Sinfonia gastronomica
Sinfonia Gastronomicaè il titolo di un volume realizzato da me e Ileana Mattion nel 2006 per Viennepierre edizioni. Entrambi attivi sul piano professionale in campo musicale, entrambi amanti della buona tavola, abbiamo pensato di cercare le relazioni possibili fra la cucina e la musica, non dimenticando neppure il terzo importante piacere della vita, ovvero l’eros. Dalla nostra indagine è scaturito un viaggio fra fornelli e note che abbiamo “organizzato” immaginandolo come una grande sinfonia (insieme di suoni e di ricette), in più tempi, con un respiro “mahleriano”. Un Adagio iniziale (una sorta di introduzione alle tematiche del libro); poi “Allegro con moto” (Dal banchetto greco ai moderni fast–food: un viaggio nei luoghi della musica e della cucina), “Andante con variazioni” (la librettistica e la cucina), “Scherzo” (Musicisti a tavola), “Rondò vivace” (un invito a cena con ricette di epoche diverse e un appropriato abbinamento musicale) e, infine, un “Adagio finale” (un pensiero di Rossini). Il libro, finalista al “Bancarella cucina” 2007, è stato recentemente tradotto in spagnolo e in russo. Dal libro è stato tratto il testo dello spettacolo presentato al Teatro Verdi di Pisa con la cantante Silvia Regazzo e il pianista Claudio Proietti..
Si propongono qui di seguito uno stralcio dal terzo capitolo “Dal Rinascimento al Barocco” e alcune curiosità in brevi box.
I grandi banchetti
Il Quattrocento fu il secolo dell’esplosione dell’imponente polifonia fiamminga. Le sorprendenti architetture visive si riflessero in arditi edifici sonori. La ragione, l’intelligenza dell’uomo piegò lo spazio e inventò contrappunti di straordinario
spessore. Le tre, quattro voci della polifonia trecentesca non soddisfacevano più. I mottetti, le messe aspirarono ad uno sfarzo inaudito, quasi a voler davvero imitare la luminosità dell’inudibile musica mundana. E così Ockeghem lasciò un mottetto (un Deo Gratias) a trentasei voci, avventurosa costruzione inimitata.
Festa e musica s’incontrarono anche nell’idea del “travestimento”. Al “travestimento” dei cibi, al “travestimento” dei personaggi allegorici, allusivi alla celebrazione oggetto della festa [….] fece riscontro il “travestimento” musicale. Temi noti, popolari o sacri vennero ripresi nella musica fiamminga e riutilizzati ogni volta in modo diverso. Nacquero a centinaia messe sul tema popolare francese dell’Homme armé. Contava l’originalità non tanto nella creazione dell’idea musicale, quanto nell’elaborazione dell’idea stessa. L’intelligenza dell’uomo, insomma, al centro dell’Universo in un Quattrocento tormentato dallo sforzo di evadere da una visione metafisica.
Il banchetto forse più famoso del XV secolo fu tenuto al di fuori dell’Italia, a Lille, il 17 febbraio 1454. A questo Banchetto del fagiano presenziarono Filippo di Borgogna (fondatore dell’ordine cavalleresco del Toson d’oro) e il figlio Carlo. Era ispirato alla presa di Costantinopoli da parte dei Turchi il 29 maggio del 1453.
Fu un grande evento.¹ Le portate (ognuna delle quali di almeno quaranta piatti) venivano calate dal soffitto con argani. In un salone con le pareti ricoperte di tappezzerie erano collocate tre tavole: una grande, una media e una piccola. Su quella media, al centro della quale sedeva il duca Filippo il Buono, era costruita una chiesa in cui si trovavano quattro cantori, un organo e una campana. Sulla tavola grande (alla quale stava invece il figlio del duca, Carlo il Temerario) era collocato un fortino con ventotto cantori e suonatori di strumenti. Appena gli ospiti si furono accomodati, la campana della chiesa rintoccò e i quattro cantori (tre fanciulli e un tenorista) intonarono un brano polifonico come benedizione della mensa; seguì un pezzo per cornamusa proveniente dal fortino. Si arrivò così alla prima apparizione: dalla porta d’ingresso entrò, camminando all’indietro un cavallo sul quale suonavano due trombettieri. Poi dalla chiesa giunse il suono dell’organo cui rispose un cornetto dal fortino. Seconda apparizione: un mostro metà grifone, metà uomo recante sulle spalle un uomo che si teneva ritto sulle mani con i piedi in alto. Altri due pezzi musicali: dalla chiesa un brano corale, dal fortino un trio strumentale. Dal fondo della sala, da dietro una cortina di seta uscì il suono di quattro chiarine. Calata la cortina si susseguirono scene relative al mito di Giasone alla conquista del vello d’oro. Entrò poi in sala su un finto cervo una fanciulla di dodici anni che cantò la voce superiore di un pezzo polifonico (Je ne vis onque la pareille, un rondeau forse di Dufay), mentre un cantore dall’interno del cervo eseguiva la parte del tenor.
Ancora brani alternati dalla chiesa e dal fortino, scene di caccia, altre pagine musicali e poi la scena clou: l’ingresso di un saraceno con un elefante sul cui dorso era una torre. E nella torre sedeva la Santa Chiesa che esternò la propria disperazione intonando la Lamentatio Sanctae matris ecclesiae Constantinopolitaneae. Arrivarono poi messi preceduti dal primo araldo dell’ordine ducale del Toson d’oro che reggeva un fagiano vivo, adorno di un collare tempestato di pietre preziose. Lo seguivano due dame e due cavalieri. L’araldo si rivolse a Filippo, ricordandogli che “in occasione dei grandi banchetti fu sempre d’uso presentare un pavone o altro uccello pregiato agli illustri principi, signori e nobili, affinché potessero allearsi con solenne giuramento nelle imprese da compiere; così io, insieme con queste due dame sono qui per offrirti questo pregiato fagiano...”.
Il duca si levò in piedi, consegnò all’araldo un rotolo di pergamena e giurò solennemente di intraprendere quanto vi era scritto. Nel foglio si dichiarava che il duca Filippo avrebbe seguito il suo signore il re di Francia nella crociata, qualora il sovrano l’avesse proclamata, e che era pronto a sfidare il Sultano in singolar tenzone.
La Santa Chiesa ringraziò e si ritirò, sempre sul dorso dell’elefante, mentre gli altri nobili si affrettarono a sottoscrivere il giuramento. Entrò quindi una dama, Grazia di Dio, preceduta da tedofori e musicisti e accompagnata da dodici cavalieri (anch’essi recanti torce) che indossavano abiti neri e scarlatti e maschere d’oro e conducevano dodici dame velate in volto. Le dame avevano collari ornati di gioielli e sulla spalla sinistra portavano un foglio indicante in ciascuna una delle dodici Virtù. La Grazia di Dio avanzò e si presentò al duca, porgendogli una lettera (che venne declamata ad alta voce) nella quale si esprimeva la gioia di Dio e della Santa Vergine per la risposta ottenuta presso la corte di Borgogna.
Al termine della festa seguì un ballo cui parteciparono tutti gli interpreti della rappresentazione, gentiluomini e dame della corte.
La parte musicale della festa si articolò, dunque, in un’alternanza di esecuzioni di brani vocali e strumentali. Questi ultimi erano in generale trascrizioni di pagine vocali. Alcune musiche di Dufay e Binchois (e di altri artisti operanti a corte) sono infatti riportate in una versione strumentale nel manoscritto Buxheimer Orgelbuch, proveniente dalla scuola di Conrad Paumann, l’organista e compositore cieco che, proprio nel maggio 1454, Filippo il Buono ascoltò in un’esibizione alla corte di Baviera.
Cristoforo di Messisbugo
Il Cinquecento costituì uno dei periodi più straordinari e più complessi della storia dell’uomo. Fu un secolo di guerre e di scoperte, di scismi religiosi e di invenzioni, di incredibile fioritura artistica e di splendore architettonico.
La musica, la letteratura, la scultura, la pittura, l’architettura trovarono artisti geniali e mecenati generosi.
Richiesti nelle varie città, i musicisti iniziarono dunque a viaggiare più frequentemente che in passato. Di Leoninus e Perotinus, esponenti di punta dell’Ars Antiqua, si sa solo che vissero probabilmente tutta la vita a Notre–Dame. Ma nelle epoche successive troviamo gli stessi compositori impegnati in città diverse, divisi fra cattedrali e corti. Il consumo della musica aumentò sensibilmente e a questo contribuì l’invenzione della stampa musicale agli inizi del XVI secolo, a Venezia, ad opera di Ottaviano Petrucci. Le corti, dalle maggiori alle minori, gareggiarono fra loro in magnificenza.
La tavola rinascimentale era impreziosita dai cosiddetti trionfi: sculture di pergamena, legno, carta, coperte da miscele di amido e di zucchero.
Nei banchetti vi erano i “servizi di credenza”, piatti freddi, preparati in anticipo e i “servizi di cucina” composti con vivande calde e più elaborate delle altre. I servizi comprendevano decine di portate. I piatti comparivano in tavola tutti insieme. Il più geniale “cerimoniere” in campo gastronomico fu senza dubbio il palatino Cristoforo di Messisbugo, gentiluomo e cortigiano al servizio di Ippolito d’Este, che nel 1549 pubblicò a Ferrara, per i tipi di Buglhat e Hucher, Banchetti compositioni di vivande et apparecchio generale. Il volume ebbe poi nel 1559 una ristampa a Venezia con qualche aggiornamento.
Nella corte del cardinale Ippolito, spettava a Messisbugo non solo la preparazione culinaria del banchetto, ma anche tutto l’apparato di cornice, inclusa, quindi, la parte di spettacolo: balletti, concerti e letture di brani e monologhi. Il 24 gennaio 1529 Messisbugo organizzò una cena offerta dal duca d’Este e dal duca di Chartres (suo figlio) all’arcivescovo di Milano e agli ambasciatori di Francia e di Venezia. Centoquattro persone a tavola, un totale di nove servizi, fra credenza e cucina. Momento culminante dello spettacolo, la recita della Cassaria di Lodovico Ariosto. La musica inframmezzò inoltre le varie portate. Intervennero musici (fra i quali Alfonso della Viola, giovane ferrarese allievo di Willaert), cantanti e strumentisti; vennero impiegati viole, gravicembali, liuti, flauti, tromboni. Al termine della sesta vivanda “cantarono Ruzzante e cinque compagni e due femmine canzoni e madrigali alla pavana, bellissimi e andavano intorno la tavola contendendo insieme di cose contadinesche, in quella lingua, molto piacevoli, vestiti alla lor moderna...”.
I banchetti di Messisbugo, come quelli di tutto il secolo, si concludevano regolarmente con le danze. Dei balli dell’epoca ci dà preziose informazioni il libro Il Ballerino di Fabrizio Caroso da Sermoneta, pubblicato a Venezia nel 1581. Una danza in voga era il ballo del Cappello, in cui era la donna ad assumere l’iniziativa scegliendo il cavaliere con un cerimoniale tanto vezzoso e articolato che, ritenuto licenzioso, venne spesso proibito dalle autorità.
Baldesar Castiglione (1478-1529), nel Cortegiano (1528), affermava che il ballo doveva essere ben conosciuto dal perfetto uomo di società e dalla gentildonna, richiedendo un lungo studio sotto un valente maestro; per ballare bene, si richiedevano come requisiti “occhio languido, bocca ridente, vita fastosa, mani innocenti e piedi ambiziosi!”
Il ruolo del musicista
I banchetti descritti in precedenza consentono di notare la trasformazione avvenuta sul piano musicale. Intorno ai triclini, come si è visto, agivano in genere schiave assoldate per l’occasione; a volte erano gli stessi commensali a dar vita a esecuzioni poetico–sonore. Nel Rinascimento la cornice musicale era affidata invece a professionisti che hanno occupato un posto anche rilevante nella storia.
Scriveva nel 1528, nel citato Cortegiano, il Castiglione: “Io non mi contento del Cortegiano, s’egli non è ancor musico; e se oltre allo intendere, ed essere sicuro a libro, non sa di vari instrumenti; perché, se ben pensiamo, niun riposo di fatiche e medicina d’animi infermi ritrovar si può onesta e laudevole nell’ozio, che questa; e massimamente nelle corti, dove oltre al refrigerio de’ fastidii che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali teneri e molli facilmente sono dell’harmonia penetrati e di dolcezza ripieni. Però non è maraviglia se nei tempi antichi e ne’ presenti sempre esse stati sono a’ musici inclinate, ed hanno avuto questo per gratissimo cibo d’animo...”.
Il perfetto cortigiano, dunque, doveva conoscere e apprezzare la musica che ingentilisce gli animi, distoglie dalle preoccupazioni, allieta le dame.
Il Rinascimento ha tuttavia sancito l’affermazione della musica come professione. Non solo. Se nel secolo precedente (pensiamo ad esempio a Dufay o ad altri illustri fiamminghi) il musicista era un intellettuale in possesso di una profonda cultura e, pertanto, impiegato con mansioni varie, fra le quali, anche l’attività musicale; nel Cinquecento il musicista lavorava come operatore musicale, scriveva, sovraintendeva alle esecuzioni, era impiegato a corte, nelle chiese o a servizio delle città con mansioni specifiche. Se prima era diplomatico o ecclesiastico, nel XVI secolo in genere (le eccezioni, allora, come in seguito, erano possibili: si pensi in epoca barocca a Vivaldi) non faceva parte del clero né veniva utilizzato per le sue capacità extrartistiche, bensì esclusivamente in quanto compositore e responsabile musicale. Così fu, ad esempio, per Orlando di Lasso che, nel 1563, divenne Kapellmeister alla corte bavarese di Monaco.
“Ogni mattina – ha scritto Raynor² – doveva provvedere alla musica per la messa solenne nella chiesa di San Lorenzo ed ogni giorno c’era la Tafelmusik per intrattenere l’arciduca alla sera; e che quest’ultimo fosse un compito impegnativo lo rivela la quantità di musiche composte per la preghiera di ringraziamento Agimus tibi Gratias da eseguirsi prima dei pasti...”.
Alla corte dei Gonzaga, a Mantova, lavorava invece Claudio Monteverdi, mentre a Ferrara (dominata da Cristoforo di Messisbugo e a lungo frequentata da Torquato Tasso) presso la famiglia d’Este (che vantava una ricca cappella musicale con vari cantori e strumentisti a libro paga) operarono, nell’arco del Cinquecento, artisti illustri: basta citare Josquin Desprès, Bartolomeo Tromboncino (uno dei creatori di una forma vocale tipica del tardo Quattrocento italiano, la frottola), Adriano Willaert (punto di riferimento fondamentale della scuola veneziana: suo allievo fu il già citato Alfonso della Viola, nome di prestigio alla corte estense accanto a Luzzasco Luzzaschi, abile madrigalista, maestro di Girolamo Frescobaldi), Cipriano de Rore, Jaches de Wert. De Wert frequentò assiduamente la corte estense dove si innamorò della cantante Tarquinia Molza, componente con Laura Peperara e Lucrezia Bendidio del celebre “Trio delle dame”. Cantatrici abilissime e, si dice, assai affascinanti, per le quali molti compositori dell’epoca crearono intense liriche amorose, le tre dame allietavano le serate a corte con il loro canto fine, dolce, raffinato.
A Ferrara, infine, trovò pure pace e nuovo amore Carlo Gesualdo principe di Venosa, nobile, musicista dilettante, mecenate, fra i più grandi madrigalisti del suo tempo. Nel 1590 aveva ucciso la moglie, Maria d’Avalos e l’amante di lei, sorpresi a letto. Rifugiatosi alla corte ferrarese, nel ’94 sposò Eleonora d’Este, nipote di Alfonso II.
Note
- La descrizione del banchetto è tratta da R. Strong, Arte e potere – Le feste del Rinascimento 1450 – 1650,, (trad. Remo Miserocchi) Il Saggiatore, Milano, 1987 e da F.A.Gallo, Il Medioevo II, (“Storia della Musica” a cura della Società Italiana di Musicologia) EDT, Torino, 1979
- Per questa e la successiva descrizione, C.di Messisbugo Libro Novo, Venezia, 1559, ristampa ed. Forni, Firenze, 1982
Roberto Iovino
professore di Religione cattolica
all’Istituto professionale di Stato
per i servizi alberghieri
e della ristorazione
“Giacomo Matteotti” di Pisa