è sbagliato nel sistema”. Questa crescente preoccupazione, condivisa anche da un crescente numero di consumatori, ha stimolato l’emergere di approcci differenti che cercano di superare la rozzezza dell’approccio produttivistico e cercano di riconquistare la fiducia dei consumatori nel sistema.

Il primo dei nuovi approcci, basato sulle cosiddette “scienze della vita”, considera l’ambiente e la salute come opportunità di mercato per l’industria alimentare. L’esempio del grande successo dei cibi funzionali, che introducono negli alimenti sostanze dotate di proprietà terapeutiche, è quello che meglio esprime questo approccio, ma sono già pronte soluzioni legate alla nutrigenomica, che promette diete calibrate sul corredo genetico del consumatore, e alle nanotecnologie, che consentono di sognare “confezioni intelligenti” che segnalano il deterioramento dei cibi e persino di “cibi intelligenti” in grado di diagnosticare le carenze del consumatore e rilasciare selettivamente le sostanze nutritive di cui ha bisogno. Questo approccio considera la nutrizione un’attività prevalentemente individuale, gestita da un consumatore autonomo e informato, mediata dal mercato. Di fronte ai pericoli di abitudini alimentari errate, questo approccio si sofferma più sulla cura che sulla prevenzione, mentre di fronte ai rischi legati all’igiene e alla sanità degli alimenti propone rigidi sistemi di controllo fortemente sostenuti dalla tecnologia. L’agricoltura, in questa ottica, diventa un puro produttore di materie prime per l’industria. In quanto tale, l’agricoltore di successo è quello che riesce ad adeguarsi con prontezza alle norme dettate dall’industria e dalla grande distribuzione, grazie in particolare alle nuove bio–nano–info–tecnologie.

Basandosi su questo approccio, la strategia di comunicazione nei confronti dei consumatori–cittadini da parte delle grandi corporation alimentari ha puntato negli ultimi anni a far leva su valori ormai largamente condivisi, come la salute, la qualità, l’ambiente, la solidarietà nei confronti dei poveri, mostrando come la tecnologia e la responsabilità sociale delle imprese possano coniugare profitti ed etica. Sono significativi sotto questo profilo gli esempi dei “Danone Grameen Foods” nati da un’iniziativa del fondatore del concetto di microcredito, il premio Nobel Muhammad Yunus, che consiste nel produrre in Bangladesh yogurt arricchito di microelementi importanti per la nutrizione, destinato ai bambini, a un prezzo adeguato al potere di acquisto delle famiglie a basso reddito, che contribuiscono al successo dell’iniziativa attraverso vendite porte a porta effettuate da persone in seno alla comunità stessa. Un analogo progetto è quello della Nestlè in Brasile.

Oltre ai notevoli consensi, in genere volti a dimostrare che profitto e obiettivi umanitari possono coincidere, questo approccio ha sollevato notevoli critiche, la più importante delle quali è che queste iniziative rendono le comunità locali dipendenti dalle corporation non solo per quello che riguarda l’accesso al cibo, ma anche per quello che riguarda l’adozione di stili e culture alimentari lontane da quelle locali. Inoltre, il sospetto che l’obiettivo del profitto prevalga sull’impegno a sradicare la povertà è forte.

Nell’approccio opposto al precedente, che Tim Lang (2004) chiama “salute dell’ambiente e dell’uomo”, la nutrizione è considerata fondamentalmente un’attività sociale. Gli stili di consumo non sono puramente individuali, ma sono il frutto di una mediazione dell’individuo con l’ambiente socio–tecnico in cui vive. Le decisioni quotidiane di ciascuno di noi (dove e cosa comprare, cosa e quanto mangiare, quando e con chi mangiare) dipendono da un complesso intreccio di flussi di informazione, valori, legami sociali, possibilità e vincoli fisici, tecnologia: se ho l’auto e il frigo posso andare al supermercato e conservare cibo fresco o congelato, se non guido dovrò limitarmi a cibo confezionato e a lunga conservazione.

L’idea di fondo di questo approccio è che una nutrizione equilibrata richiede un rapporto equilibrato tra cibo, natura e società, che si può ottenere solo grazie a un appropriato sistema di regole e a un forte protagonismo della società civile e delle amministrazioni pubbliche. Il rapporto tra cibo e salute è affidato al principio della prevenzione, più che della cura, e quello tra cibo e ambiente a un rapporto più stretto tra produttori e consumatori, se non addirittura a quello che Carlo Petrini chiama rapporto di co–produzione. La formazione delle regole, più che su un ristretto nucleo di specialisti, è basata sulla partecipazione e sulla pluralità delle voci interessate. Piuttosto che accettare il sistema di regole dato e affidarsi alla scienza e all’industria, questo approccio ritiene fondamentale agire sul cambiamento sociale attraverso i valori, l’educazione, l’informazione, e fa leva su risorse esterne al mercato, come le tradizioni locali, per rafforzare la libertà di scelta degli individui e delle comunità. Io ritengo che questo secondo approccio sia quello più valido. Nel contatto diretto con il contadino, il consumatore può apprendere la stagionalità dei prodotti, le regole per fare prodotti di qualità, le difficoltà del rapporto con la natura, la limitatezza delle risorse. Sapendo quanti chilometri percorre il cibo (e quanto petrolio consuma), il consumatore può fare scelte che riducono l’impatto ambientale del consumo. La consapevolezza di quello che è il consumo sufficiente a una sana nutrizione può ridurre in modo consistente i consumi migliorando la salute e l’ambiente.

Il successo di questo approccio dipende dallo sviluppo nella vita pubblica del profilo del cittadino–consumatore, un soggetto che nell’atto del consumo percepisce il dovere della responsabilità nei confronti dell’interesse pubblico. Il cittadino-consumatore può orientare in modo decisivo la formazione delle regole del cibo e dunque i modi di produzione, distribuzione e consumo, anche attraverso la propria attività di consumo. Interrogandosi sulla coerenza tra principi e comportamenti cerca di rimuovere gli ostacoli che la limitano. Perché il cibo sia buono da mangiare, deve essere anche buono da pensare.

Gianluca Brunori
professore di economia ed estimo rurale
gbrunori@agr.unipi.it