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Emergenza alimentare

Il vertice mondiale della FAO che si è tenuto a Roma a giugno del 2008 ha lanciato un forte allarme sull’emergenza alimentare del pianeta. Agli oltre 900 milioni di affamati annualmente censiti dalla stessa FAO, se ne va aggiungendo un numero imprecisato che aumenta di giorno in giorno. Analisti e commentatori hanno chiarito soprattutto le ragioni congiunturali di ciò che sta avvenendo: crescita della domanda (soprattutto di carne e quindi di mangimi nei paesi emergenti), annate di prolungata siccità in importanti regioni cerealicole, vaste superfici di suoli convertiti ai biocarburanti, aumento del prezzo del petrolio, speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime e così via.

L’attuale fase, tuttavia, non è figlia del caso, il fatale combinarsi di “fattori oggettivi”. Vari commentatori negli stessi giorni hanno messo in luce le responsabilità dell’Occidente nel determinare le condizioni attuali. Ma le responsabilità non sono solo recenti, rimandano a una storia di scelte e di strategie che occorre rammentare se si vogliono trovare soluzioni durevoli ad un problema di così scandalosa gravità.

La diffusione epidemica della fame nel mondo ha una origine storica ormai non più recente. Essa nasce con la “rivoluzione verde” avviata dagli USA negli anni ’60 in vari paesi a basso reddito e proseguita con crescente intensità nei decenni successivi. Quella rivoluzione venne definita verde perché aveva il compito strategico di contrastare, nelle campagne povere del mondo, l’onda rossa del comunismo. Essa doveva impedire che l’avanzare di una rivoluzione sociale investisse altre aree del mondo povero di allora. Ed era verde non perché rivestisse anticipatrici connotazioni ambientalistiche, ma perché puntava a una radicale trasformazione tecnologica dell’agricoltura senza sovvertire i rapporti di proprietà: non la liquidazione dei latifondi (ancora così diffusi in tutti i continenti), né la distribuzione della terra ai contadini, ma una via tecnologica.

uomo in cammino

Quella “rivoluzione” puntava a innalzare la produzione unitaria, a modernizzare le campagne sul modello occidentale, risolvere il problema elementare del cibo per tutti e fornire così un potere stabile alle classi dirigenti locali amiche dell’Occidente. In una fase storica in cui una moltitudine di paesi si stava liberando dal giogo coloniale, una rivoluzione sociale nelle campagne costituiva una eventualità tutt’altro che remota.

La “rivoluzione verde” si è imposta attraverso un dispositivo molto semplice: la diffusione di un “pacchetto tecnologico” composto da sementi ad alte rese, concimi chimici, pesticidi, ecc. Tutti gli elementi del pacchetto erano indispensabili e fra loro interdipendenti per la riuscita dell’innovazione. Senza i concimi chimici le sementi non davano rese elevate, senza i pesticidi le piante – selezionate in laboratorio – venivano decimate dai parassiti. E occorreva, infine, un ricorso senza precedenti all’uso dell’acqua.

D’un colpo i saperi millenari con cui i contadini avevano provveduto sino ad allora alla produzione del proprio cibo venivano sostituiti da uno schema tecnologico calato dall’alto su cui essi non avevano più alcun potere. Non potevano più utilizzare le loro sementi, perché dovevano ormai acquistarle all’esterno, e così il concime, i pesticidi, più tardi i diserbanti e così via. Essi dovevano limitarsi ad applicare i dettami di una scienza esterna di cui non capivano i meccanismi e che alterava gravemente il loro habitat naturale; al tempo stesso la loro agricoltura diventava dipendente dall’industria agrochimica occidentale.

Oggi i contadini che sono rimasti sulla terra subiscono l’aumento generale dei prezzi di tutti questi input esterni dipendenti dal petrolio. L’introduzione degli ogm aggiungerebbe a queste spese di esercizio anche il pagamento delle royalties sui semi protetti da brevetti.

uomo che porta

Ma allo stravolgimento culturale si è accompagnato, ancor più violento, lo sradicamento sociale. La grande maggioranza dei contadini non era in grado di reggere le spese di esercizio di quella nuova agricoltura e abbandonava le campagne. D’altra parte, per applicare con piena efficienza economica il pacchetto tecnologico occorreva puntare sulle grandi aziende, accorpare le piccole proprietà coltivatrici, abolire le agricolture miste (che garantivano l’autosufficienza alimentare delle famiglie), estendere le monoculture, introdurre i trattori. Era il trionfo dell’agricoltura industriale, con pochi addetti (in regioni del mondo affamate di lavoro!) che aumentava significativamente la produzione globale dei vari Paesi, ma spingeva milioni di contadini ad abbandonare la terra, costringendoli a comprare il modesto cibo quotidiano che prima producevano con le proprie mani. Ma quei contadini non hanno trovato fonti di reddito alternative. Diversamente da quanto è accaduto in Europa o in USA, nella seconda metà del ’900, non hanno avuto la possibilità di trovare lavoro nelle fabbriche o nei servizi urbani. Hanno creato un nuovo esercito di poveri. La crescita delle megalopoli asiatiche e latino–americane, la diffusione delle baraccopoli in Africa e in varie altre regioni del mondo, nel secolo scorso, sono in gran parte l’esito di queste migrazioni rurali. E qui la fame trionfa.

A partire dagli anni ’80, con le politiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale volte ad “orientare al mercato” le economie dei Paesi a basso reddito, le scelte avviate con la rivoluzione verde hanno ricevuto una definitiva consacrazione, nonostante il loro fallimento fosse già allora ineccepibile. L’innegabile successo economico–produttivo di quelle scelte non ha affatto scalfito l’iniquità sociale dei rapporti sociali e dell’accesso ai mezzi di produzione, soprattutto alla terra.

È esemplare il caso dell’India: tra il 1966 e il 1985 la produzione di riso è passata da 63 milioni di tonnellate a 128, facendo di questo paese uno dei maggiori esportatori di derrate fra i paesi poveri. Eppure la maggioranza degli oltre 900 milioni di affamati si trova oggi in India, dove nel 2000 si è verificato un surplus di cereali di 44 milioni di tonnellate, che sono stati destinati all’esportazione. Ma diversamente esemplare è il caso dello Stato indiano del Kerala, dove nel 1960 è stata realizzata un’ampia riforma agraria, che ha distribuito la terra ai contadini – il 90% della popolazione – assegnando ad essi una superficie non superiore agli 8 ettari. La fame del resto dell’India qui è sconosciuta, l’ambiente è integro, le foreste ben curate. Eppure il Kerala ha una densità di 747 individui a kmq, il triplo di quella della Gran Bretagna. D’altra parte è ben noto: numerose ricerche condotte in USA, in Europa e in giro per il mondo hanno mostrato la più elevata produttività unitaria della piccola proprietà coltivatrice rispetto alla grande azienda agricola. Senza considerare che essa garantisce la rigenerazione della terra, impiega poca energia, acqua, pesticidi, conserva la biodiversità agricola, riduce la produzione di CO2. Dunque, dopo tanti decenni di questa “strategia verde” oggi tutti possono ammirarne i mirabolanti successi: il numero degli affamati nel mondo non è mai significativamente diminuito e oggi rischia di conoscere una nuova e tragica impennata. L’agricoltura dipende da potenze economiche inesistenti solo mezzo secolo fa: i colossi chimico–sementieri la cui strategia può condizionare la vita di intere popolazioni. Cargill, Dupont, Monsanto, ecc. accrescono i loro affari mentre anche nella civilissima Europa si diffonde il salariato agricolo “semischiavile” e ovunque continua l’esodo dalle campagne. Eppure governi, organismi internazionali, esperti perseguono nel loro vecchio errore: voler trasformare le campagne del Sud nella copia delle agricolture industriali occidentali. La panacea è sempre la stessa: garantire l’espansione del cosiddetto libero mercato. Pazienza se il mondo tende a diventare un’immensa megalopoli e le campagne si riducono a poche monoculture lavorate con le macchine.

Le regole della globalizzazione, poi, applicate all’agricoltura hanno dato risultati perversi e il “cittadino comune” rischia di perdere il senso delle cose ogni volta che prova a confrontarsi con una situazione che arriva sui giornali spesso frammentata. Proviamo a ristabilire un po’ d’ordine.

1) L’agricoltura familiare e locale (nella nostra tradizione: l’azienda diretta coltivatrice) non è stata valorizzata, grazie a scelte, a mio avviso, scellerate che hanno preferito incentivare l’agricoltura orientata al mercato. È una prima cesura importante. L’agricoltura deve produrre alimenti da servire in tavola o commodities, oggetti di speculazione in borsa? Si tratta di una scelta importante ed è stata privilegiata la seconda opzione. Se l’agricoltura produce merci da vendere, allora produce per coloro che hanno i soldi per comprarsela. Solo che devono mangiare tutti, anche quelli che soldi non ne hanno.

La risposta (sbagliata) è stata quella di incrementare ulteriormente la produzione di cibo (peraltro di scarsa qualità) da vendere, nella speranza che avrebbe potuto soddisfare le esigenze di chi non aveva soldi per comprarlo. Ma chi non ha soldi non li ha, e non può comprare nulla. Potrebbe invece, con un po’ di terra e un po’ di semi, coltivare. Ma a tal fine bisognava privilegiare l’agricoltura di piccola scala.

2) Quel modo di produrre cibo ha creato una serie di danni e richiede grandissimi input di energia. Allo stesso modo si comportano la maggior parte delle attività umane, produttive o no, che si sono sviluppate nel corso dell’ultimo secolo. Il risultato è stato da un lato l’aumento dell’inquinamento, dall’altro l’esaurimento delle scorte di carburante fossile, petrolio in primis.

La risposta (sbagliata) è stata quella di utilizzare le terre arabili per prodotti agricoli da trasformare in biocarburanti; naturalmente sempre secondo le logiche della grande produzione. Così occorre energia fossile per produrre energia non fossile, che comunque inquina. Inoltre, attraverso questo canale si insediano nei territori le colture geneticamente modificate (ogm). Dunque si sono ridotte le terre dedicate alla coltivazione (per il mercato) degli alimenti: e il mercato ha leggi abbastanza monotone, che reagiscono alla contrazione delle quantità prodotte con l’aumento dei prezzi.

3) La straordinaria quantità di energia consumata e di inquinamento, unita alle massicce deforestazioni, fa sì che aumenti notevolmente l’anidride carbonica in atmosfera: troppa rispetto a quella che le piante riescono a metabolizzare e a rispedire sotto terra, dove è bene che il carbonio riposi. Questa situazione ha tra i suoi effetti un sovvertimento degli equilibri climatici del pianeta, con surriscaldamento dei mari, siccità o alluvioni al di fuori della norma, evoluzione troppo rapida delle temperature. Le colture non sono in grado di adeguarsi, perché l’agricoltura fatta per vendere ha reso le sementi molto uniformi, molto bisognose di assistenza. Invece, le sementi dell’agricoltura tradizionale, hanno un’altissima variabilità interna che le rende più produttive in situazioni di emergenza. Ma l’agricoltura tradizionale e di sussistenza (che mira eminentemente ad avere un raccolto, non una vendita) non è stata privilegiata dalle scelte politiche.

4) La situazione attuale presenta da un lato prezzi alti dei cereali e dall’altro popolazioni molto povere che rischiano di entrare (o rientrare) nella spirale dell’insufficienza alimentare.

La risposta (sbagliata) è: bisogna produrre ancora di più e quindi bisogna utilizzare gli ogm. Ma si finge di ignorare due elementi chiave: il primo è che esiste già cibo sufficiente per tutti (sulla terra si produce cibo sufficiente per 12 miliardi di persone!), anzi se ne spreca una grandissima quantità, ma le popolazioni più deboli non hanno il denaro necessario, e se anche ne produrremo di più continueremo a tenerlo nei magazzini fino a quando non si presenterà qualcuno che, portafoglio alla mano, lo richiederà; il secondo è che gli ogm hanno dimostrato di non avere una particolare attitudine produttiva. Producono più o meno come le colture normali. E soprattutto si riducono sostanzialmente a uno: il mais. A meno di non voler inaugurare una nuova stagione di pellagra ad alta tecnologia, bisognerà rassegnarsi al pensiero di mangiare anche qualcos’altro. Oppure, visto che la maggior parte del mais, ogm o no, viene usato per l’alimentazione animale, la visione à quella di un mondo futuro di straordinari mangiatori di carne? I fatturati delle multinazionali delle sementi e dei prodotti agrochimici aumentano a ritmi vertiginosi, alimentando nei più attenti osservatori il dubbio che la loro principale preoccupazione non sia risolvere il problema della fame nel mondo.

Detto tutto questo, proviamo a porci una domanda: noi privilegiati abitanti del mondo ricco, quello che ha così ridotto il pianeta, di cosa dobbiamo preoccuparci? Proviamo anche a darci una risposta: non preoccupiamoci troppo per noi stessi. I nostri mercati continueranno a essere riforniti e se riusciremo ad avere un po’ di buon senso negli acquisti, valorizzando i prodotti locali, freschi e di stagione, anche il nostro portafoglio non ne risentirà poi troppo.

Bene, ora la preoccupazione che non destiniamo a noi stessi, proviamo a destinarla al resto del pianeta e agli abitanti che finora hanno subìto le scelte che privilegiavano il nostro stile di vita. Costruiremo le condizioni per il cambiamento culturale necessario ad un cambio di modello di sviluppo.

Giacomo Sanavio
vicepresidente della Provincia diPisa
vicepresidenza@provincia.pisa.it