Ulisse, Polifemo e il cibo degli dei
Il rapporto tra cibo e tecnologie è antico e si può far risalire alla domesticazione delle piante e degli animali e all’inizio dell’agricoltura: fin da allora i più importanti alimenti e bevande erano prodotti facendo uso inconsapevole di quelle che potremo definire biotecnologie “ante litteram”, e utilizzando i microrganismi, senza vederli e senza conoscerne l’esistenza. Una delle più belle testimonianze di questo rapporto si trova nell’Odissea, nel passo in cui Ulisse ci parla del ciclope Polifemo intento a trasformare il latte in formaggio. Il casaro Polifemo, dopo aver fatto “tutto in modo giusto”, fa cagliare il latte e lo depone in canestri intrecciati. Sono proprio questi canestri che danno il nome al formaggio, dal greco formos (canestro di giunco nel quale sgronda la cagliata). Sull’origine del formaggio si narrano diverse leggende, ma è probabile che la tecnologia per produrlo si sia sviluppata dopo l’osservazione del latte che cagliava spontaneamente dopo essersi contaminato con i fermenti presenti nell’ambiente. Anche l’origine del vino, della birra e del pane si perde nella preistoria: è probabile che la loro scoperta sia avvenuta accidentalmente, in quanto qualsiasi mosto o composto zuccherino fermenta naturalmente, grazie alla presenza dei lieviti con cui viene in contatto. Le biotecnologie “ante litteram” furono utilizzate fin dall’antichità principalmente allo scopo di trasformare gli alimenti e conservarne grandi quantità per lunghi periodi.
Oggi le biotecnologie rappresentano gli elementi fondamentali della nostra vita quotidiana: proviamo ad immaginare solo per un momento un mondo senza biotecnologie: dovremmo fare a meno di cibi e bevande prelibati come pane, formaggi, pizza, yogurth, vino, birra, caffè, cacao, ma anche di un grande arsenale di sostanze che ci proteggono contro le infezioni e le malattie. È interessante ricordare la definizione di biotecnologie, come l’uso integrato di microbiologia, biochimica e ingegneria al fine di realizzare l’applicazione industriale delle capacità potenziali di microrganismi, cellule di tessuti coltivate e loro parti. Questa definizione individua i microrganismi come i principali protagonisti delle biotecnologie: essi sono utilizzati per le loro capacità fermentative e sono alla base non solo della produzione di alimenti e bevande, ma anche di molti prodotti terapeutici come gli antibiotici, il cortisone, le vitamine, le statine, gli immunosoppressori, la pillola anticoncezionale. Un esempio che illustra molto chiaramente la definizione di prodotto biotecnologico riguarda uno degli antibiotici più noti, la penicillina. L’uso integrato di conoscenze microbiologiche, biochimiche e ingegneristiche ha fatto sė che un microrganismo, nel caso specifico una muffa, potesse essere sfruttato industrialmente per produrre la penicillina. Le applicazioni delle conoscenze di genetica e microbiologia hanno portato alla selezione di ceppi microbici altamente produttivi, mentre le scienze ingegneristiche hanno migliorato il processo industriale, permettendo di produrre a basso costo ed in notevoli quantità un antibiotico che ha salvato migliaia di vite umane.
È solo a partire dagli anni settanta che la parola biotecnologie ha assunto un significato più ampio, comprendendo anche le tecnologie che utilizzano l’ingegneria genetica per modificare il corredo di geni dei vari organismi. Poiché il codice genetico è universale, i geni prelevati da microrganismi o da animali possono funzionare bene anche nelle piante e viceversa: i geni trasferiti tra specie, generi e famiglie diverse vengono chiamati transgeni e gli organismi che subiscono la trasformazione genetica organismi transgenici. Molte delle applicazioni di ingegneria genetica sono intervenute nel patrimonio genetico di alcuni microrganismi allo scopo di ottenere prodotti per il benessere e la cura degli esseri umani, come l’insulina, i vaccini, l’interferone, la somatostatina, e altre sostanze terapeutiche fondamentali per la vita.
Fino a qui però non erano stati sollevati problemi: il dibattito mondiale si è scatenato quando dalla produzione di organismi e farmaci transgenici, in ambiente confinato, all’interno delle industrie, si è passati alla coltivazione di piante transgeniche in ambiente aperto e alla produzione di cibo transgenico. Dal 1994 ad oggi è stata autorizzata la produzione di varietà di piante transgeniche, la cui coltivazione si è rapidamente estesa da 1,6 milioni di ettari nel 1996 a circa 100 milioni di ettari nel 2007. Le modificazioni genetiche che hanno avuto più successo sono quelle che permettono di accrescere la tolleranza agli erbicidi e la resistenza ad alcuni insetti dannosi. L’85% di tutte le piante transgeniche coltivate nel mondo è rappresentato da piante progettate in modo da tollerare alcuni specifici erbicidi: in questo modo le grandi multinazionali agro–chimiche, biotecnologiche e sementiere possono vendere sia i semi transgenici, da loro messi a punto e brevettati, sia l’erbicida chimico che è loro associato. Questo dato spiega i motivi per cui il dibattito sulle coltivazioni transgeniche si è incentrato in Europa soprattutto sul fatto che queste colture non rappresentano un vero cambiamento rispetto all’agricoltura intensiva, che fa largo uso di prodotti chimici di sintesi, perchè senza risolvere i vecchi problemi relativi alla qualità del cibo e dell’ambiente, può essere all’origine di nuovi rischi, tutti ancora da definire.
Varie organizzazioni di cittadini e consumatori, alcune riviste scientifiche e singoli scienziati si sono posti domande precise riguardo ai possibili pericoli legati al consumo di cibo transgenico e alla coltivazione in campo aperto delle piante transgeniche. La domanda più frequentemente posta, soprattutto da parte delle organizzazioni dei consumatori, non ha purtroppo trovato risposte certe, in quanto mancano studi epidemiologici sugli esseri umani che si cibano di prodotti derivati da tali piante. Questi prodotti, infatti, sono stati commercializzati sulla base del principio della “sostanziale equivalenza”, che prevede la immissione sul mercato di un alimento transgenico quando i valori riguardanti le sue proprietà nutrizionali, il contenuto in proteine, lipidi, carboidrati, sali minerali, vitamine o altre sostanze risultino comparabili con quelle dello stesso tipo di alimento non modificato già esistente sul mercato. Un’importanza minore è stata fin qui riservata alla caratterizzazione molecolare delle piante transgeniche e alla organizzazione del loro genoma. Non si considerava che l’inserimento di un gene estraneo in un organismo può provocare effetti diversi sull’espressione dei geni indigeni a seconda della posizione che il nuovo gene si trova ad occupare nel DNA ospite e, se questo gene estraneo va ad interferire con il funzionamento di vie metaboliche fondamentali e non è opportunamente regolato nella sua espressione, può scatenare reazioni imprevedibili.
Numerosi studi e ricerche hanno richiamato l’attenzione sugli “eventi inaspettati”, relativi alla coltivazione di piante transgeniche, come: la diffusione di transgeni attraverso la ibridazione tra specie transgeniche coltivate e specie selvatiche correlate, l’incremento nelle piante coltivate della resistenza ad erbicidi, la contaminazione del pool genetico naturale e la creazione di ibridi “superinfestanti” dotati di doppia o tripla resistenza agli erbicidi, l’evoluzione della resistenza alle tossine transgeniche negli insetti-target, il rilascio nel suolo delle tossine transgeniche da parte delle radici, il trasferimento di geni ingegnerizzati dalle piante transgeniche ai batteri del suolo, l’impatto delle colture sui microrganismi benefici del suolo.
Alcuni recenti sviluppi delle tecniche di ingegneria genetica, utilizzati ad esclusivo vantaggio delle multinazionali agrobiotecnologiche, hanno sollevato problemi etici riguardanti l’uso della scienza e delle scoperte scientifiche. Basti pensare ai brevetti sull’infertilità, come quello denominato “Terminator”, che permette di proteggere i geni brevettati inseriti nelle piante modificate attraverso l’aggiunta di un pacchetto di altri geni che hanno l’effetto di rendere sterile il raccolto, così da impedire al coltivatore di impiegarlo in una nuova semina. L’autorizzazione a commercializzare tali piante potrebbe provocare un’ulteriore concentrazione nelle mani di poche multinazionali delle più importanti piante alimentari, e quindi della produzione di cibo. Il controllo e la vendita delle sementi transgeniche brevettate potrebbe dare origine ad un vero e proprio monopolio alimentare. Inoltre, se tale brevetto fosse introdotto in alcune colture fondamentali come il riso o il grano, i contadini non potendo più reimpiegare i semi prodotti dal loro raccolto, finirebbero per dipendere strettamente dall’industria, con conseguenze disastrose per la sopravvivenza delle popolazioni dei paesi più poveri, dove tale pratica, secondo stime della FAO, interessa più di un miliardo di persone.
Manuela Giovannetti
professore di Microbiologia agraria
mgiova@agr.unipi.it